Ciceruacchio e Don Pirlone/Capitolo VII

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Capitolo VII

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Capitolo Settimo.


Effetti dell’Allocuzione papale. — Dimissioni del Ministero Antonelli-Recchi. — Commozione popolare. — I Circoli, la moltitudine e la guardia civica. — Commissioni cittadine al Pontefice. — Parole di Pio IX al Pareto e al Bargagli. — I Cardinali guardati a vista. — Le angoscie patriottiche di Ciceruacchio. — Pio IX aggirato dal cardinale Antonelli. — La nuova notificazione papale getta olio sopra il fuoco. — Rivelazioni postume di monsignor Pentini. — La logica storica dimostra legittimi i tumulti. — Fiacchezza dei Ministri dimissionari. — Bontà e mansuetudine del popolo romano — L’incantesimo guelfo è rotto. — Riflessioni e ragionamenti dei liberali. — L’azione di Ciceruacchio nel popolare commovimento. — Un articolo della Pallade. — Il Ministero Mamiani. — Il programma di Terenzio Mamiami. — L’Epoca e il dottor Michelangelo Pinto. — Ferita insanabile e pannicelli caldi. — L’Allocuzione papale giudicata da scrittori di vari paesi. — Il Garnier-Pagès e il Cattaneo. — Il Settembrini e il Castelar. — Il Bianchi-Giovini e il Webb-Probyn. — Henry Martin ed Emilio Ruth. — Il Mazzini e il Mickiewicz. — L’Allocuzione biasimata da altri sessantaquattro scrittori — Indirizzi al nuovo Ministero. — L’azione della guardia civica nelle tre giornate. — Documenti nuovi. — Provvisioni patriottiche del Ministero Mamiani. — Il conte De Lutzow e la Pallade. — Il giornale il Labaro. — Il Contemporaneo e il conte De Lutzow. — Pio IX e gli stornelli di Francesco Dall’Ongaro. — Pio IX ancora amato non ostante l’Allocuzione. — I conti Mastai e i fiori del VI battaglione civico. — Ferdinando di Borbone e Ciceruacchio. — Le suppliche e le petizioni indirizzate a Sua Eccellenza Angelo Brunetti. — Il Consiglio di Stato. — Nomina dei componenti l’Alto Consiglio. — Il censo e il legnaggio. — Uomini insigni e uomini oscuri. — Le elezioni pel Consiglio dei deputati. — Ingenuità primitiva e inesperienza costituzionale. — Documenti nuovi. — I cento rappresentanti eletti. — L’avvocato Antonio Zanolini e il collegio di Bazzane. — Il ministro Galletti e il collegio di Castelmaggiore. — Carlo Berti-Pichat e Achille Gennarelli nel 1° collegio di Fermo. — L’avv. Ricca e il principe di Canino nel collegio di Montefiascone. — Il cav. Neroni e il conte Palmaroli nel collegio di Ripatransone. — Il principe Borghese e il marchese Muti Papazzurri Savorelli nel collegio di Ronciglione. — Le elezioni multiple. — Gli eletti a primo scrutinio. — Gli eletti all’unanimità. — Elettori diligenti ed elettori negligenti. — Le candidature ecclesiastiche. — L’avv. Galeotti e monsignor Severa nel collegio di Città della Pieve. — Gli uomini insigni del Consiglio legislativo. — Fisionomia dell’Assemblea. — I moderati e i loro duci. — I democratici non ancora repubblicani. — Il Mazzini, la Pallade e il Contemporaneo. — I progressisti del partito Mamiani. — Altre notizie statistiche intorno all’Assemblea legislativa romana.

L’Allocuzione del 29 aprile, scritta e pubblicata in latino contorto e curiale, che era opera di monsignor Palma, secondo [p. 388 modifica]ciò che afferma il Pianciani1, non fu intesa nel suo significato e nel suo vero valore, neppure da coloro che sufficientemente intendevano il latino: per cui, per tutta la giornata del 29, non si levarono rumori e, tranne la perturbazione che la parola del Papa produsse, in poche ore, nell’animo dei Ministri, l’Allocuzione non diè luogo a commenti e recriminazioni che nella sera dal 29 al 30 aprile. La sera del 29, intanto che nei Circoli romano e popolare si andava traducendo e commentando l’Allocuzione papale e cominciavano a comprendersene gli arcani sensi, nascosti nell’avviluppato - l’epiteto è del Pasolini - latino in cui era scritta e intanto che incominciava, perciò, a manifestarsi il malcontento, il Ministero Antonelli-Recchi, rassegnava le sue dimissioni al Pontefice2, il quale, ma perchè? ma che cosa c’è - andava ripetendo meravigliato ed afflitto - e si sforzava di attenuare il significato dell’Allocuzione: perchè forse la oscurità della frase latina (che pareva essere stata adoperata a bello studio dalla segreteria) aveva tratto lui stesso a ciò che non avrebbe voluto3.

Frattanto, la mattina del 30 aprile, si cominciavano a formare per la città gruppi e capannelli: si parlava dell’Allocuzione, se ne commentava il contenuto con grande vivacità; giacchè, oltre alla preoccupazione generale che la parola pontificia produceva in riguardo alla guerra nazionale, una preoccupazione, più particolare a parecchie migliaia di cittadini, i quali avevano i figli e i fratelli fra i combattenti che avevano varcato il Po, si impadroniva degli animi e li concitava e li esagitava e tale preoccupazione era questa: quale sarà la condizione e quale il [p. 389 modifica]trattamento a cui si troveranno esposti i volontari romani, venuti a guerra con gli Austriaci e sconfessati dal Pontefice?

Domanda abbastanza grave, la quale - giova ripeterlo - se la volgevano l’un l’altro parecchie migliaia di cittadini, pensosi dei figli e dei fratelli e che, perciò, non poteva non riuscire ad accrescere lo sdegno e le passioni popolari contro l’Allocuzione, che, già, di per sé, agli occhi dei più appariva, e doveva di necessità apparire, un abbandono, una fuga, un tradimento.

Onde l’agitazione popolare divenne presto fermento e il fermento poco tardò a mutarsi in tumulto.

Ed è naturale che, levatosi.il popolo a rumore - e poiché il rumore aveva origine da una causa politica, - doveva accorrere là dove era il centro degli uomini politici, cioè ai Circoli: onde sono puerili, per non dire sciocche, le querimonie che i Balleydier, i De Saint-Albin, gli Spada ed altri siffatti scrittori papalini muovono su quel naturalissimo raccogliersi della gente agitata nei Circoli. dove mai aveva da accorrere la gente? Forse nei lontani luoghi e disabitati, al bosco della ninfa Egeria, al sepolcro di Cecilia Metella; o forse nella Chiesa di Sant’Ignazio o nella sacrestia di San Pietro?

Lungo la via del Corso, adunque, dinanzi al caffè delle Belle Arti, avanti alle sedi dei Circoli popolare, romano e commerciale, a piazza Colonna si raccoglievano, accese e frementi, le turbe, chiedendo e dando spiegazioni, imprecando, bestemmiando e proponendo i più strani ed opposti partiti.

Dalle sale dei Circoli, piene zeppe di gente, partivano deputazioni inviate ai Ministri e una ne partì, sul mezzodì del 30, composta dei principi Corsini e Doria e del duca di Rignano, spedita al Papa.

La guardia civica, spontaneamente, senza aspettare ordini, si raccoglieva in armi; del che pare vogliano farle carico il Minghetti e il Farini, quasi che in un sommovimento come era quello e dinanzi ad una sventura nazionale quale era quell’inaspettato rivolgimento di sentimenti e di opinioni da parte del Papa, in quei supremi momenti, in cui più che mai ferveva la guerra - sventura di cui essi stessi, il Minghetti e il Farini, non possono non riconoscere la gravità e l’importanza - non fossero [p. 390 modifica]logiche e naturali e la collera popolare e il subitaneo correre alle armi di coloro, che legittimamente ne erano forniti!

Il Papa, frattanto, procurava, sempre meravigliato e stupefatto di tutti quei clamori, di calmare i Ministri e le Commissioni, che andavano a lui, affermando che non era stato compreso, che egli non aveva inteso e non intendeva di abbandonare la causa italiana, che in lui e’ erano due persone, il Pontefice e il Principe, che egli aveva parlato come Pontefice e prometteva - poiché i Romani non capivano il latino - di parlar subito e chiaramente in italiano, in guisa da soddisfare tutti; e pregava i Ministri a restare al loro posto e le Deputazioni incaricava di riferire a tutti le sue parole e di placare l’ira, per lui inesplicabile e incomprensibile, del popolo4.

Ma, nonostante che il principe Corsini, senatore di Roma, uomo molto amato e popolare, e il professor Orioli, assai stimato allora, ed il conte Terenzio Mamiani, popolarissimo fra tutti gli uomini politici, si affannassero a calmare la irritazione della cittadinanza, non vi riuscivano, perchè parecchi altri oratori fra cui segnatamente lo Sterbini e il napolitano Pier Angelo Fiorentino, parlavano, come naturalmente dovevano parlare due antichi carbonari e cospiratori, a fronte di quella tremenda delusione, la quale faceva rinascere nei loro petti tutte le vecchie diffidenze e gli antichi rancori contro il Papato, contro i preti, contro i gesuiti, dei quali, in quel tradimento, le loro anime patriottiche vedevano, ancora una volta, le nefande gesta.

Perciò, continuando il tumulto e le esasperazioni degli animi, varii manipoli di guardia civica, istintivamente, senza ordine del Comando generale, corsero ad impadronirsi delle porte della città e vi si posero a custodia.

Il Corsini, il Doria e il Mamiani andarono in Commissione al Papa, e, tornando, fecero sapere che esso aveva accettato le dimissioni del Ministero Antonelli-Recchi e che incaricherebbe della costituzione del nuovo Ministero il cardinale Ferretti.

Il Pareto, ambasciatore di Piemonte, e il Bargagli, rappresentante della Toscana, si condussero prima dal cardinale Antonelli [p. 391 modifica]poi dal Papa; ma trovarono questo irremovibile. «Come italiano, loro disse, vagheggio la prosperità della nazione e ne veggo il miglior fondamento nella sica indipendenza e nella confederazione de’ suoi Stati. Ma come capo della Chiesa e in corrispondenza di quei principii di pace da me proclamati negli esordii del mio pontificato, né debbo, nè posso dichiarar guerra a una potenza, che non me ne ha dato cagione. Tuttavia, a calmare l’effervescenza degli animi, cagionata dalla sinistra interpretazione che gli agitatori hanno voluto dare alle cose da me dette al Sacro Collegio, farò qualche pubblico atto. Ove esso non sia tenuto per bastevole, sono apparecchiato a tutto, né mi spaventa cosa alcuna che sia per conseguitare al mio principato temporale, alla mia vita, a quella dei Cardinali, La mia coscienza mi impone imperiosamente di sacrificar tutto al rimorso di aver potuto dar cagione alla Germania di quello scisma, del quale è minacciata al presente»5.

E il Papa, dal suo punto di vista, aveva ragione: quelli che avevano torto erano tutti quei Ministri, quegli ambasciatori, quegli agitatori, quella moltitudine che volevano assolutamente costringere il Papa ad essere italiano, mentre egli era e doveva restare cattolico, che volevano far tornare il Papa e tornare essi stessi a dibattersi fra le punte aguzze e gli equivoci della contraddizione, donde Pio IX, risolutamente, con l’Allocuzione del giorno innanzi, aveva voluto uscire ed era uscito: erano essi, i patrioti italiani che avevano torto, essi che, spinti dal l’ardente amore della causa nazionale, di cui avrebbero voluto ad ogni costo assicurare il. trionfo, si ostinavano a volere alleato alla grande impresa il Pontefice.

E dico che ebbero torto, volendo io, per farmi intendere, pronunciare, per un momento, giudizio subiettivo di postero sapiente della scienza del poi; perchò, obiettivamente considerando gli avvenimenti nel tempo e nello spazio in cui accaddero, non potrei e non dovrei dire che ebbero torto; avvegnaché io sia convinto che ai padri nostri, a quei di, dovesse sorridere, naturalmente, la speranza di ritrarre ancora a favorire la causa [p. 392 modifica]nazionale quel Papa Pio IX, da loro svisceratamente amato e ammirato, fino a quel di 29 aprile e che essi credevano allora e ne erano convinti - traviato a chiarirsi avversario della guerra di indipendenza non da’ suoi scrupoli, da’ suoi pregiudizi, dalla sua debolezza d’animo e di mente e dalla forza impellente dell’altissimo ufficio, di cui era investito, ma unicamente dalla perniciosa influenza e dalle violenti pressioni adoperate sul suo animo buono, troppo buono, dai Cardinali, dai gregoriani, dagli ambasciatori stranieri e dai gesuiti.

Cosicché, a stretto rigore, secondo il mio giudizio - per quel tanto che esso può valere - considerando le cose là dove avvennero e nel tempo in cui avvennero, mi pare che avesse ragione, dal suo punto di vista, il Papa e che avessero, dei pari, ragione, dal punto di vista loro, i patrioti romani: egli a voler negare il suo assenso alla guerra, essi a volere che, a qualunque costo, egli lo desse.

Ma, badiamo bene però, perché secondo il mio ragionamento, accettate le premesse, bisogna, per ossequio alla logica, accettarne le conseguenze, le quali, ineluttabilmente, conducono a questa conclusione: quell’Allocuzione, lo scoppio della contraddizione che ne fu l’immediato effetto, e il dissidio irreparabile che ne scaturì, e che presto apri un abisso fra i contendenti, condussero ad una matematica dimostrazione: il dogma essere inconciliabile con la libertà, il pontificato cattolico inconciliabile col principato italiano raccolto nella stessa persona, e, per conseguenza ultima e finale, il potere temporale dei Papi inconciliabile con l’unità e indipendenza d’Italia.

Ma, per tornare alla tempesta suscitata dall’Allocuzione par pale, dirò che la notizia diffusasi essere intenzione del Pontefice chiamare alla costituzione del nuovo Ministero il cardinale Ferretti, non era tale da calmare, ma anzi da inasprire gli animi; poiché il Ferretti era caduto, in conseguenza alla proibizione data dal Ministero da lui presieduto alla manifestazione popolare del 1° gennaio; onde il suo nome, tanto popolare il giorno della sua assunzione al potere e, cioè, il 17 luglio dell’anno precedente, era divenuto altrettanto impopolare nell’aprile del ’48.

Fatto sta che la guardia civica, mossa da un energico impulso stintivo, che provava, oltre all’evidenza, tutto il patriottismo e [p. 393 modifica]il liberalismo, onde essa, contrariamente alle causistiche sottigliezze degli storici papalini, era veramente animata, fra la sera del 30 aprile e il mattino del 1° maggio, senza ordine del Comando generale occupò tutte le porte della città, impedendone l’uscita a coloro che fossero sospetti di sanfedismo. E, non contente a ciò, le milizie cittadine mandarono un loro distaccamento entro il forte di Castel Sant’Angelo, posero guardie alle porte delle case abitate dai cardinali Bernetti, Gazzoli, Ostini, Ugolini e Vannicelli-Casoni - poichè, di già, ai primi clamori, i cardinali Antonelli, Della Genga, Ferretti, Gizzi, Lambruschini, Mattei e Patrizi, avevano riparato presso il Papa, al Quirinale - e arrestarono tutti i corrieri, che arrivavano e che partivano, per intercettare le comunicazioni fra i nemici interni ed esterni della patria.

La sera del 30 aprile vi fu una riunione generale dei soci di parecchi Circoli nelle sale di quello dei commercianti. Vi si affollarono e stiparono più di millecinquecento cittadini, fra cui molti civici capitanati da Ciceruacchio. Ivi parlarono, in vario senso, il Mamiani e lo Sterbini, l’Orioli e il Fiorentino e vi fu deliberato l’invio di un’altra deputazione al Papa, per indurlo a richiamare al potere il Ministero Recchi - meno il cardinale Antonelli, divenuto in quelle ultime quarantotto ore inviso ai più - e a metter fuori una dichiarazione in cui Pio IX, quale Principe italiano, affermasse di voler continuare la guerra contro lo straniero.

Il Papa, al 1° maggio, manda il generale Rospigliosi a casa del cardinale Bernetti, perchè conduca questo porporato al Quirinale; e qui lo Spada afferma che i civici, i quali stavano a guardia del Bernetti, si ribellarono al Generale e non vollero lasciar partire il Cardinale; ma il Minghetti, che di questi avvenimenti ha dettato e inserito nelle sue Memorie una specie di cronaca, ora per ora, lo smentisce solennemente ed afferma che il cardinale Bernetti dichiarò fidarsi dei civici che stavano a guardia della sua abitazione e non volersi muovere6.

I più passionati e caldi fra i soci dei Circoli stavano riuniti permanentemente: nelle sale del Circolo dei commercianti, del [p. 394 modifica]romano, del popolare, la gente andava, usciva, tornava, discuteva animatamente, proponeva provvedimenti, domandava notizie e ne recava li dentro, e spesso delle più strane ed inverosimili, come nei popolari trambusti suole avvenire.

Ciceruacchio era fra i più agitati e commossi, avvegnachè qualunque cosa abbiano voluto dirne in contrario gli scrittori parziali ed ingiusti della fazione papale - egli fosse percosso, stordito, trambasciato da quella inattesa e malaugurata Allocuzione, che veniva ad infrangere il suo idolo. Pio IX. Non già che egli attribuisse la colpa dell’Allocuzione ai Pontefice, oibò: per lui Pio IX era sempre il buono, il nobile, il generoso Pio IX, amico delle riforme, della libertà, della indipendenza italiana; gli iniqui, gli infami, che glielo guastavano, che glielo corrompevano, quel suo idolo, approntando della buona fede di lui, del suo soverchio candore, della sua sconfinata lealtà, erano i Cardinali - il Lambruschini sopra tutti, questa era la sua opinione erano i gregoriani, i sanfedisti e i gesuiti; ma quanto a quell’angelo di Pio IX era sempre un angelo ... e più Ciceruacchio vedeva annebbiarsi quel suo idolo, più lo vedeva traballare sul suo piedistallo e tanto più si aggrappava a lui, tanto più a lui si avviticchiava e tanto più teneramente lo amava7.

[p. 395 modifica]La mattina del 1° maggio, mentre una nuova deputazione veniva inviata al Papa dai Circoli, la quale era presieduta dal conte Mamiani e doveva domandare al Pontefice, non già che egli dichiarasse la guerra - come si era chiesto il giorno innanzi, ma bensì che nominasse un Ministero liberale, con facoltà di dichiararla, il Ministro dimissionario principe Simonetti accorse in Campidoglio, dove Ciceruacchio aveva fatto portare tutte le lettere dirette ai Cardinali perchè ivi fossero aperte e lette, avvegnachè egli fosse convinto, e con lui moltissimi popolani, che dalla lettura di quelle corrispondenze potessero rilevarsi le traccie della congiura di cui, egli e i suoi amici credevano - e forse meno erratamente di ciò che altri pensi - che l’Allocuzione papale fosse l’effetto. Il principe Simonetti riuscì, aiutato dal principe Corsini senatore, a impedire l’apertura delle lettere intercettate, le quali furono recapitate alle persone cui erano indirizzate.

La nuova deputazione inviata al Papa tornò e il conte Mamiani assicurò che il Pontefice era disposto a nominare un Ministero liberale, ma dichiarò che egli chiedeva tempo per deliberare.

I Ministri dimissionari Pasolini e Minghetti accorsero alla posta, ove erano state sequestrate le lettere in partenza, perchè si volevano leggere quello del cardinale Antonelli, e accorsero a porta del Popolo, ove il corriere era stato fermato: essi ottennero che i civici smettessero dal primo proposito e che il corriere. fosse lasciato partire.

«La sera del 1° maggio - narra un autorevole testimone oculare - Pio IX, accompagnato dai ministri Recchi e Pasolini passeggiava pei giardini del Quirinale, e, "vedrete - ripeteva con voce serena e tranquilla - vedrete che vi farò contenti, anzi voglio mostrarvi le bozze, così almeno non vi saranno più malintesi fra noi." E, mandato un servo a prenderle alla stamperia del Quirinale, questi tornò dicendo: "non sono ancora pronte." - "Andate e portate qui le bozze." - ripetè il Papa. - "Santità - replicò il servo, dopo averle chieste una seconda volta - non sono ancora fatte." "Tornate - disse il Papa - e dite che io non mi muovo di qui finche non ho le bozze." Il servo tornò alla stamperia, e, non vedendolo comparire, "Santità - disse il Recchi - è ormai notte, l’aria si fa umida. [p. 396 modifica]non vorrei che aspettando qui Vostra Santità si prendesse un malanno. Le bozze diranno lo stesso domattina. "

«Così si separarono: la mattina seguente, di buon’ora, una notificazione del Papa era già affissa alle cantonate della città: in essa si confermava interamente l’Allocuzione»8.

Che cosa diceva la notificazione, la quale, secondo la concorde narrazione di tutti gli storici, fu male accolta dal popolo e quasi dovunque lacerata e calpesta?

Il Papa dopo avere ricordate e lodate le riforme che avea largite ai sudditi, dopo avere rammentato come scoppiasse la insurrezione lombarda e come da questa scaturisse la guerra e come una parte dei cittadini dello Stato romano accorresse alle armi per prender parte a quella lotta e come egli desse loro capi per organizzarli, ma con ordine di non oltrepassare i confini dello Stato, e dopo avere confermato le parole dell’ultima sua Allocuzione intorno alla guerra, aggiungeva: «Non vogliamo tacerci di non aver dimenticato anche in tal circostanza le cure di padre e sovrano, provvedendo, nei modi che reputammo più efficaci, alla maggiore incolumità possibile di quei figli e sudditi, che già si trovano, senza Nostro volere, esposti alle vicende della guerra. Le Nostre parole, di sopra accennate, hanno destato una commozione che minaccia di irrompere ad atti violenti, e non rispettando nemmen le persone, calpestando ogni diritto, tenta - o gran Dio, ci si gela il cuore nel pronunziarlo! - di tingere le vie della capitale del mondo cattolico col sangue di venerande persone, designate vittime innocenti, per saziare le volontà sfrenate di chi non vuol ragionare, E sarà questo il compenso che si attendeva un Pontefice Sovrano ai moltiplicati tratti dell’amor suo verso il popolo? Popule meus, quid feci tibi? Non si avveggono questi infelici che, oltre l’enorme eccesso del quale si macchierebbero e lo scandalo incalcolabile che darebbero a tutto il mondo, non farebbero che oltraggiare la causa che pretendono di trattare, riempiendo Roma, lo Stato e l’Italia tutta di una serie infinita di mali? E, in questo o in simili casi - che Dio tenga lontani - potrebbe mai rimanere ozioso nelle Nostre mani il potere spirituale che [p. 397 modifica]Dio ci ha dato? Conoscano tutti una volta che Noi sentiamo la grandezza della Nostra dignità e la forza del Nostro potere,

«Salvate, o Signore, la vostra Roma da tanti mali, illuminate coloro che non vogliono ascoltare la voce del Vostro Vicario, riconducete tutti a più sani consigli, sicchè obbedienti a chi li gomma passino men tristi i loro giorni nell’esercizio dei doveri di buoni cristiani, senza di che non si imo essere nè buoni sudditi, nè buoni cittadini».

La quale notificazione, non ostante quell’untume d’olio di lampada chiesastica di cui appariva cosparsa, nonostante la sgualcita e vecchia retorica bellarminiana onde era infarcita, nonostante il ridicolo piglio minaccioso che i Cardinali, tremanti e sparuti, nel loro rifugio del Quirinale, così inopportunamente, a nome del Papa, vi assumevano, se testificava della irremovibile volontà dei Cardinali di non consentire più a Pio IX di prestarsi a quel giuoco dell’altalena e a quella politica a partita doppia alla quale era stato, con biennale contraddizione, costretto fin lì, non era, dall’altro lato, la più acconcia a placare le ire e le accese passioni del popolo.

Che essa fosse impolitica e mal consigliata lo dimostrò il modo sdegnoso con cui venne dalla popolazione accolta; che essa fosse il prodotto di quella cospirazione cardinalizia e curiale, la quale da ventidue mesi si ordiva intorno all’incauto e fiacco Pontefice e per effetto di cui dal 29 aprile in poi il governo effettivo di Roma cominciò a passare dalle sue mani - del Papa - a quelle dei Cardinali9 lo provino le seguenti linee, tratte dalle Memorie del conte Giuseppe Pasolini, dettate dal figlio Pier Desiderio: «Monsignor Pentini, discorrendo più anni dopo, in Frascati col Pantaleoni, gli confidava che il 1° maggio 1848 il Papa gli aveva commesso di scrivere una notificazione in favore della guerra, o almeno tale che le ansie del Ministero liberale ne fossero quetate. E monsignor Pentini diceva di avervi espressa l’idea che Pio IX, come Pontefice non faceva, non avrebbe fatto mai guerra per sè ad una [p. 398 modifica]nazione cattolica; come Principe italiano non sarebbe però venuto meno al dovere di difendere i suoi sudditi, di assecondarne le aspirazioni, di tutelarne i diritti. Si veniva insomma a fare intendere che avrebbe anche fatta la guerra per l’indipendenza, E il Papa avevi approvato, consigliando però qualche correzione che, a richiesta del Pentini, aggiungeva poi di sua mano, E così, corretto come era, lo scritto fu consegnato alla stamperia segreta della segreteria di Stato. Ma ivi, poco dopo entrava il cardinale Antonelli, il quale abitava nel Quirinale come prefetto dei Sacri palazzi, e fatte fare sostanziali mutazioni, ne uscì quella notificazione che senz’altro fu affìssa per Roma, e che presto venne lacerata dal popolo tumultuante»10.

Cosi appare chiaro, che non era tanto Pio IX, sempre incerto, esitante, sbattuto e piegato, di qua e di là, come salice in balia di opposti venti, che volesse uscire dalle strette soffocanti della contraddizione, quanto il Papato come istituzione, quanto la Chiesa come autorità dogmatica, quanto il Collegio cardinalizio, rappresentante complessivo delle dottrine, delle tradizioni e degli interessi della Chiesa, i quali, valendosi del nome e dell’autorità del Pontefice, intendevano ribellarsi e si ribellavano ad una politica, che poteva essere utile all’Italia, ma che - secondo la opinione dei Cardinali - era assolutamente dannosa agli interessi del cattolicismo.

E, se così era - ed era proprio cosi - come e perchè non avrebbero dovuto commuoversi coloro, i quali credevano di rappresentare, o rappresentavano effettivamente gli interessi opposti, cioè quelli dello sventuratissimo popolo italiano, che, dopo tre secoli di servaggio, sorgeva, Lazzaro quatriduano dal fetido sepolcro, in cui lo aveva composto per morto la diplomazia europea, riunita a Vienna nel 1815? Come? Tutti i patrioti, dall’Orioli allo Sterbini, dal Pasolini al Montanelli, dal Farini al principe di Canino, dal Minghetti al Mamiani, dal Cattaneo al Tommaseo, dal Gioberti al Mazzini, avevano potuto credere tutti, più meno lungamente, che il Papato, la Chiesa e per essi il sommo, l’augusto, il divino Pontefice Pio IX, sarebbe stato [p. 399 modifica]l’alleato, anzi il vivificatore di questo oppresso, diviso eppur generoso e non spento popolo italiano; questo Pontefice augusto, adorato e glorificato - e, con lui, sino a un certo punto anche i cardinali Gizzi, Ferretti, Ciacchi, Oppizzoni, Amat, Altieri, Antonelli ed altri - erano stati cullati, per quasi due anni, ed avevano cullato gli altri nel dolce sogno neo-guelfo e giobertiano della redenzione d’Italia per iniziativa del Papa; poi, tutto ad un tratto, Papa e Cardinali si erano svegliati ed avevano, di soprassalto, destato gli altri gridando: torniamo alla realtà, guello non era che un sogno, e il popolo, fin li pasciuto di quelle lusinghe, inebriato di quelle speranze, ora cosi brutalmente riscosso, avrebbe potuto non commuoversi, avrebbe dovuto non sommuoversi ì ... Eh via! . . . La logica storica ammonisce severamente che no: essa presenta, a chiunque le voglia imparzialmente vedere, le legittime ragioni per cui profondo commovimento ed energico sommovimento in tutta Italia, e specialmente in Roma, dopo l’Allocuzione, dovevano esservi e vi furono e lascia, a lor posta, declamare gli storici faziosi, ma non può lasciar passare senza nota le lamentazioni del Minghetti, del Farini e di qualche altro dottrinario, i quali, dando prova di poca conseguenza, dopo avere riconosciuto ed affermato tutto il danno che dalla papale Allocuzione derivava alla causa nazionale, dopo avere anch’essi quell’Allocuzione biasimata, dimostrando come essa fosse al Pontefice inspirata dai nemici d’Italia si querelano, qua e là, per la eccessiva esasperazione popolare; quasi che fosse possibile porre modo preconcetto e compassato, e antiveduta e calcolata compostezza anche nei moti d’ira e di dolore delle moltitudini.

Anzi una cosa - e grave - sarebbe qui da notare dallo storico imparziale e la quale, nè il Farini, nè il Pasolini, nè il Minghetti, così pronti a rilevare i torti di coloro, che essi si piacciono di chiamare gli agitatori, punto non posero in rilievo . . . forse perchè non tornava loro conto il notarla, ed è questa. Che se a colpa di qualcuno possono ascriversi quei tumulti e i lievi disordini che ne scaturirono, sono da ascriversi alla fiacchezza e disavvedutezza dei Ministri rinunciatari: poichè il rinunciare all’ufficio di Ministro non significa punto cessare dall’adempimento dei doveri a quell’ufficio congiunti: la rinuncia dal [p. 400 modifica]Ministero, in uno Stato costituzionale, implica anzi il debito che incombe al Ministero dimissionario di restare al suo posto, fino a che non venga a surrogarlo il suo successore, giacchè nella esistenza del Governo non v’è e non vi può essere e non vi deve essere soluzione di continuità. E che cosa fecero l’Antonelli, il Recchi, il Minghetti, lo Sturbinetti, il Pasolini, il Simonetti, il Galletti e l’Aldobrandini durante i giorni 30 aprile e 1° e 2 maggio, che cosa fecero per dimostrare alle popolazioni che esisteva ancora e vegliava un Governo? . . . Avrebbero potuto e dovuto rimanere riuniti in permanenza, pubblicare subito un gagliardo e patriottico manifesto che affidasse il popolo, che rassicurasse gli animi, che confortasse i dubbiosi, che incutesse timore nei riottosi, se riottosi v’erano; avrebbero potuto e dovuto raccogliere gli ufficiali superiori della guardia civica, quasi tutti moderati e temperatissimi uomini, e rianimarne l’energia; e avrebbero, infine, potuto e dovuto prendere, man mano, tutte quelle provvisioni che la gravità del caso poteva consigliare o richiedere. E invece? Nulla di tutto ciò; all’infuori di una lettera preparata al Ministero dell’interno, che doveva essere indirizzata al principe Rospigliosi, Generale comandante della guardia civica il 1° maggio e la quale non fu spedita, come è notato nella minuta, che io riproduco fra i documenti11 all’infuori della lieve azione individuale del Simonetti in Campidoglio, per far distribuire alle persone a cui erano indirizzate le lettere intercettate, e del Minghetti e del Pasolini alla posta e a porta del Popolo, per far partire il corriere che era stato fermato, e, all’infuori della notificazione pubblicata, tardi - il 2 maggio - dal Ministro di polizia Galletti, non v’ha atto che accenni alla esistenza di un Governo in Roma, dove, se gravi fatti non avvennero, se ne debbe merito e gratitudine al buon senso e all’animo retto delle guardie civiche e delle moltitudini.

Le quali poi, in fin fine, fecero, come era naturale, molto strepito, ma nessun male; e, in tanta concitazione di passione e in tanto tumulto, durati tre giorni, non si verificò nè un ferimento, nè una uccisione.

[p. 401 modifica]Esse si impadronirono delle lettere indirizzate ai Cardinali, e poi, le riconsegnarono intatte; arrestarono il corriere che doveva partire per l’alta Italia, e poi lo lasciarono andare; posero le guardie al domicilio di alcuni Cardinali, ma quelle guardie, non soltanto non recarono offesa, ma servirono di difesa - e il Bernetti, che aveva ingegno ed era scaltro, lo capì - a coloro che ne erano sorvegliati: gridarono viva e morte, come, da che mondo è mondo, le moltitudini, commosse da violente agitazioni, han sempre gridato, ma non torsero un capello a nessuno; non diedero ascolto allo Sterbini e si lasciarono guidare dal Mamiani - il quale ebbe accusa poscia di aver egli impedito, a quei giorni, una rivoluzione12 - e chiesero soltanto, per mezzo di deputazioni, quella soddisfazione che erano in diritto di esigere, in nome dei sacri interessi della patria, offesi e danneggiati irreparabilmente dalla Allocuzione; ecco le gravi colpe delle moltitudini romane, le quali - l’ho già scritto e lo ripeto - eran composte di patrioti e non di preti e non già agli interessi della Chiesa, ma a quelli della patria avevano e dovevano, ragionevolmente in quei supremi momenti, avere unicamente rivolto l’animo e il pensiero.

Onde avvenne che naturali e spontanee sorgessero, dopo che il Papa ebbe pronunciata l’Allocuzione, nell’animo di quelle moltitudini certe domande: «Come! Una nazione che sorgeva per propugnare il più santo dei diritti, quello della indipendenza, era una nazione colpevole? Come! I Croati, che avevano insanguinata l’Italia, erano intangibili, e sopra di essi non ricadeva una sola parola di biasimo? La scomunica, avventata ai Polacchi per causa consimile, si rinnovava, e il Vaticano risugellava l’antica lega cogli uomini della oppressione e della violenza? Mai un conforto pei deboli, per gl’innocenti; sempre un mercato nefando coi conculcatori, coi tiranni?»13

E, sulle scuse addotte da coloro che, sommessamente, tentavano giustificare l’Allocuzione, di fronte alle accuse dei patrioti si rispondeva: Nè importa che il nemico fosse della nostra fede; perchè le guerre giuste sono lecite contro tutti, le inique contro [p. 402 modifica]nessuno. Forse i Principi e i popoli a cui i Papi del medio evo bandivano la croce addosso erano tutti eretici od infedeli?... E se il Papa non può far guerra a un popolo cristiano per paura di renderlo scismatico, egli non potrà né anche inseguire e castigare gli scherani e i corsali cattolici, per non indurli a impenitenza e mandarne l’anima in perdizione14.

E l’illustre uomo, che scrive queste cose, soggiunge tosto che il timore di uno scisma alemanno era vanissimo; e ora che si conoscono i fatti, è ridicolo l’allegarlo.

Ora se il Papa, come Papa, non può far guerra ai popoli, sieno essi cristiani o infedeli, il Papa può e dee farla, come Principe, agli ingiusti invasori, qual sia il culto cui appartengono15.

E più terribili divenivano, e dovevano naturalmente divenire, i commenti, quando giustamente si gridava: Se il Papa non vuole la guerra, perchè non la crede giusta, dunque tiene con l’Imperadore; e se non la vuole, perchè gli è interdetta dal suo grado di capo della Chiesa, dunque confessa non essere le due potestà in lui conciliabili, non potendo provvedere alla dignità e securtà del proprio Stato un Principe che non possa far guerra; e, quanto al fatto che i Papi non possano far guerra, si ricorreva alla storia e si osservava che quando trattavasi di conservare e di augumentare le loro usurpazioni, non dubitavano di commuovere alle armi tutto il mondo, or contro un potentato e or contro un altro; adesso che è questione di liberare una parte della comune patria dalla tirannide forestiera, abborriscono dal guerreggiare. Oh ben si palesa l’animo loro, quale è stato mai sempre, avversario implacabile della libertà e della unione d’Italia, Ora ci avvediamo che quelle concessioni, quelle benedizioni, quelle riforme erano polvere gittata in sugli occhi per accattare applausi e addormentarci; ma quando fossimo venuti al buono della magnanima impresa, avrebbe la romana curia mostro di non aver cangiato costume; e alla croce di Dio, infine che la malvagia lupa non sarà da [p. 403 modifica]noi ricacciata nell’inferno, non avremo, né libertà, né patria, né bene alcuno; e anzi saremo afflitti da sempiterni mali, e dal più brutto e ontoso servaggio»16.

E, dopo che fu pubblicata la minacciosa notificazione del 1° maggio, più giustamente si osservava che chi non volle scomununicare gli Austriaci, che entrando in Ferrara violarono le terre della Chiesa, ora vuol far uso delle armi spirituali contro il suo popolo, in ricompensa dell’averlo cotanto idoleggiato17; onde vane e ridicole riescono anche qui querimonie e declamazioni, perchè dal complesso dei fatti, i quali costituivano le legittime premesse, scaturiva la legittima conseguenza, che l’Allocuzione fu e rimase la diffida data da Pio IX al movimento nazionale italiano, che era stato iniziato dalla sua salita al potere. Il sogno di Gioberti, che il Papa fosse una persona indicata per realizzare i concetti di lui era sfumato ...18 e come, quindi, e perchè della semenza dei lupini si pretendeva ottenere una raccolta di fragole?

Il Balleydier e il De Saint-Albin e il Pianciani affermano che Ciceruacchio propose il massacro di tutti i preti e ne fu dissuaso dal Mamiani19, ma della loro affermazione non arrecano alcuna prova: il Croce, e lo Spada, storici non sospetti di soverchio liberalismo e intenti a colorire in fosco tutto quel tumulto, di ciò non fanno il più piccolo cenno20; il Farini, il Pasolini, il La Farina, il Minghetti, il Grandoni, testimoni oculari tutti, non porgono di questo fatto alcuna menzione; il Colombo, testimone oculare esso pure, afferma anzi che Ciceruacchio si affannava a calmar gli animi e a difender Pio IX; e il Ruth narra che Ciceruacchio gridò, fra grandi applausi - nella riunione dei soci dei Circoli - doversi i Cardinali dinanzi al tribunale del popolo condurre, e la pena dei traditori della patria dover essi soffrire; e lo storico tedesco soggiunge che a quella proposta si rispose dalla maggioranza dovere i Cardinali essere [p. 404 modifica]sorvegliati e custoditi nelle loro case; il che fu ad unanimità approvato21.

Ma fosse pur vero che Angelo Brunetti, nell’impeto della sua passione patriottica, accecato dallo sdegno e dal dolore, nella limitatezza del suo corto intelletto, avesse fatto la proposta che gli viene attribuita dal Ruth, avesse pur egli proposto il fiero partito che gli attribuisce il Balleydier, e che perciò? Quelle proposte, alquanto esagerata l’una, insensata l’altra, nulla proverebbero contro di lui: esse darebbero soltanto la misura del suo patriottismo e della sua angoscia: la figura del generoso cittadino non verrebbe da quelle proposte nè sminuita, nè offuscata; e resterebbe sempre vero ciò che scrisse di lui il Mickiewicz, potere dirsi di esso più giustamente ciò che it Caussidière, prefetto della polizia repubblicana del 1848, diceva di sè, cioè che egli promoveva l’ordine con il disordine22.

A dimostrare del resto quanto esagerate e prive di fondamento siano le lamentazioni dei dottrinari e le declamazioni degli scrittori clericali; a dimostrare, come, nonostante l’amarissimo disinganno a cui i liberali erano stati assoggettati, essi serbassero ossequio e venerazione a Pio IX, basterà citare un documento solo sopra venti, sopra trenta che se ne potrebbero addurre, togliendoli dal Contemporaneo, dalla Pallade, dall’Epoca, dalla Speranza, dai foglietti, dai supplementi stampati a quei giorni, e questo documento è l’articolo della Pallade, il più acceso - come ho già avvertito - e il più scapigliato fra i giornali di quel tempo, col quale, nel suo foglio del 1° maggio, essa annunciava la lettura dell’Allocuzione fatta dal Papa e i successivi avvenimenti. L’articolo si intitola: Ecclisse (sic).

«L’alito pestilente dell’idra austro-gesuitica soffiò una nebbia satanica ed ecclissò il sole di Roma, d’Italia, del mondo. Ma questo fatto, che pare un suo trionfo, è lo scocco dell’ultima ora di sua agonia. Comincia già a dileguarsi e sparirà affatto quella nebbia, ricomparirà nella maestà della sua luce il sole; e quell’idra infernale cadrà sotto la clava di un Ercole [p. 405 modifica]invincibile per non risorger più, sotto il fulmine dell’universale esecrazione. Onta eterna, odio eterno agli ipocriti, ai vili, agli infami cospiratori, che vollero scuotere dalle fondamenta e subissare il meraviglioso edificio di una fama intemerata, ammirata, adorata da tutto il mondo, edificio che asconde la sica sommità nel cielo.

«Gli assalti fatti al cuore di Pio, dalle subdole arti dell’austro-gesuitismo, tornavano tutti vani. Il cuore di Pio è un altare sempre ardente del fuoco d’immensa carità; non è possibile non che spegnerlo, sminuirlo. Quel maestro picchiò alla porta della coscienza mascherato, con le lusinghe forse dell’antico serpente seduttore. Da gran tempo si meditava questo assalto, e si andava agevolando il terreno agli approcci: con accorte brighe si ottenne che la custodia e la chiave di quella si affidasse ad un tale, a tutt’altro idoneo fuorché a reggere la coscienza di un regnante23. Quella coscienza immacolata, incrollabile e veramente angelica fu colpita all’improvviso con lo spavento di uno scisma germanico: scisma inventato . . . Ma su queste tenebrose mene spargerà qualche luce la verità vincitrice. A fronte di una supposta perdita di milioni di credenti non potè reggere l’animo del Pontefice: eccolo, per fatale inganno, per lo stesso suo eroismo, apprestarsi ad ogni sacrifizio: eccolo per poco dimenticare che i suoi prediletti figli sono i suoi sudditi, che la nazione primogenita della Santa Sede è questa Italia . . . Eccolo nel Concistoro di sabato pronunciare una Enciclica, che percosse di stupore tutta Roma, che percuoterà di stupore tutto il mondo. Ecco . . . lamentata non sappiamo quale nostra ingratitudine, deplorati non si sa quali nostri attentati ai beni ecclesiastici, alla buona morale, alla religione, mentre, da altra parte, non si fa menzione della carneficina e dei massacri d’inermi vittime che rigarono di sangue la Lombardia, della profanazione dei templi mantovani, delle imprese dei satelliti di un Radetschy . . . L’animo rifugge dal doloroso racconto di infamate troppo note.

[p. 406 modifica]«Il Ministero si dimise; ricorsero alla sovrana giustizia i rappresentanti della guardia civica, del Municipio, dei Circoli e Casini; si chiesero spiegazioni? . . Intanto ieri la guardia civica occupava le porte della città, il forte Sant’Angelo, la polveriera, il Monte, la Zecca: notturne scolte pur vegliarono per impedire la fuga di sospetti personaggi. Oggi il Ministero dimesso riassunse provvisoriamente i portafogli; ma la costernazione, la trepidazione, il malcontento non cessò. Un inganno originò tanta sciagura; il solo disinganno può sperderla; e questo speriamo non sia lontano. Dio protegga l’Italia, protegga i generosi che la difendono, e disperda le insidie dei comuni nemici. L’unione, il consenso incredibile del popolo romano, spiegatosi in questo terribile, inaspettato frangente, francherà Roma dalle insidie, trionferà degli sforzi dell’austro-gesuitismo; l’unione di tutti i prodi Italiani trionferà sui campi di Lombardia delle orde venali dell’oppressore straniero»24.

Ecco quale era il linguaggio del più ardente fra i giornali liberali romani, del giornale che può essere riguardato giustamente come il periodico, a quei giorni, più intimamente vincolata con Ciceruacchio: ecco quale era il linguaggio degli agitatori contro cui levan grave la voce della postuma monitrice sapienza il Farini ed il Minghetti: cosi vigorosamente, lealmente, ma entusiasticamente parlava di Pio IX, a fronte di una grande sventura che colpiva la patria, cosi reverentemente favellava dell’autore dell’Allocuzione - la quale agli occhi dei liberali poteva apparire un vero e proprio tradimento - il più spigliato e radicale dei diari che si pubblicavano allora a Roma: e il linguaggio della Pallade può dare la misura della intonazione degli altri giornali romani.

I quali, se potevano avere un torto, era quello di farsi, consapevoli inconsapevoli, l’eco di tutti coloro che si sforzavano d’illudere sè stessi e gli altri sul valore e sugli effetti, incalcolabili in quel momento, dell’Allocuzione, desiderosi, per amore ardentissimo dell’indipendenza nazionale, di veder continuata la politica degli equivoci, che era il risultato dell’assidua e immanente [p. 407 modifica]contraddizione, la quale aveva dominato, dalla occupazione di Ferrara fino a quel punto, su tutti gli avvenimenti.

«L’Allocuzione papale - scrive avvedutamente, a questo proposito, uno storico tedesco - vien segnalata, non senza fondamento, come principio della reazione in Italia, e i reazionari, che spesso fino allora avevano strepitato contro Pio, ne giubilarono, poiché potevano osare. Pio, in verità non s’era mutato, egli mostrava soltanto un po’ più di coraggio, il coraggio del manifestarsi; l’Allocuzione era un fatto audace, un gran fronte indietro. Molti di sentimenti nazionali, ma piani insieme e conservativi, non potevano o volevano credere, né lasciar credere, che Pio non potesse o non volesse essere il vessillifero della sollevazione e della lotta. Essi cercavano ancora d’ingannare sé e gli altri, quasi quella fosse soltanto una sorpresa della fazione austro-gregoriana»25.

E, infatti, mentre a Roma ancora continuava vivissima l’agitazione, mentre il ministro Galletti metteva fuori una notificazione per richiamare la popolazione alla calma, mentre il Papa affidava definitivamente, alle due pomeridiane del 2 maggio, al conte Terenzio Mamiani, l’incarico di costituire il nuovo Ministero, mentre il Consiglio comunale di Roma votava esso pure un indirizzo al Papa non chiedendo che egli, nunzio di pace, provocasse il popolo alla guerra, ma che non impedisse di provvedere alla guerra per mezzo di coloro ai quali egli volle affidate le cose temporali; mentre il sostituto al Ministero dell’interno, dottor Luigi Carlo Farini, veniva inviato al campo di Carlo Alberto, con la speciale missione di pregare il Re a ricevere sotto la sua protezione e il suo comando le milizie regolari e le volontarie dello Stato romano, affinchè fossero trattate dal nemico come esercito belligerante, protestavano i rappresentanti di Lombardia, di Venezia e di Sicilia, con quella maggiore franchezza che conveniva a popoli combattenti per la libertà e indipendenza d’Italia, e non rattenuti e impediti da convenienze cortigiane. La loro protesta fu pubblicata per le stampe, il che molto spiacque al Pontefice, il quale a me che scrivo - quando nella qualità di commissario di Sicilia, insieme ai miei [p. 408 modifica]colleghi, gli facea considerare di che male sarebbero cagione all’Italia le sue parole - quasi adirato rispose: «Io sono più italiano di lei; ma ella non vuol distinguere in me l’italiano dal Pontefice». Piegai la fronte e dissi in cuor mio: «Ha ragione: stolto chi crede possa essere italiano un Pontefice!» 26

Il 4 maggio il conte Mamiani, il quale era riuscito ad ottenere il consenso del Papa perchè il Ministero degli esteri fosse diviso in due Ministeri, uno per gli affari esteri ecclesiastici, cui doveva essere preposto un Cardinale, e un altro per gli affari esteri politici o secolari, che doveva essere affidato a un laico, riuscì a comporre il nuovo Ministero nel modo seguente:

Ministro degli affari esteri ecclesiastici e presidente del Consiglio dei ministri, cardinale Ciacchi, e, stante la sua assenza, ad interim il cardinale Orioli;

Ministro degli affari esteri secolari, conte Giovanni Marchetti;

Ministro dell’interno, conte Terenzio Mamiani;

Ministro di grazia e giustizia, avvocato professor Pasquale De Rossi;

Ministro delle finanze, avvocato Giuseppe Lunati;

Ministro delle armi, principe Filippo Doria Pamphyli;

Ministro dei lavori pubblici e del commercio, duca Mario Massimo di Rignano;

Ministro di polizia, avvocato Giuseppe Galletti 27.

Tutta la vita di Terenzio Mamiani, le manifestazioni dell’ingegno suo, gli onorevoli fatti suoi precedenti, l’ingegno, le virtù, il carattere di lui attestavano in suo favore e ne facevano, in quel momento, l’uomo il più popolare e il più caro alle moltitudini 28.

[p. 409 modifica]Ad accrescere questa sua popolarità in quel momento, si aggiungeva un fatto che di pochi giorni aveva preceduto la sua chiamata alla direzione della cosa pubblica.

Fin dai primi di aprile il prof. Orioli, con quel suo ingegno vivo, versatile, con quel suo animo impressionevole, irrequieto, aveva pensato di proporre ed aveva proposto la formazione di un Comitato elettorale, composto dei rappresentanti di tutti i Circoli liberali, il quale si prefiggesse di ammaestrare e preparare le popolazioni dello Stato romano, affatto nuovo nell’esercizio dei diritti costituzionali, alle prossime elezioni politiche.

La proposta piacque; e cosi, la sera del 21 aprile, si riunirono nelle sale del Circolo dei commercianti, 1 rappresentanti dei diversi Circoli e formarono una Commissione, che fu composta cosi:

Pel Circolo popolare: Meucci dott. Giuseppe, Ricci Pietro.

Pel Circolo romano: De Andreis Antonio, Gigli dott. Ottavio.

Per la Società artistica italiana: Finto dott. Michelangelo, Glori Vincenzo.


[p. 410 modifica]Pel Circolo dei commercianti Candi Raffaele, Galletti Vincenzo.

Pel Casino di piazza Sciarra: Girometti Pietro, Sartori Giuseppe.

Pel Casino del palazzo Costa: Mazzocchi Luigi, Placidi avv. Biagio.

Nella quale Commissione, composta tutta di romani, prevalevano gli elementi moderati, quali il Ricci, il Gigli, il Glori, il Candì, il Galletti, il Sartori, il Girometti, il Placidi; e ciò noto a confutazione delle accuse degli storici faziosi, i quali assegnano a quegli onesti e temperatissimi liberali la qualifica di terribili rivoluzionari, e a confutazione delle ripetute asserzioni dello Spada che i movimenti avvenuti dal 1846 al 1849 attribuisce unicamente all’azione di coloro, che egli chiama forestieri e ne esclude assolutamente i romani, nati a Roma.

Ora quella Commissione delibero di pubblicare un programma agli elettori, in cui fossero manifestati i principi! fondamentali del partito liberale, i fini che esso si proponeva, i mezzi che intendeva adoperare per raggiungere quei fini e perchè, da ultimo, indicasse e facesse noti gli uomini che credeva più idonei all’attuazione di quel programma. E il conte Terenzio Mamiani fu scelto ad estensore di quel manifesto.

Il Mamiani presentò tale programma nella successiva riunione del 25 aprile e quando, cioè, nessuno pensava all’ingrata e dolorosa sorpresa che la fazione austro-gesuitica, nel più alto segreto, preparava ai liberali, profittando della femminea debolezza di Pio IX; quindi quel programma Mamiani, veniva in acconcio, otto giorni dopo, come se fosse stato il programma di Governo delineante la condotta che avrebbe tenuta il nuovo Ministero.

Il programma, che fu letto dal segretario generale Ottavio Gigli nella detta adunanza del 25 aprile, era scritto con quella eleganza, con quel nitore di forma che segnalarono sempre tutte le scritture del Mamiani, anche le sue circolari, nel tempo che egli fu al Governo.

Era un programma complesso, ampio, serenamente e largamente liberale, nel quale venivano esaminati i bisogni delle popolazioni, le principali riforme e leggi reclamate dal [p. 411 modifica]progresso civile dei tempi, in ogni ramo della pubblica amministrazione.

In esso si stabilivano come obietto delle cure e degli studi dei nuovi legislatori: la riforma dei municipi; il riconoscimento per legge dei diritti di associazione e di petizione e della inviolabilità individuale e di domicilio; la libertà di stampa; la tolleranza religiosa; la riforma dei Codici; la riforma penitenziaria; l’abolizione delle giurisdizioni speciali; l’istituzione dei pubblici dibattimenti e della giuria popolare; le riforme tributarie; l’abolizione del giuoco del lotto; la bonifica dell’Agro romano; il miglioramento delle condizioni delle classi operaie; amplissime riforme nell’istruzione pubblica, la quale deve essere profonda ed universale; istituzione di scuole normali e tecniche; libertà d’insegnamento; scuole popolari; riforma della pubblica beneficenza.

Entrando ad esaminare le relazioni dello Stato romano con le altre provincie d’Italia, il programma Mamiani afferma che secondo la mente del Comitato deesi procurare per prima cosa di aiutare la guerra santa con ogni maniera ed efficacia di mezzi; che nella guerra sia mantenuta unità di comando e di azione; che sia composta subito una marineria nazionale; che sia promossa la pronta convocazione di una Lieta italiana, composta di rappresentanti eletti popolarmente e investita di amplissims facoltà per deliberare e decretare intorno agli interessi comuni della nazione; affratellamento progressivo dei vari Stati italiani siffattamente che tutti essi confondano ognora più l’autonomia propria nella comune e giungasi infine al temperamento migliore della varietà con l’unità; politica estera favorevole alla ricognizione e ricostituzione delle nazionalità conculcate e smembrate; confidare in sè medesimi e non negli aiuti e promesse di alcuno straniero; con l’Austria non transigere mai e non fermare la pace, finchè le Alpi non segnino da ogni banda i confini d’Italia dal Varo al Brennero e da questo al Quarnero29.

A farlo apposta, il programma Mamiani, venuto in luce quattro giorni prima dell’Allocuzione papale, pareva ed era, l’assoluto [p. 412 modifica]e completo contrapposto di questa; nel programma dell’esule illustre spirava l’alito caldo e vivificatore delle idee moderne, nell’Allocuzione di Pio IX, l’aura gelida e mefitica del medio evo.

Intanto, già da parecchio tempo, i giornali si occupavano, nei loro articoli, delle prossime elezioni e del compito riserbato ai deputati dello Stato romano; e svolgevano in gran parte le idee espresse poi, maestrevolmente, dal Mamiani in quel suo programma. Segnalavasi fra questi pubblicisti, il dott. Cesare Agostini di Foligno, giovane dì pronto ingegno e vigoroso polemista, il quale alle prossime elezioni dei deputati, consacrò una serie di articoli nel Contemporaneo.

Fin dal 16 marzo era apparso in Roma un nuovo giornale, l’Epoca, compilato dagli antichi collaboratori della Bilancia e dell’Italico, giornali che avevano cessato di esistere. L’Italico aveva iniziato le sue pubblicazioni nel febbraio del 1847, sotto la direzione del bolognese Carlo Berti-Pichat e vi avevano collaborato il principe Cosimo Conti e il dottor Ottavio Gigli, ambedue romani, il marchegiano avv. Tommaso Tommasoni, il forlivese Tommaso Zauli-Sajani, il perugino marchese Orazio Antinori, il ravennate avv. Leopoldo Spini e il romano avv. Michelangelo Pinto. E siccome il Berti-Pichat parti volontario per la guerra di Lombardia, cosi l’Italico e la Bilancia si fusero e i collaboratori di ambedue questi periodici, toltone il Berti-Pichat e l’Orioli, diedero vita all’Epoca, giornale liberale di cui furono direttori Michelangelo Pinto, Andrea Cattabeni e Leopoldo Spini e che rimase lungamente devoto a Terenzio Mamiani.

Il dottor Michelangelo Pinto, che fu poi fondatore e direttore del Don Pirlone e che ha perciò diritto a speciale considerazione in questo libro, era nato a Roma il 15 maggio 1818. Dotato d’ingegno vivo ed acuto, compi il corso de’ suoi studi grammaticali e umanistici nelle scuole di Sant’Apollinare, i filosofici nel Collegio romano, i giuridici nella Università. Laureatosi nel 1838 imprese prima un viaggio in Italia, poscia percorse in quasi tre anni, dal 1838 al 1840, la Svizzera, la Francia, l’Inghilterra e la Germania, studiando gli usi, i costumi, la storia e le istituzioni di quelle nazioni: onde il suo forte intelletto si arricchì di larghe cognizioni che lui, reduce da quei viaggi, elevavano in grande estimazione fra la gioventù romana, che, in [p. 413 modifica]geuere, a quei tempi, poco studiava e meno viaggiava. E, fin dal 1845, egli cominciò a dar saggio di sé come scrittore in versi e più specialmente in prose letterarie, pubblicate qua e là, nelle poche effemeridi che si stampavano a Roma a quei tempi, previa - bene inteso - la superiore approvazione. Quelle scritture provavano la maturanza degli studi del Pinto, e, segnatamente, la profonda conoscenza che egli aveva della storia letteraria d’Italia e la buona preparazione di lui a potersi estendere nei campi, allora quasi inesplorati, delle letterature comparate.

Il Pinto, giovane di grande probità, era caldo liberale, e lo fu poi sempre e di carattere fermo ed energico dotato. Franco, aperto, leale, era di spirito gioviale, argutissimo ed efficace parlatore e chiaro e sensato argomentatore.

Anche l’Epoca, adunque, che salutava con fiducia la elevazione del Mamiani al potere, si occupava della preparazione degli elettori a buone scelte nei prossimi Comizi.

Già fin dal giorno 3 maggio, mentre il Mamiani intendeva alla scelta de’ suoi colleghi nel Ministero, Fio IX, fosse rimorso, fosse paura, fosse un residuo di tenerezza verso quel nobile ed alto ideale della rigenerazione italica - ideale che aveva pure volteggiato dinanzi all’accesa e inebriata sua fantasia nei primordi del suo pontificato - o fosse per effetto di tutti tre quegli impulsi insieme, scriveva una lettera all’imperatore d’Austria nella quale lo esortava, in nome della pietà e della religione a voler desistere da una guerra, che senza poter riconquistare all’Impero gli animi dei Lombardi e dei Veneti, trae con sé la funesta serie di calamità che sogliono accompagnarla; e invitava la generosa nazione tedesca a deporre gli odii e a convertire in utili relazioni di amichevole vicinato una dominazione che non sarebbe nobile né felice, quando sul ferro unicamente posasse; e confidava che ognuna delle due nazioni volesse ridursi ad abitare ciascuna i naturali confini con onorevoli patti e con la benedizione del Signore.

Fannicelli caldi, scioccamente apprestati, a guarire la grande e irreparabile ferita prodotta alla causa nazionale dalla pontificia Allocuzione; espediente, che sarebbe potuto sembrare un tratto di raffinata ipocrisia se non fosse stato una ridicola melensaggine e se non fosse stato la prova più aperta [p. 414 modifica]dell’assoluta deficienza, che era in Pio IX, di ogni senso politico, di ogni tatto diplomatico, di ogni esperienza delle umane cose. Solamente in quel piccolo intelletto di parroco di campagna, solamente in quella coscienza imbottita di scrupoli e di paure di quel Don Abbondio della tiara poteva penetrare e trovar accoglienza questo pensiero: che l’Austria, fatta potentissima dalla Allocuzione del 29 aprile e dalle diserzioni che ne sarebbero stata la legittima conseguenza, che l’Austria, la quale per conseguenza veniva a trovarsi a fronte del solo Piemonte, cesserebbe dalla guerra, in cui oramai cominciava ad arriderle la vittoria, e che ne cesserebbe unicamente perchè il Papa la esortava a desisterne!

Quella lettera, che fu recata soltanto ventiquattro giorni più tardi da monsignor Morichini all’Imperatore, il quale non ne fece alcun conto, rinviandola a Vienna ai suoi Ministri, che ne fecero ancora minor conto che non ne avesse fatto lui, non commosse nessuno, non persuase nessuno, non suscitò speranza in alcuno: lo strale era uscito dall’arco e non v’era forza umana che potesse ritrarlo indietro: tra l’Italia rossa e la Santa Sede ogni vincolo era ormai infranto30.

E pure il Pontefice non poteva darsi pace di quei clamori; e, mentre il cardinale Lambruschini si allietava dell’Allocuzione, dopo la quale, affermano che egli esclamasse: Finalmente ha parlato da Papa!, il povero Pio IX continuava a domandarsi in che egli avesse offeso il sentimento pubblico; e tanto più si stupiva di quella grande agitazione in quanto che egli credeva a ciò che gli avevano assicurato, cioè che i mali intenzionati, gli agitatori, i rivoluzionari fossero andati tutti al campo!31.

Ma ogni tentativo, fatto per scemare od attenuare la gravità di quell’atto e di quelle parole, o per mitigarne o lenirne le irremediabili conseguenze, era vano: «quella solenne dichiarazione era una sconfessione. Fu il vero scoppio di una folgore per la causa delV indipendenza italiana. Cosi Pio IX, [p. 415 modifica]l’idolo del popolo - si mormorava - il primo riformatore, il Pontefice iniziatore, che riempiva tutti i cuori di fede e di speranza, che rinvigoriva nel fondo delle coscienze le credenze religiose, che sollevava gli oppressi, che tendeva la mano ai deboli.... Adorato come il rigeneratore d’Italia..... egli disertava e passava al nemico, rinnegava il suo passato, le sue parole, i suoi atti, chiedeva scusa de’ suoi nobili sentimenti, si rimproverava di essere andato troppo oltre con le riforme e ricusava la sua cooperazione contro lo straniero, che invadeva la penisola!..... A Roma uno stupore generale si impadronisce degli animi, si rifiuta di credere ai propri occhi, alle proprie orecchie. Poi lo stupore si muta in indignazione..... i vecchi odii, le vecchie diffidenze contro i preti, contro il papato, rinascono, si accendono, scoppiano..... Riduciamo il Papa - propongono i liberali - al grado di vescovo, sua sola missione..... salviamo Roma dai Cardinali e l’Italia dai Tedeschi»32.

Cosi narra, cosi esclama l’illustre scrittore francese, e un valoroso italiano, di rimando, mette in mostra l’altro lato della grave questione e, alla sua volta, grida: Sarebbe stato ben maggiore gloria al Pontefice, s’egli fosse sôrto nel nome di Dio a giudicare quella iniqua sapienza di Stato, che era una calamità comune di tanti popoli, e se avesse rivendicato i loro diritti dalle mani degli oppressori, piuttosto che assidersi, ultimo e fiacchissimo dei regnanti, sovra un soglio insanguinato33.

Ma a queste ipotesi, che addurrebbero il pensiero lungi dalla realtà storica e contro le quali insorge, poche linee appresso, lo stesso Cattaneo, risponde, con tagliente ironia tratta dai fatti, il Settembrini, che scrive: Pio IX credette di fare opera di uomo dabbene, ma fece opera di cattivo papa: indi a poco si pentì, ma non gli giovò. Se non mosse egli la rivoluzione neppure poteva frenarla egli...... «Pio IX è il vero vicario di Cristo, è il più grande dei Pontefici» - dicevano i popoli «È un giacobino, è un massone» - dicevano i Principi. Nè [p. 416 modifica]santo, né giacobino, ma un prete che, nella prima allegrezza di vedersi eletto Papa, sentì intenerirsi il cuore, e volle tutti allegri, ma come vide che l’allegria si mitò in rivoluzione, ed ei si fu avvezzato al Papato, si penti e tornò prete nota.

Un altro illustre scrittore straniero, Emilio Castelar, cosi eloquentemente e sapientemente giudica quella situazione e quegli avvenimenti: «La prova di quanto egli - Pio IX avrebbe potuto fare con questi grandi mezzi, si riscontra in quello che fece con mezzi poveri, con riforme timide, con leggeri, anzi leggerissimi palliativi. Un’amnistia, che richiedeva anticipatamente la formula servile del giuramento; una Commissione nominata per istudiare le riforme indispensabili; una Camera consultiva, che si componeva di un rappresentante per ciascuna provincia, eletto dal Pontefice su tre nomi proposti dal Legato; un Consiglio di cento mentori, che dovevano eleggere tra di loro un Senato: tutte queste timide mostre di rinnovamento sociale bastarono a risvegliare l’Italia, a far sì che i Principi, sebbene restii, adottassero codici liberali; a mo’ d’esempio, i Duchi di Modena e di Parma; ad aprire in Sicilia le porte delle prigioni segrete, a far corrette un alito di libertà per l’aria infestata di Napoli, a costringere lo straniero a ritirarsi da Ferrara, dinanzi a una protesta pontificia; ad armare il braccio di Carlo Alberto per la causa dell’indipendenza; a rovesciare Guizot in Parigi, e Metternich in Vienna, a far sorgere le cinque giornate di Milano, che furono cinque giorni di salutare martirio; a far ridestare fra gl’incantevoli splendori delle lagune, l’anima morta di Venezia; a trasformare con la nuova fede i cuori più chiusi ad ogni sentimento religioso, a infondere negl’Italiani il loro antico valore. E, in pochi giorni, dei centomila Austriaci mandati a opprimere quella terra, quattromila furono cadaveri, ventisettemila feriti o tolti di combattimento, gli altri sbaragliati; soltanto perchè parole di libertà proferite dall’alto del Vaticano avevano quasi messo nuovo sangue nelle vene

34 [p. 417 modifica]e nuove idee nella coscienza della sopita Europa. Le campane che avevano suonato a preghiera, sapevano suonare altresì a stormo contro i tiranni.

«Ma, in questo suprema momento. Pio IX si ricordò di essere Papa dell’antico stampo. In una guerra tra gli Austriaci e gl’Italiani, benchè tutto il diritto stesse dalla parte di questi, e tutto il torto dalla parte di quelli, il Papa sentì che gli uni e gli altri erano cattolici. Nell’atto che il Re di Napoli abbandonava la causa italiana pel triste lecco di compensi territoriali, pel lucro di un bottino proporzionato al soccorso delle sue armi, Pio IX gelava il sangue nelle vene della nazione, rifiutandosi di mandare rinforzi e di benedire i combattenti per la più santa delle cause, per la causa d’Italia»35.

Un altro scrittore biasima l’Allocuzione del 29 aprile come un delitto di lesa patria e afferma che la diserzione di Pio IX causò là rovina d’Italia36; e, probabilmente, esagera nelle conseguenze, ma esagera soltanto; perchè la verità del fatto è riconosciuta da uno storico tanto dotto ed illustre quanto moderato e credente, il quale confessa egli pure, che alla lettura dell’Allocuzione cadde dagli occhi degl’Italiani un densissimo velo: e i loro nemici se ne consolarono37.

Cerca acutamente di difendere, in questo contrasto, la verità storica il Bianchi-Giovini, ma per dedurne la conseguenza che i due poteri sono inconciliabili nella stessa persona. «Il Papa investito di una duplice autorità - egli scrive - non può farsi in due, e nel mentre che esercita l’una esonerarsi dalla responsabilità dell’altra. Ei non può dire agli Austriaci: Io vi fo la guerra come principe temporale, e vi mando le mie paterne benedizioni come vostro capo spirituale. Un tal linguaggio più che l’ingenuità del cristiano ha il sofisma del causidico. Altronde questa posizione anfibia se sconviene alla dignità di un Pontefice, torna altrettanto utile ai nemici d’Italia»38.

[p. 418 modifica]Acutamente poi osserva il Mestica che il Papa ....lancia al mondo l’enciclica 29 aprile, protestandosi come capo della cristianità contrario alla guerra fra i cristiani, scrupoli che non ebbe ranno dopo, allorchè chiamò contro i sioi sudditi quattro eserciti da fuori39.

Fatto sta che da quel giorno Pio IX perdette ogni influenza sopra i suoi sudditi e su tutto il popolo italiano: l’Austria soltanto si rallegrò e la sua gioia fu, per sè stessa, sufficiente a staccare gr Italiani dalla politica pontificia, la quale dava soddisfazione soltanto ai loro nemici40.

Si getta un velo sulla funesta luce che si era fatta: si cerca di attribuire l’enciclica all’errore d’un momento: a Venezia, come altrove, si continua ad invocare il nome di Pio XI, ma la fiducia perduta non ritorna più, e gli spiriti fatti riflessivi poterono comprendere fin d’allora che la rottura definitiva fra il Papa-re e la nazionalità italiana non era che procrastinata; la catastrofe che sopravvenne sei mesi appresso, era inevitabile41.

La data del 29 aprile apparve, quale essa era effettivamente, la più importante di quel triennio; l’Allocuzione produsse una vera guerra aperta fra la Chiesa e la democrazia che finì con la rovina della teocrazia42; il giorno in cui il Papa fu neutrale fra il bene e il male, fra la nazione italiana e il suo carnefice, il divorzio fra il Papato temporale e l’Italia fa consumato43.

Nè meno severo, quantunque blando nelle forme, procede [p. 419 modifica]Giuseppe Mazzini il quale osserva che «un Papa sorse per tendenze non tristi e istinti progressivi e vaghezza di plauso popolare, eccezione fra i Papi degli ultimi secoli, al quale la Provvidenza, quasi ad insegnare agli uomini la impotenza della istituzione, schiuse nell’amore e nelle illusioni dei popoli le vie di una nuova vita. Tanto è il fascino esercitato dai grandi ricordi, tanta la potenza delle antiche abitudini; così febbrile in queste moltitudini, che dicono agitate dal soffio dell’anarchia, è il bisogno di una autorità, guida e sanzione dei loro progressi, che una parola di perdono e di tolleranza, escita dalla bocca del Papa, bastò a stringergli intorno in entusiasmo, in ebbrezza d’amore, amici e nemici, credenti ed increduli, illetterati ed uomini di pensiero. Un lungo grido di milioni presti a farsi martiri e trionfatori a un suo cenno lo salutò padre, benefattore, rigeneratore della fede cattolica, e dell’umanità,

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Spinto dal core in cerca di plauso e di affetto, ma trascinato prepotentemente dalla logica del principio rappresentato alla severità della dittatura assoluta; sedotto dal moto universale degli animi, dagli esempii vivi in altre contrade, dall’alito del suo secolo, a sentire, a intendere le sante parole di progresso, di popolo, di libera fratellanza, ma incapace di farsene egli stesso interprete; sospettoso delle conseguenze e tremante come chi si sente malfermo di vedere il popolo salito a nuova coscienza delle proprie facoltà e dei propri diritti, interrogare l’autorità del Pontefice: Pio IX tentennò miseramente fra le due vie che gli si affacciavano, balbettò parole di emancipazione che non seppe, ne volle attenere, promesse di patria e di indipendenza d’Italia che i suoi tradivano, cospirando coll’Austria il dì dopo; poi fuggì dinanzi alle moltitudini che gli gridavano coraggio.....» onde, come poche linee innanzi lo stesso Mazzini aveva notato..... «La prova è compiuta. L’abisso tra il Papato ed il mondo, nessuna potenza umana potrà colmarlo»44. [p. 420 modifica]A nome, frattanto, della guardia civica di Roma fu inviato al conte Mamiani un indirizzo sottoscritto, in fretta e furia, da un tenente-colonnello, un maggiore, da diciannove capitani, da undici tenenti e sottotenenti e da diciannove sottufficiali e militi, col quale si faceva piena adesione al programma di lui e specialmente ai propositi di confidare in sé medesimi e non negli aiuti e promesse di alcun straniero, e di non transigere mai con l’Austria e non firmare la pace finché le Alpi non segnino da ogni banda i confini d’Italia, dal Varo al Brennero e da questo al Quarnero.

Fra i sottoscrittori si notavano Angelo Brunetti, Pietro Guerrini, Pietro Sterbini e Sisto Vinciguerra, il quale fu più tardi operoso deputato alla Costituente romana. Non vi era firmato alcun rappresentante del battaglione XIII (Trastevere).

Ma se il nuovo Ministero Mamiani godeva tutte le simpatie della parte liberale e se affidava di liete speranze la maggiorità della popolazione, era però in odio alla maggiorità del Collegio cardinalizio, ai sanfedisti, ai gregoriani, ai gesuiti e al Pontefice stesso, il quale mal dissimulava l’antipatia che provava pel conte Mamiani, l’antico ribelle, le cui opere filosofiche - il Papa non lo dimenticava - erano segnate all’indice e il cui carattere dignitoso non si era voluto piegare all’atto di sottomissione, prescritto agli esuli, pel rimpatrio, dal decreto di amnistia 45.

I motteggi e le derisioni contro i ministri e segnatamente contro il Marchetti, che i Cardinali e monsignori si indicavano col nome di poeta arcadico e contro il Mamiani, che essi [p. 421 modifica]penavano poeta speculativo, erano continui e tanto poco nascosti che uscivano fuori della cerchia in cui erano destinati a rimanere rinchiusi46.

E, pur nondimeno, in quel Ministero, che era composto di uomini d’ingegno e di grande probità, tutte le gradazioni del partito liberale erano rappresentate. Perchè oltre al conte Giovanni Marchetti, uomo di idee e di opinioni temperatissime, in esso sedevano, campioni della moderazione, l’avv. Giuseppe Lunati, romano, valente giureconsulto - scrive il Grandoni ~ onestissimo cittadino, di carattere modesto ed urbano, che fin dai tempi pericolosi si protestava fautore delle riforme e del progresso47; il romano avvocato Pasquale De Rossi, uomo che poteva gloriarsi tutto dovere alla buona volontà, allo studio; professore di diritto nella romana Università, dotto, giusto, scevro di doppiezze, amico del progresso48, ma, ad ogni modo, più moderato ancora del Lunati; il principe Filippo Doria Pamphili, ricchissimo e splendidissimo fra i principi romani, giovane di nobili spiriti e - a detta del Farini - di quei giorni in amore del popolo e che era moderato quanto il De Rossi49; e quanto loro era moderato il duca Mario Massimo di Rignano, uomo d’ingegno - dice il Farini - nudrito di buoni studii, " segnalato per solerzia del pubblico bene e per costante sollecitudine dei civili progressi50; Il cardinale Luigi Ciacchi, uomo rispettabilissimo, prudente, dotto, di esemplare e retto costume, era - cosi il Grandoni - amantissimo della patria51. Certo è che egli in quel momento godeva tutte le simpatie dei liberali, perchè trovavasi allora ed erasi trovato Legato a Ferrara nell’anno precedente, quando gli Austriaci avevano violentemente occupata la città, onde egli aveva energicamente protestato contro quella usurpazione;

Cosicché, in ultima analisi, il Ministero Mamiani era un gabinetto di moderati (Ciacchi, Doria, De Rossi, Lunati, Marchetti [p. 422 modifica]e Massimo) presieduto da un caldo e sincero progressista, che tale realmente era il Mamiani, e al quale partecipava soltanto un democratico, l’avv. Giuseppe Galletti.

Muovono quindi al riso gli epiteti di radicali e di rivoluzionari affibbiati da parecchi storici papalini a quei Ministri. Tanto è vero quel moderno detto che si può essere sempre i giacobini di qualcuno!

Ad ogni modo, e nonostante le tenebrose opposizioni che, nelle anticamere del Quirinale, cominciarono, fin dal primo giorno, ad inceppare l’azione dei nuovo Ministero, questo, sostenuto dalla forza irresistibile della pubblica opinione e conscio dei propri doveri e della propria responsabilità, intese, coi primi suoi atti, a ristabilire completamente l’ordine.

Furono accettate le dimissioni del principe Rospigliosi dal grado di Generale comandante della guardia civica e di questo alto ufficio fu incaricato il principe Aldobrandini, che, nel precedente Gabinetto, era stato Ministro della guerra, e al colonnello Bolognetti-Cenci, comandante dei Castello Sant’Angelo, che aveva egli pure rinunciato a quell’incarico, fu sostituito il colonnello Stewart, forte soldato, stimato da tutti.

Quantunque lo Spada empia parecchie pagine della sua storia delle proprie melanconiche riflessioni intorno alle iniquità, che egli afferma commesse dalla guardia civica, durante quei tre giorni di torbidi, e quantunque il Minghetti, il Farini, e un poco anche il Pasolini, accennino anch’essi a un’esuberanza di azione della milizia cittadina a quei dì, resta sempre vero che il principe Rospigliosi, Generale comandante di essa e il duca Massimo di Rignano, capo dello Stato Maggiore e il Senato romano, con pubbliche manifestazioni, ne lodarono la condotta ed esortarono le milizie cittadine a perseverare nel mantenimento dell’ordine pubblico52; resta sempre vero che il Papa stesso, volendo dare un attestato di solenne fiducia ed attenzione verso la milizia civica di Roma, ha concesso che l’intiero battaglione, cui appartiene il distaccamento che monta alla reale, venga ammesso in corpo, ma senza fucile, all’augusta presenza di lui; e ciò perfino a che rimanga esaurito il turno [p. 423 modifica]dei dodici battaglioni53. Che da parte della milizia cittadina vi fosse stato qualche eccesso di zelo pare che, sulle prime, lo pensasse anche il ministro Recchi il quale, in data del l° di maggio, aveva fatto preparare una minuta di lettera da indirizzarsi al generale principe Rospigliosi: ma sembra che poscia, esaminate bene le cose, mutasse di opinione, perchè la lettera non fu più spedita, come si rileva dall’annotazione segnata in margine di quella minuta, nella quale si legge: non ebbe corso54.

Altronde è chiaro che, senza l’energia e il patriottismo dei militi cittadini, i tumulti di quei tre giorni avrebbero potuto mutarsi in fieri e gravi disordini, di cui non sarebbe stata cosa agevole il prevedere le conseguenze, le quali avrebbero potuto essere assai funeste. E, a meglio dimostrare quell’energia e quel patriottismo e la vigoria dell’azione adoperata, secondo le norme della migliore disciplina, dalla guardia civica, adduco in fine di questo volume alcuni documenti nuovi che mi è stato dato raccogliere in proposito55. Le vociferazioni, prive di consistenza, di qualche storico papalino avranno cosi la migliore e più eloquente smentita che alle vacue e interessate afiermazioni possa essere opposta.

Si vedrà da quei documenti come, a modo di esempio, non fosse punto vera la occupazione violenta del Castello Sant’Angelo, nel quale, in seguito all’offerta fattane al comandante dal Tenente-colonnello del V battaglione civico, marchese Niccola Sacripante e dietro concerti presi col comandante del medesimo forte, fu inviato un rinforzo di trentacinque militi e un sottotenente, quale rinforzo fu inoltre aumentato per parte del quattordicesimo battaglione di altri dieci militi56. E da quei documenti si vedrà come parecchi storici, anche di quelli togati e che vanno per la maggiore, abbiano, l’uno sulla falsariga dell’altro, leggermente sentenziato, attribuendo a quel popolare commovimento una importanza e una gravità assai maggiori di quelle che esso realmente ebbe.

[p. 424 modifica]Altronde, mentre, con fiera polemica, si dibatteva sui giornali se il Papa potesse o non potesse dichiarare la guerra, intanto che il canonico genovese avv. C. Carenzi, l’avv. Rinaldo Petrocchi e Pierangelo Fiorentino, sostenevano, da un lato, che il Pontefice poteva intimare guerra all’Austria e l’avv. G. A. Tucci e l’autorevole giornale inglese il Times 57, opponevano, dall’altro, le ragioni per le quali essi credevano che a lui intimar guerra non fosse permesso, il Ministero Mamiani, a diminuire, per quanto era da esso, i tristissimi effetti dell’Allocuzione, a rianimare le popolazioni italiane, a dimostrare come intendesse mantenersi saldo nel proprio programma, non doversi aver tregua con lo straniero fino a che questi non avesse oltrepassato le Alpi, mandava fuori la seguente ordinanza:

«il ministro dell’interno

«Considerate le condizioni presenti d’Italia, e le esigenze della causa nazionale;

«Considerato che in questo tempo le Provincie pontificie rimangono sprovvedute di truppe regolari assoldate;

«Udito il Consiglio dei ministri;

«Udito il volere di Sua Santità

decreta:

«1° La formazione di un Corpo di riserva di seimila uomini;

«2° Commette a S. E. il Ministro delle armi di presentare, senza dilazione, un progetto di esecuzione il meno gravoso possibile così alle popolazioni come all’erario.

«Roma, 5 maggio 1848.

«Il ministro dell' interno
« T. Mamiani ».

E il successivo giorno 8 lo stesso Ministro dell’interno pubblicava una circolare con la quale stabiliva, dopo avere udito [p. 425 modifica]il Consiglio dei ministri e inteso anche il volere di Sua Santità che, da quindi in avanti, la sopraintendenza della guardia civica di tutto lo Stato, la quale in prima ritenevasi dal Ministero degli affari esteri, passasse provvisoriamente nelle attribuzioni del Ministero dell’interno.

Intanto i giornali venivano tepidamente predisponendo l’animo delle popolazioni alle prossime elezioni: e pensatamente adopro l’avverbio tepidamente perchè a chi legge, come ho fatto io, i principali giornali romani di quel tempo, e cioè, il Contemporaneo, la Speranza, l’Epoca, il Labaro e la Pallade apparirà chiaro come tale avverbio si addica alla propaganda elettorale di quei fogli, i quali tutti, senza distinzione di partito, erano e si mostravano più che delle quistioni elettorali di due altre quistioni preoccupati, da cui quasi tutta lo loro attenzione e quasi per intero le loro scritture e i loro articoli erano assorbiti, e, cioè l’ondeggiamento della politica interna dei Governi e degli Stati italiani dopo l’Allocuzione papale, e i casi della guerra in Lombardia, della quale i pubblicisti, come quasi tutti gli abitanti dello Stato romano, seguivano con ansia e trepidazione indicibili, le minime vicissitudini.

Ciò nondimeno il giorno assegnato dalla notificazione, pubblicata fin dal 25 aprile, dal ministro Recchi, per la riunione dei collegi elettorali e per la elezione dei cento rappresentanti del popolo al Consiglio dei deputati fu il 18 maggio.

Ma dopo l’Allocuzione del 29 aprile la condizione dell’ambasciatore austriaco, divenuta già difficilissima fin dal 22 marzo, erasi ridotta assolutamente indecorosa e pericolosa per lui.

È cosa strana e singolare la sorte fatta dalla callida e fraudolenta politica del Governo austriaco al conte Rodolfo De Lutzow nella capitale dello Stato romano. E parecchi scrittori notano il contegno da questo rappresentante diplomatico, tenuto a Roma dal 22 marzo in poi, contrariamente a tutte le buone tradizioni, a tutte le regole più elementari della corretta diplomazia. Infatti, il popolo, furente, va ad abbattere gli stemmi di Casa d’Austria, non soltanto ovunque li trova in Roma, ma al palazzo stesso dell’ambasciata e il conte De Lutzow non domanda il suo passaporto: l’esercito pontificio e i volontari, partono pieni di entusiasmo, per la guerra contro l’Austria e il conte De Lutzow [p. 426 modifica]sta saldo in Roma: tutti i giornali, compreso il moderatissimo Labaro, compilato dai canonici don Stefano Ciccolini, don Enrico Fabiani, don Filippo Milanesi, don Eusebio Reali, don Francesco Ximenes, don Domenico Zanelli e don Carlo Borgnana e che aveva per motto Religione e Civiltà, tutti i giornali, compreso il moderatissimo Labaro, cominciano ad assalire e assalgono tutti i giorni, con fierissime polemiche, l’Austria e il Governo austriaco e incitano e infiammano i popoli dello Stato romano alla guerra contro di essi e il conte De Lutzow, imperterrito, assapora a sorso a sorso tutto quell’inesauribile calice di vilipendi, di accuse e di maledizioni e resta a Roma . . . fatto che sarebbe incomprensibile e inesplicabile se la grande opera dell’Allocuzione papale, a cui il conte De Lutzow, sagacemente e tenebrosamente, cooperava, insieme ai gesuiti, ai sanfedisti e ai rappresentanti di Russia, di Prussia, di Spagna, di Napoli e di Baviera, non lo spiegasse ampiamente e ampiamente non lo giustificasse.

Ora, questo fatto, cosi strano e inesplicabile, come fermò poi l’attenzione di parecchi storici58, così cominciò ad attrarre, anche allora, la considerazione delle menti più colte e svegliate; onde, specialmente dopo l’Allocuzione e dopo la costituzione del Ministero Mamiani, i liberali più autorevoli principiarono a levarne clamori e chiesero che, dal momento che il conte De Lutzow mostrava di non sentire e di non comprendere la necessità in cui egli era posto di privare i Romani dal piacere della sua presenza nella capitale dello Stato, questa necessità gli facesse comprendere il Governo, dandogli il passaporto ed invitandolo a partire.

E finalmente cosi avvenne; ma non fu agevole cosa al Mamiani il persuadere Pio IX di quella necessità. La Pallade del giorno 8, forse prematuramente e più come espressione di un desiderio che come enunciazione di un fatto compiuto, partecipava che era stato dato il passaporto al ministro d’Austria, aggiungendo che oggi il suo palazzo veniva sgombrato dagli arredi. E la [p. 427 modifica]notizia era confermata dal Contemporaneo dell’11 maggio59. Già la Gazzetta di Roma del 9 aveva partecipato a’ suoi lettori la medesima notizia; onde la Pallade del 17 maggio scriveva un breve articoletto in cui era detto: Che l’ambasciatore austriaco in Roma ricevesse i passaporti è un fatto annunziato già dalla Gazzetta Ufficiale; se abbia poi passato la porta non si sa. Chi dice una cosa, chi l’altra; chi sì e chi no. La Gazzetta disse che si preparava la scorta per sicurezza di Sia Eccellenza nel viaggio; poi si ammutì. Dunque come si potrà sapere il vero? Proviamo per questa via:

mancia di dieci gregorine d’oro da scudi dieci.

A chi saprà assicurarci se l’ambasciatore d’Austria sia o non sia più in Roma, mancia di gregorine dieci da 10 scudi l'una (non vogliamo spilorcerie) pagabili a vista dalla Ditta Pasquino, Abate Luigi e Compagni60.

Ma, mentre la Pallade cosi scriveva, il conte De Lutzow era già uscito di Roma; perchè egli era partito il giorno 16, sotto buona scorta, accompagnato e difeso lui e la sua intiera famiglia dalla fama non dubbia di uomo caritatevole, prudente e rispettabile perciò in società, che sebbene da tanti anni ambasciatore di quell’odiatissimo Governo (non intendiamo parlar della nazione), si comportò con molta destrezza, segnatamente nei frequenti nostri commovimenti politici61.

Oh la destrezza in servizio della sua causa e del suo Governo al conte De Lutzow non potrà e non vorrà negarla nessuno!

Ecco quindi che la Pallade nel successivo suo foglio pubblicava un articoletto intitolato: Meglio tardi che mai, in cui essa diceva: La mancia delle 10 gregorine, proposta nel nostro numero di ieri, è risparmiata. La Gazzetta uscita alla luce ieri sera annunzia oficialmente che il 16 partì da Roma, per imbarcarsi a Civitavecchia, S. E. il signor conte De Lutzow, già ambasciatore d’Austria presso la Santa Sede62.

[p. 428 modifica]Ma, mentre cosi scherzava il giornaletto popolare, il grave Contemporaneo, a proposito della partenza dell’ambasciatore austriaco, intitolava il primo articolo, firmato da Pietro Sterbini, Iniquità diplomatiche. Il direttore del periodico democratico riferiva un motto sfuggito nella sua forzata partenza da Roma al diplomatico asburghese, mosso dall’ira e abbandonando quella riservatezza che forma il più gran requisito dei signori diplomatici. «Io parto - avrebbe detto il conte De Lutzow - ma ho posto il Governo pontificio in un tale imbarazzo da cui non potrà uscirne mai63. Se ci fosse dato - prosegue lo Sterbini — di poter mettere a confronto queste sue parole con le proteste d’amicizia e d’attaccamento alla Santa Sede che avrà poste innanzi quell’ex-ministro nei suoi secreti colloquii diplomatici, potremmo mostrare ai meno veggenti quanto siano grandi le menzogne, quanto inique le arti ipocrite di questa gente, che, pef servire i loro padroni, credono lecito ogni inganno, santificato ogni tradimento.

E, traendo motivo da ciò, l’abile polemista romano metteva in mostra, con esempi tratti dalla storia, quanto fosse falsa la idea, da cui erano ancora dominati alcuni Governi e Principi italiani, e alludeva al Borbone, al Lorenese e al Papa, che l’aiuto delle arti bieche della diplomazia e l’alleanza delle Corti straniere fruttassero vergogna e abbassamento di potere, ma rendessero stabili ed inconcussi i loro troni. I Principi non si fidano dei popoli e all’evidenza dei raziocini prevalse il timore, i consigli leali e salutari furono vinti da quella fatalità che trascina oggi i Principi verso un abisso, come la forza delle correnti trascina i battelli dei selvaggi entro i vortici dei vastissimi fiumi d’America.

E, dopo avere dimostrato come i Principi italiani dovrebbero, nel loro stesso interesse, regolarsi fra V adempimento delle leali domande dei loro popoli e le callide insinuazioni dei diplomatici, conclude: è aperto e facile il cammino che vi presenta la sorte. Parlate con franca verità al diplomatico che vuole ingannarvi, minacciate colui che vi minaccia. La vostra forza è qui, non [p. 429 modifica]già a Vienna o a Londra; . . . il popolo italiano magnanimo e generoso non vi caccierà mai innanzi il feroce sarcasmo: «io vi ho tradito, io vi ho posto in un imbarazzo da cui non potrete uscirne giammai»64.

Ma, nonostante tutti gli avvenimenti in questo capitolo narrati, nonostante la sfiducia e l’abbattimento prodotti dall’Allocuzione del 29 aprile, nonostante che l’incantesimo con cui Pio IX aveva tenuti ammaliati ed avvinti a sé i suoi sudditi fosse disfatto, continuavano pur tuttavia ad avere i loro effetti gli strascichi e le rimembranze di quell’incantesimo, e molte e molte migliaia di cittadini liberali a Roma non sapevano e non potevano indursi a considerare Pio IX come avverso alla causa nazionale e non sapevano ridursi a credere ai loro stessi occhi, alle loro stesse orecchie; e non sapevano e non volevano staccarsi dal Pontefice ammaliatore, fin li adorato, e preferivano far risalire tutta la colpa delle terribili parole dell’Allocuzione ai diplomatici esteri, ai Cardinali, ai sanfedisti, ai gesuiti, a tutti . . . fuori che a Pio IX. Per il che tornava, a quei giorni, a ripetersi da per tutto, nel circoli, nei caffè, in ogni politico ritrovo uno stornello di Francesco Dall’Ongaro, che aveva levato grande rumore sul finire del ’47 e sul principiar del ’48, il quale diceva cosi:

O senator del popolo romano,
 Se voi siete davvero un galantuomo,
 Dite a Sua Santità che in Vaticano
 C’è tanti Cardinali e non c’è un uomo.
Son fatti come il gambero del fosso,
 Che, quando è morto, si veste di rosso,
E, mentre è vivo, cammina all’indietro
 Per intricar le reti di San Pietro.

E, proprio allora, in quei tristi giorni in cui Pio IX dalla contraddizione era trascinato a palesarsi avverso al movimento nazionale italiano, lo stesso Dall’Ongaro usciva in questo stornello caratteristico, per cui il nome di Pio si distingue dalla persona già nicchiante, divenuta sospetta del Papa65:

Pio nono non è un nome e non è quello
 Che trincia l’aria assiso in faldistoro.
 Pio nono è figlio del nostro cervello,

[p. 430 modifica]

 Un idolo del core, un sogno d'oro.
 Pio nono è una bandiera, un ritornello,
 Un nome buono da cantarsi a coro.
Chi grida per la via: Viva Pio nono!
 Vuol dir viva la patria ed il perdono!
 La patria od il perdon vogrliono dire
 Che per l'Italia si deve morire:
 E non si muore per un vano suono.
 Non si muor per un papa e per un trono66.

Mirabile stornello, più che per la spontanea semplicità della forma, per la profondità del pensiero col quale è riassunta tutta quella condizione di cose, di animi e di sentimenti.

Ma, non ostante questa gagliarda corrente, che si andava rapidamente insinuando nell’opinione pubblica a dissipare la visione neo-guelfa, molte altre migliaia di cittadini liberali, anche fra quelli che più erano rimasti percossi dall’esplicita sconfessione del Papa, non potendo e non sapendo condursi a rinunciare a quella dolce e cara visione del Papa liberatore d’Italia, amavano sperare e speravano di poterlo ritrarre, continuandogli le prove della propria devozione e del proprio affetto, dal tortuoso sentiero su cui volevano spingerlo gregoriani e reazionari, e speravano e si affidavano di conservarlo benevolo e favorevole alla santa causa della indipendenza nazionale.

E, per ciò, se l’affetto per Pio IX non era più unanime, se non era più caldo in tutti, come per lo innanzi, era cosi generale ancora e cosi vivo nei più, che continue dimostrazioni, anche dopo l’infausto 29 aprile, gliene venivano date.

Il 7 maggio, per esempio, erano giunti in Roma i conti Gabriele e Giuseppe Mastai, fratelli del Pontefice e la città li aveva accolti festosamente, perchè godevano fama meritata di specchiata rettitudine, d’animo gentile e di temperate opinioni67. I giornali rivolsero ad essi articoli di saluti e di lode68 e taluno sperò che la loro presenza rasserenasse il Quirinale, discacciandone i nuvoloni che vi si aggiravano. Ci giova credere che le parole degl’illustri fratelli - scriveva questo stesso [p. 431 modifica]giornale - valgano ad attestare al S. Padre, che Roma non aveva lai pensato ad assalire il palazzo apostolico, come lo vogliono far credere le misure guerresche ivi prese, il rafforzamento delle gtmrdie e la chiusura delle porte69 .

La via del Corso venne messa a gala per il loro passaggio, una quantità di bandiere tricolori hanno indicato chiaramente ai novelli ospiti la volontà dei Romani: vari plotoni di civica si accampagnarono fino al loro alloggio, ove rimase di guardia la civica stessa70.

E il loro alloggio era alla locanda Spillmann, i cui proprietari, non solo ricusarono qualunque compenso, ma proibirono ai servi di prendere qualsivoglia retribuzione71.

Il giorno 9 maggio, poi, il VI battaglione civico, unitamente alla guardia che smontava dal quartiere del Quirinale, portossi dietro l’invito dell’ordine (sic) del giorno antecedente, da Sua Santità, in una delle sale del palazzo pontificio. Il numero dei militi, che oltrepassava ben sei centinaia, dimostrava la curiosità nata in ognuno, ed il desiderio di sentire la voce dell’adorato Sovrano, privilegio accordato nel dì innanzi al XIII battaglione. Ma la curiosità non fu appagata, nè i desderii vennero compiti. La Santità Sua, ammessi al bacio del piede gli ufficiali, ed alcuno fra i militi, comparti a tutti la sua benedizione, e si ritirò, dopo avere accettato dal signor tenente-colonnello Floridi un enorme mazzo di fiori, con la seguente epigrafe dedicatoria, dettata dal milite di guardia Antonio Arigoni:

PIO IX MAXIMO
qui primus
italicae national1tatis fundamenti
pbimum lapidem
ab homine non dirimendum
in aevum
firmissime posuit
flores hosce
animi sui candoris
simbolum et imagines
sexta civicorum acies
ossequio amore veneratione
d. d. d.

[p. 432 modifica]Fu notato da molti che al fianco di Sua Santità era il seguente bouquet di cardinali, Mattei, Patrizi, Asquini, Ferretti, i quali dimoravano ancora nel palazzo apostolico dopo le tre gloriose giornate delle ciarle72.

A porre in rilievo poi quale credito ed autorità avesse acquistato a quei giorni Ciceruacchio, riferirò qui un fatto curioso e caratteristico. La mattina del 3 maggio un domestico dell’Ambasciata napoletana a Roma invitò l’onesto popolano a recarsi presso il Ministro dei re di Napoli, conte Ludolf e questi partecipò, con belle parole, ad Angelo Brunetti che S. M. il Re gli aveva conferito la medaglia d’oro dell’ordine civile di Francesco I, per gratitudine delle buone accoglienze fatte da esso ai delegati napoletani alla Dieta italiana, durante la loro residenza in Roma: e gli significò che la medaglia e il decreto che gliela conferiva sarebbero a lui recati da Michele Viscuso, un fiero e autorevole popolano liberale di Napoli, il quale quanto prima verrebbe a Roma.

Angelo Brunetti rifiutò tanto onore con uno stile tutto spartano. Egli è del popolo e vuole rimanere nel Popolo, e di ordini e di medaglie e di ciondoli non vuole intenderne: questi sono suonagli (sic) da appendersi al collo di quei tali, cui la società ha diritto di riconoscere per quelli che sono73.

Lasciando stare lo stile spartano che potrà avere usato Ciceruacchio e che, probabilmente, sarà stato invece spicciativo stile romanesco, restano sempre veri tre fatti: la bassezza del Borbone, il quale con simulazione tiberiana, adulava il capopopolo napoletano Michele Viscuso e il capo-popolo romano Angelo Brunetti, che egli, callido e infinto, disprezzava ed odiava, come odiava la libertà e disprezzava in cuor suo tutti i popolari sommovitori d’Italia a quei giorni; la importanza ognora crescente che aveva acquistata Ciceruacchio, anche fuori di Roma; e la modestia sempre grandissima e sempre uguale che quest’uomo, dal cuore nobile e generosissimo, aveva serbata e serbava, in mezzo ai fumi di quella popolarità e di quei trionfi, onde un cervello meno equilibrato e un animo [p. 433 modifica] meno retto e disinteressato avrebbero potuto essere conturbati e sconvolti.

Egli rimase sempre quell’Angelo Brunetti, che fin da due anni innanzi e, precisamente, fin dal 21 agosto e dal 18 dicembre 1846 aveva fatto pubblicare due lettere, una, a suo nome, sottoscritta da Tommaso Tommasoni, e l’altra dal dottor Pietro Guerrini, nelle quali avvertiva tutti coloro, che, da ogni parte dello Stato e anche da altre provincie d’Italia, si rivolgevano a lui con lettere, alcune delle quali gli attribuivano il titolo di Eccellenza, alcune altre «esigevano da lui un rimedio ad un male pubblico, altre lo esortavano a mandar consigli, altre lo piegavano per ottenere un impiego; altre per impegni da assumersi o colla polizia, o colla segreteria di Stato, e persino col Papa, che egli era stato, era e sarebbe sempre il modesto popolano d’un tempo; che non aveva alcuna influenza né sulle polizie, né sulla segreteria di Stato e tanto meno sul sommo Pio IX»; e quindi, chiarito come e quanto egli amasse la patria e come, fin dove glielo consentissero le sue modeste fortune, egli fosse soccorrevole a’ suoi simili, affermava essere egli impotente a soddisfare richieste che, «quantunque (spesse fiate) giunte, ai ministri del governo ed al sovrano e non a lui si competevano», e in fine, protestava energicamente contro quei ladri di città che, abusando del suo nome, andavano facendo collette per inventati fini patriottici74.

In data del 10 di maggio veniva pubblicata l’ordinanza ministeriale con cui, secondo ciò che era stabilito nello Statuto fondamentale, si istituiva il Consiglio di Stato e se ne fissavano le attribuzioni; e il giorno 13 all’ufficio di consiglieri vennero nominati uomini di molto merito e, in parte, anche amici delle riforme e della libertà, e cioè:

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Giuliani avv. Giuseppe,
Morichini monsignor Carlo Luigi,
Orioli prof. Francesco,
Pagani avv. Pietro,
Palma monsignor Giambattista,
Piacentini avv. Giuseppe,
Potenziani marchese Ludovico,
Ridolfi avv. Marcantonio,
Rufini monsignor Ildebrando,
Sturbinetti avv. Francesco.

      E, con decreto dello stesso giorno 13, Sua Santità nominava i primi quarantasei membri dell’alto Consiglio nelle persone di

Aldobrandini principe Camillo,
Alessandrini prof. Antonio,
Altieri principe Clemente,
Angelelli marchese Massimiliano,
Baldeschi conte Alessandro,
Barberini principe Francesco,
Bentivoglio conte Filippo,
Bertolini prof. Luigi,
Boncompagni de’ principi Baldassare,
Borghesi conte cav. Bartolomeo,
Caetani di Teano principe Michelangelo,
Cavalieri S. Bartolo prof. Niccola,
Corboli-Bussi monsignor Giovanni,
Corsini principe Tommaso, senatore di Roma,
Chigi principe Agostino,
D’Andrea monsignor Gerolamo,
Di Pietro monsignor Giovanni,
Folchi prof. Giacomo,
Gabrielli conte Andrea,
Gabrielli principe Pompeo,
Guiccioli marchese Ignazio,
Laureani monsignor Gabriele,
Lauri conte Lauro,
Mastai conte Luigi,

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      Come sarà facile scorgere, in questa assemblea predominavano la nobiltà e il censo, ma, anche in mezzo ai nomi di parecchie nullità e di molte mediocrità, tratte a quell’alto ufficio o dallo splendore dell’avito blasone o dalla esuberanza di accumulate ricchezze75, non facevano difetto quelli di uomini chiari nelle scienze, nelle arti, nelle lettere o in cose politiche ed economiche [p. 436 modifica]valorosi ed esperti. Primeggiava per altezza d’ingegno e per profondità di studii su tutti l’illustre filologo, archeologo, nummologo e storico Bartolomeo Borghesi, e appresso a lui emergevano i valenti artisti Tenerani, Sarti e Poletti, e i chiari letterati Strocchi e Muzzarelli, e gli scienziati Boncompagni e Folchi, e per studii di diritto e di economia politica e di scienze sociali per grande esperienza di affari, non disgiunta da grande probità, il Recchi, il Pasolini, il Lauri, il Guiccioli, e i monsignori Corboli-Bussi, D’Andrea, Mertel e Pontini, e i principi Simonetti e Torlonia.

E, quantunque assemblea in sua maggiorità conservatrice fosse cotesta e in essa non mancassero nemmeno gli amici del passato e della reazione, pure vi era raccolto un nucleo di uomini della libertà e della unità della patria caldi sostenitori quali il Recchi, il Muzzarelli, il Pasolini, l’Aldobrandini, il Caetani di Teano, il Corsini, il Corboli-Bussi, il Guiccioli, il Lauri, il Simonetti, lo Strocchi e il Zucchini.

Finalmente i collegi elettorali, convocati pei giorni 18, 19 e 20 maggio, procedevano alla scelta dei loro rappresentanti nel Consiglio dei deputati.

Il giorno 18 la maggior parte dei comizi addivennero alla elezione dei rispettivi uffici di presidenza, secondo le norme fissate dal regolamento provvisorio del 1° aprile: ma in parecchi collegi non si riusci a raccozzare, pel giorno 18, il numero di elettori stabilito dal regolamento per la costituzione degli uffici di presidenza, e ambedue le operazioni, cioè la scelta della presidenza e quella del deputato furono rimandate al giorno 19.

Il giorno 19 in parecchie provincie imperversò la pioggia, e nel collegio di Castelmaggiore - nella provincia di Bologna - in modo tale che non poterono riunirvisi gli elettori nel numero necessario e fissato dalla legge, né il 19, né il 20; onde la elezione non avvenne e il comizio elettorale dovette essere riconvocata il 14 giugno successivo per la nomina del suo rappresentante.

Nelle operazioni elettorali di tutti i collegi si scorgono le tracce della ingenuità primitiva e della più grande inesperienza costituzionale: in molti di essi le votazioni di ballottaggio, con interpretazione restrittiva della legge, furono indette ed eseguite nello stesso giorno 19, immediatamente dopo la prima [p. 437 modifica]votazione; in molti altri, invece, le votazioni di ballottaggio si fecero il successivo giorno 20.

Dai verbali, esistenti nell’archivio di Stato e che io ho accuratamente esaminato ad uno ad uno, risulta che in parecchi collegi le operazioni furono inaugurate con l’invocazione religiosa e chiuse con l’agimus tibi gratias.

Nel collegio di Osimo si ebbe la più grande delle illegalità, commessa per eccesso di ingenuità. Sopra proposta di alcuni elettori, affinchè coloro che erano eleggibili e contemporaneamente anche elettori non potessero votare per sè stessi, l’ufficio di presidenza deliberò che ciascun elettore dovesse firmare la propria scheda, con che la votazione invece di essere segreta diveniva palese!76 Eppure ci fu chi superò il tratto di ingenuità dei 123 elettori di Osimo e fu il Consiglio dei deputati, il quale, visto che il conte Fiorenzi aveva riportato in ballottaggio 109 voti in confronto del suo competitore che ne aveva ottenuti soltanto 14, convalidò la elezione!

Come erano stati ingenui e primitivi i procedimenti dei comizi elettorali, così ingenui ed incompleti furono gli atti iniziali del Consiglio dei deputati, i quali, anzi, nei primi giorni, furono svolti con tanta imprevidenza ed inesperienza che non ne rimase quella traccia che il futuro storico avrebbe quasi avuto il diritto di attendersene, o che almeno, avrebbe potuto sperarne.

Fatto sta che nessuno degli storici e degli scrittori da me veduti, e che trattino di questo periodo, ha potuto apprendere tutti i nomi dei cento deputati eletti; neppure il Grandoni, neppure lo Spada, cosi accurati e minuziosi nel raccogliere e nel narrare i particolari di quegli avvenimenti, seppero e poterono mettere insieme i nomi di oltre ottantasei fra i deputati eletti il 19 maggio dai comizi elettorali dello Stato romano. Lo Spada, anzi, che tanta congerie di documenti, ne sempre con discernimento, raccolse, confessa ingenuamente che «non sembrerà forse credibile che all’apertura di entrambi i Consigli non si pubblicasse nè dal nostro giornale officiale, nè da quello dei dibattimenti, il quale venne instituito espressamente per dar- [p. 438 modifica]darcene le discussioni, una lista completa dei deputati. Ciò non esclude che man mano che le elezioni avevano luogo77, il giornale officiale ce ne desse l’annunzio. Ma ima lista completa e definitiva, ripetiamo), non è a nostra cognizione che venisse officialmente pubblicata.

«Fu divulgato bensì per le stampe un album, ma non dal Governo, il quale contiene ottantasei nomi di deputati eletti sopra i cento che dovevano eleggersi; e vi si trovano aggiunti cenni biografici sopra ciascuno dei medesimi. Pertanto, sopra la scorta del detto album, noi ne sottoponiamo i nomi che sono i seguenti»78.

Ma lo Spada, cosi scrivendo, aveva torto; poiché nessuno meglio di lui - cui, durante il reggimento pontificio, era aperto e facile l’accesso in tutti gli archivi - avrebbe potuto ricercare in quello del Ministero dell’interno la raccolta che necessariamente doveva esservi - e vi era - dei verbali delle elezioni, inviati al Ministero stesso, secondo la legge, da ciascun Collegio. Quella raccolta, conservata e ordinata nell’archivio di Stato di Roma dal chiaro e operosissimo sopraintendente commendatore De Paoli79, l’ho veduta ed esaminata io, onde è che posso qui dare i nomi di tutti i cento deputati eletti.

[p. 439 modifica]Ecco dunque, per ordine alfabetico, i nomi dei collegi elettorali e dei rappresentanti da essi nominati80:

1. Acquapendente Ninchi avv. Annibale,
2. Alatri Patrizi dottor Domenico (a primo scrutinio),
3. Albano81 Armellini avv. Carlo,
4. Amandola Gallo conte Marcello (a primo scrutinio),
5. Amelia Sacripante marchese Niccola,
6. Anagni Sterbini dott. Pietro (a primo scrutinio),
7. Ancona I Simonetti principe Annibale,
8. Ancona II Marini Ciriaco Pio,
9. Arcevia Carletti Giampieri conte Giambattista,
10. Argenta Bettazzoni avv. Antonio,
11. Ascoli Saladini Pilastri conte Saladino,
12. Bazzana82 Zanolini avv. Antonio (irregolarmente a primo scrutinio).
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13. Benevento Torre Federico (a primo scrutinio),
14. Bertinoro Montanari prof. Antonio,
15. Bologna I (S. Stefano) Pepoli conte Carlo,
16. Bologna II (S. Felice) Zanolini avv. Antonio,
17. Bologna III (Saragozza) Minghetti Marco,
18. Bologna IV (Galliera) Zanolini avv. Antonio,
19. Bologna V (S. Vitale) Mattei conte Cesare,
20. Budrio Mattei conte Cesare,
21. Cagli e Pergola Marcelli conte cav. Cristoforo,
22. Camerino Fabbri prof. Giambattista,
23. Castelbolognese Manzoni conte Giacomo,
24. Castelmaggiore83 Galletti avv. Giuseppe,
25. Castelnuovo di Porto Bianchini Ab. Antonio,
26. Castel San Pietro Minghetti Marco,
27. Cesena Bufalini prof. Maurizio,
28. Cento Monari dottor Andrea,
29. Ceprano Moscardini Gianlorenzo,
30. Cingoli Pantaleoni dottor Diomede,
31. Città della Pieve Galeotti avv. Federico,
32. Città di Castello Signoretti nob. Giambattista,
33. Civitanova Ricci marchese Giacomo,
34. Civitavecchia Guglielmi Felice,
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35. Comacchio Felletti avv. Luigi,
36. Copparo Delfini avv. Antonio,
37. Fabriano Serafini marchese Niccola,
38. Faenza e Brisighella Mamiani conte Terenzio,
39. Faenza e Russi Farini dottor Luigi Carlo,
40. Fano e Fossombrone Ferri conte Carlo,
41. Fermo I84 Berti-Pichat dottor Carlo,
42. Fermo II Potenziani marchese Ludovico (a primo scrutinio),
43. Ferrara I Recchi conte Gaetano,
44. Ferrara II Recchi conte Gaetano,
45. Forlì Guarini conte Pietro
46. Frosinone85 De Rossi prof. avv. Pasquale,
47. Fuligno Rutili Gentili ing. Antonio,
48. Gubbio Ranghiasci Brancaleoni marchese Francesco,
49. Iesi Armellini avv. Carlo,
50. Imola Zappi marchese Daniele,
51. Lojano Montanari prof. Antonio,
52. Lugo e Bagnacavallo Manzoni conte Francesco,
53. Macerata86 Lauri conte Lauro (a primo scrutinio),
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54. Mondolfo e Mondaino Benedetti di Montevecchio duca Ermanno,
55. Montalboddo Ghepardi Benigni conte Niccola,
56. Montefiascone87 Ricca avv. Francesco,
57. Montegiorgio Caporioni Gerolamo,
58. Nocera Bini Cima avv. Giacomo,
59. Norcia Scaramucci avv. Ottavio,
60. Offida Neroni cav. Giuseppe,
61. Orvieto88 Bracci conte Giuseppe,
62. Osimo Fiorenzi conte Lorenzo,
63. Palestrina Lunati avv. Giuseppe,
64. Pennabilli e San Leo Nardini conte dott. Francesco,
65. Pesaro Mamiani conte Terenzio,
66. Perugia I Sereni avv. Giambattista,
67. Perugia II Guerrieri Guerriero,
68. Poggiomirteto Lunati avv. Giuseppe,
69. Ravenna Alfonsine Gamba conte Ippolito,
70. Ravenna Cervia Fusconi dottor Sebastiano,
71. Recanati Serenelli Honorati avv. Luigi (a primo scrutinio),
72. Rieti Potenziani marchese Ludovico,
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73. Rimini Ferrari Banditi conte Sallustio,
74. Ripatransone89 Neroni cav. Giuseppe,
75. Roma I Borghese princ. Marcantonio,
76. Roma II De Rossi prof. avv. Pasquale,
77. Roma III Lunati avv. Giuseppe,
78. Roma IV Mamiani conte Terenzio,
79. Roma V Cicognani avv. Felice,
80. Roma VI Sturbinetti avv. Francesco,
81. Ronciglione90 Borghese principe Marcantonio,
82. Salidecio e Coriano Albini Basilio,
83. Sanginesio Bonaparte di Canino principe Carlo (a primo scrutinio),
84. San Giovanni in Persiceto Minghetti Marco (a primo scrutinio),
85. Sanseverino91 Fiorenzi conte Francesco,
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86. Santarcangelo Fabbri conte Edoardo,
87. Sarsina Marcosanti dottor Paolo,
88. Senigaglia92 Marchetti degli Angelini conte Giovanni (a primo scrutinio),
80. Sezze Gigli dottor Ottavio (a primo scrutinio),
90. Spoleto Di Campello conte Pompeo,
91. Subiaco Mariani avv. Livio (a primo scrutinio),
92. Terni Armellini avv. Carlo,
93. Tivoli Colonna cav. Vincenzo,
94. Todi Martini dottor Angiolo (a primo scrutinio),
95. Tolentino Cicconi dottor Marino,
96. Urbino Corboli Aquilini conte Curzio (a primo scrutinio),
97. Velletri Galeotti avv. Federigo,
98. Vergato Zanolini avv. Antonio,
99. Veroli93 Melloni dottor Francesco (a primo scrutinio),
100. Viterbo Orioli prof. Francesco.

      Dalle quali elezioni risulta che fu eletto in quattro collegi l’avv. Antonio Zanolini, in tre collegi furono eletti l’avvocato Carlo Armellini, l’avv. Giuseppe Lunati, il conte Terenzio [p. 445 modifica]Mamiani e Marco Minghetti, e in due collegi il principe Marcantonio Borghese, il prof. avv. Pasquale De Rossi, l’avv. Federigo Galeotti, il conte Cesare Mattei, il prof. Antonio Montanari, il cav. Giuseppe Neroni, il marchese Ludovico Potenziani e il conte Gaetano Recchi.

Di questi cento deputati sedici furono eletti a primo scrutinio e di questi sedici quattro a unanimità di voti, e questi quattro deputati furono il conte Enrico Amici Pasquini il quale, su 160 votanti, ottenne a Senigaglia 159 voti con una scheda bianca; il conte Curzio Corboli Aquilini che ad Urbino ebbe 221 voti su 221 votanti; il conte Giovanni Marchetti degli Angelini che ebbe a Senigaglia (in sostituzione dell’Amici Pasquini, il quale aveva rinunciato subito), 137 voti su 137 votanti; e il marchese Ludovico Potenziani, che riportò nel 1° collegio di Fermo 98 voti su 99 votanti con una scheda bianca.

I collegi dove più numerosi accorsero gli elettori alle urne il 19 maggio furono: Albano, dove al primo scrutinio accorsero 355 elettori e, il dì seguente, a quello di ballottaggio, 420; Amandola (166 votanti su 472 inscritti); Anagni (222 su 537); Benevento (242 su 652); Cento (220 su 514); Civitavecchia (208 su 520); Frosinone (339 su 628); Fuligno (210 su 570); Ravenna e Alfonsine (223 su 574); Recanati (211 sopra un numero di iscritti, che non poteva oltrepassare la cifra di 549, perchè l’avv. Luigi Serenelli Honorati, che ebbe 183 voti fu proclamato eletto a primo scrutinio); Rieti dove accorsero al primo scrutinio 364 elettori a votare, senza che si possa fissare il numero preciso degl’inscritti, che, molto probabilmente, non poteva oltrepassare i 960); Sanginesio (205 votanti su 409 iscritti); Subiaco (dove i votanti furono 284 sopra una cifra di inscritti che, nella peggiore ipotesi, non poteva superare i 698, perchè il dott. Livio Mariani che ebbe 266 voti fu proclamato eletto a primo scrutinio); Gubbio (186 votanti su 420 inscritti); Todi (192 votanti su 499 inscritti). Seguono poi altri collegi ove l’affluenza degli elettori fu notevole, come Camerino (votanti 373); Lugo e Bagnacavallo (327); Viterbo (278 votanti su 964 inscritti); Terni (votanti 270); Macerata (252); Spoleto (243): Città della Pieve (235); Urbino (221 sopra 864 inscritti); Poggio Mirteto (207).

[p. 446 modifica]I collegi dove in minor numero si presentarono a votare gli elettori furono: Argenta (dove votarono 37 elettori su 503 inscritti); Bazzane (36 su 417); Bologna 2® collegio (70 su 438); Budrio (37 su 285); Castelbolognese (78 su 468); Castel San Pietro (63 votanti); Ferrara 2° collegio (33 votanti); Lojano (60 votanti); Rimini (89 votanti su 661 inscritti).

In genere gli elettori furono più numerosi e diligenti e più si appassionarono alla lotta elettorale nelle Provincie umbro-marchegiane e romana; meno nelle provincie settentrionali, e specialmente nelle provincie bolognese e ferrarese.

Un fenomeno poi avvenuto, durante queste elezioni in alcuni collegi delle provincie di Urbino e Pesaro, Macerata, Camerino e Perugia, è degno di nota.

Nel collegio di Cagli e Pergola monsignor Giulio dei conti Della Porta entrò in ballottaggio con 12 voti col conte cavalier Cristoforo Marcelli che ne ebbe 105. Al secondo scrutinio il conte Marcelli ottenne 113 suffragi e quelli di monsignor Della Porta scesero a 5. Ma ciò non toglie che egli entrasse in ballottaggio.

E lo stesso fatto avvenne a Gubbio, dove su 180 votanti il marchese Ranghiasci Brancaleoni riportò voti 135 e monsignor Giulio della Porta 18: onde entrò in ballottaggio anche qui, e se il marchese Ranghiasci vide ascendere i suoi voti a 158, quelli di monsignor Della Porta da 18 salirono a 28. E, probabilmente, fra quei due, il meno liberale non era monsignor Della Porta.

Contemporaneamente a Recanati su 211 votanti, mentre l’avv. Serenelli Honorati conseguiva 186 voti e 16 ne otteneva l’avv. Teofilo Valentini, monsignor prevosto D. Anastasio Adriani raccoglieva sul suo nome 14 voti.

A Perugia poi, che era divisa in due collegi, monsignor Carmelo Pascucci, nello stesso giorno, conseguiva 14 voti nel I collegio e 23 nel II, senza entrare in ballottaggio in nessuno dei due.

Ma a Città della Pieve, ove, al primo scrutinio, recavansi, il 19 maggio, a votare 127 elettori, mentre l’avv. Federigo Galeotti conseguiva 46 voti, 42 ne riportava monsignor Giuseppe Maria Severa, vescovo di Città della Pieve, intanto che l’altro candidato marchese Ludovico Potenziani ne raccoglieva sul suo nome 38. Onde, all’indomani, avveniva il ballottaggio tra [p. 447 modifica]l’avvocato Galeotti e il vescovo Severa, e la battaglia, in quelle poche ore, infuriava in guisa che, alla mattina del 20, il numero degli elettori era quasi raddoppiato: da 127 essi erano ascesi a 235. L’esito della lotta fu questo: l’avv. Galeotti ebbe 137 voti, monsignor Severa 97, uno nullo. Monsignor vescovo ci aveva provato ad entrare nel Consiglio dei deputati con le mani e con i piedi. Eppure fra l’avvocato Galeotti e monsignor Severa il più liberale non era, probabilmente, quest’ultimo!

Ad ogni modo questa incipiente germinazione di candidature ecclesiastiche mi è parsa degna di nota; come mi pare degno di nota e di rilievo il fatto che, quantunque questi cento deputati eletti dalle popolazioni dello Stato romano, uscissero da comizi di privilegiati, in cui la grandissima maggioranza degli elettori non era inscritta che per il titolo del censo, pur tuttavia essi riuscirono, qualunque fosse o potesse essere la gradazione del partito politico a cui ciascuno di essi appartenesse - quasi tutti concordi in un pensiero; quello di non voler più permettere e tollerare il governo dei chierici.

Osserverò anche che, durante questa prima ed unica legislatura dello Stato romano, durata dal 5 giugno al 26 dicembre, oltre le prime cento elezioni, se ne compirono altre cinquantadue suppletive, sia per le opzioni avvenute dopo la convalidazione delle quadruple, triple e doppie elezioni, sia per le dimissioni che alcuni deputati vennero presentando; e di parecchie di queste elezioni suppletive, in seguito, farò cenno.

L’ultima elezione fu quella del collegio di Faenza e Russi avvenuta il 17 dicembre, per rinuncia emessa dal Farini, e nella quale su 69 votanti ottennero 38 voti il maggiore Vincenzo Caldesi, 15 il dottor Luigi Carlo Farini, 11 il conte Francesco Laderohi e gli altri 5 andarono dispersi; per il che vi fu ballottaggio subito, e, su 64 votanti, il Caldesi consegui 46 suffragi e il Farini 18; onde fu dichiarato eletto il Caldesi, che emise rinuncia il giorno 20 dello stesso mese.

Del resto nell’Assemblea eletta dalle popolazioni dello Stato romano erano largamente rappresentati il censo, il legnaggio e la cultura. In essa erano inviati a sedere tre principi, un duca, cinque marchesi, ventiquattro conti, diciannove giurisperiti, nove medici, sei professori, tre ingegneri. Quasi tutti [p. 448 modifica]quei deputati erano possidenti; molti di essi ricchissimi possidenti.

In quell’Assemblea erano uomini insigni, quali il Mamiani filosofo e letterato già chiarissimo, il Bonaparte e l’Orioli valorosi scienziati, l’Armellini, il De Rossi, il Cicognani, il Lunati, il Galeotti, il Sereni, lo Sturbinetti e lo Zanolini, illustri giureconsulti; medici già venuti in fama quali il Bufalini, il Farini, il Fusconi, il Pantaleoni; uomini di grande espertezza in materie economiche, agricole, industriali, quali il Potenziani, il Minghetti, il Lauri, il Simonetti, il Berti-Pichat; o già noti per la cultura negli studi storici e letterarii, quali il Montanari, il Pepoli, il Marchetti, o già rinomati nel campo politico, quali il Recchi, il Mamiani, il Galletti, il Farini, il Minghetti, il Lunati, lo Sturbinetti - che o erano già stati al Governo o al Governo si trovavano in quel momento - e, infine, gagliardi e assai lodati pubblicisti, quali lo Sterbini, l’Orioli, il Gigli.

Nel complesso era un’Assemblea seria, illuminata, onesta; e vi predominava l’elemento liberale, patriottico, desideroso di propugnare la causa della nazionale indipendenza e lo svolgimento delle libertà costituzionali. Le opinioni temperate vi avevano certamente preponderanza; ma la temperanza delle idee era, per la maggioranza di quella Camera, subordinata al concetto che il Sovrano ed il Governo avrebbero persistito nel seguire la via intrapresa: se l’uno o l’altro, o ambedue avessero accennato a retrocedere; se il Papa si fosse voluto ostinane nella infausta politica delineata nella sua ultima Allocuzione; se il governo a quella politica si fosse acconciato, quell’Assemblea - benchè composta in notevole maggiorità di uomini ammiratori di Pio IX e seguaci di idee moderate - non avrebbero seguito nè l’uno nè l’altro, e, nel suo sono, si sarebbe sempre raccolta una maggioranza pronta a sospingere il Ministero ad una politica nazionale più decisa o a rovesciarlo.

La parte moderata vi aveva autorevolissimi rappresentanti nel Minghetti, nel Farini, nel Montanari, nell’Orioli, nel De Rossi, nel Cicognani, nel Fusconi, nel Lauri, nel Guarini, nel Marchetti, intorno ai quali era sempre pronto a raggrupparsi il nucleo, di mediocrità inviato alla Camera, sia in queste prime, sia nelle successive elezioni suppletive dalle Provincie [p. 449 modifica]settentrionali, e più specialmente da quelle di Bologna e di Ferrara, come per esempio il Mattei, il Bettazzoni, il Monari, il Felletti, il Delfini, il Bevilacqua, il Marsili, il Banzi, il Pizzoli, il Canonici, il Bofojidi, il Fagnoli, il Giovannardi, il Massei, e fra i marchegiani il Benedetti di Montevecchio, il Raughiasci Brancaleoni, il Ripanti, il Piccinini e qualche altro.

Ma, nondimeno, non mancava, fra i nuovi eletti, un gruppo di deputati più animosi ed ardenti, smaniosi di affrettarsi, con energiche e spedite provvisioni, sulla via di ogni civile progresso e già sfiduciati - dopo l’Allocuzione del 29 aprile - di poter vedere compiuta la grande impresa del nazionale riscatto con la cooperazione del Papato. Nessuno di quegli uomini, che cedevano sui banchi della sinistra, aveva ancora, forse, chiare ed esplicite opinioni repubblicane, anzi nessuno di essi, allorchè, l’Assemblea iniziava la sua opera legislativa, pensava alla possibilità di un Governo repubblicano94, sebbene tutti quegli [p. 450 modifica]uomini fossero ben persuasi che col Papa e coi preti non era più possibili procedere d’accordo. Quel gruppo, che sarebbe stato probabilmente, capitanato dal Galletti, se egli non fosse stato ministro, aveva due irrequieti, rumorosi, ma energici e operosissimi alfieri, il Canino e lo Sterbini, e ad esso aderivano, dal più al meno, l’Armellini, il Campello, il Torre, il Sacripante, il Martini, il Mariani, il Caporioni, il Manzoni (Giacomo), e, pù tardi, dopo le elezioni suppletive, ad esso si accosterebbero il Borgia, il Fasci, il Rusconi e Gherardi Silvestro.

Questo partito, meno dell’altro numeroso, era più dell’altro attivo ed intraprendente, e nutriva grande stima e grande simpatia pel Mamiani.

Fra gli uni e gli altri stavano, aderenti con le loro simpatie al Ministero Mamiani, lo Zanolini, lo Sturbinetti, il Berti-Plchat, il Lunati, il Sereni, il Galeotti, il Potenziani, il Gigli, il Simonetti - e presto giungerebbe a collegarsi ad essi un valoroso giovine bolognese, uscito dalle elezioni suppletive, Rodolfo Audinot, nudrito di buoni studii e di nobili sentimenti dotato [p. 451 modifica]e attorno a questi si stringevano parecchi deputati, meno segnalati, ma non meno liberali delle provincie umbro-marchegiane, e specialmente della provincia romana.

Perchè, si può affermare, per la verità, che tanto in questa, come nella successiva Assemblea costituente, come in tutto il movimento che condusse lo Stato romano dall’amnistia del 16 luglio 1846 all’allocuzione del 29 aprile 1848 e da questa alla convocazione della Costituente, le provincie settentrionali, e specialmente quelle di Bologna e di Ferrara, dessero il maggior contingente di attori al partito moderato, mentre la maggioranza delle schiere rivoluzionarie ebbe il suo principale fondamento nelle provincie umbro-marchegiane, e segnatamente in quella di Roma.

Nè io intendo di stabilire qui chi avesse ragione e chi torto, nè quale delle due tendenze fosse migliore e quale la meno buona: intendo affermare un fatto storico di cui a suo tempo indagherò le ragioni, ed addurrò le prove e solo dirò qui che da quella prevalenza dell’elemento moderato fino alla convocazione della Costituente la provincia di Bologna si sottrasse, con impeto, nelle elezioni alla Costituente stessa, quando inviò a suoi rappresentanti, insieme al Galletti e al Berti—Pichat, il Filopanti, i due Rusconi, il Savelli, il Collina, il Cristofori, il Savini, il Bignami e parecchi altri valorosi patrioti, che furono, in seno all’Assemblea, strenui difensori del diritto nazionale e delle libertà conculcate da quattro eserciti europei armati ai danni del popolo romano.

Di questo Consiglio dei deputati eletto dalle popolazioni romane, alcuni membri ebbero alto posto nelle successive vicende del nazionale risorgimento, come il Mamiani, il Farini, il Minghetti, il Campello, che furono ministri del Regno d’Italia; altri fecero parte del Parlamento nazionale italiano, o nella qualità di deputati di senatori, come ad esempio, l’Audinot, il Galletti, il Berti-Pichat, lo Zanolini, il Guarini, il Fiorenzi (Francesco), il Fusconi, il Pantaleoni, il Montanari, il Torre, il Guiccioli, il Ninchi, il Moscardini, il Serafini, il Saladini-Pilastri, il Popoli, il Rusconi (Carlo), il Marsili.

Tale era l’Assemblea alla quale, nel momento appunto in cui Carlo Alberto, alla testa degl’Italiani, sorti, dopo tre secoli, con [p. 452 modifica]armi proprie a scuotere il giogo straniero, riportava segnalate vittorie sulle rive del Mincio, e nel momento appunto in cui Pio IX e Ferdinando di Borbone abbandonavano la causa nazionale onde, fin lì, si erano mostrati propugnatori, i popoli dello Stato romano affidavano la direzione dei propri destini.

Fine del Volume Primo.

Note

  1. L. Pianciani, op. cit., tome II, chap. XXII, pag. 415.
  2. Farini, Pasolini, Minghetti, Galletti - tutti quattro facenti parte di quel Ministero - e La Farina, Grandoni, Pinto, Rusconi e Spada testimoni oculari. Poi lunga schiera di scrittori intorno a quell’epoca e a quei fatti, e i giornali del tempo.
  3. P. D. Pasolini, op. cit, cap. VI, § 3°; M. Minghetti, op. cit, vol. I, cap. V, pag. 377 e 378. Le parole del conte Pasolini, che io ho riferite e che, probabilmente, colgono nel segno della verità, sono gravi, perchè da esse risulterebbe che Pio IX - cosi notoriamente fiacco in fatto di cognizioni e di studi (Vedi V. Gioberti, Rinnovamento, vol. I, cap. XIII, ove è detto: Giovanni Mastai non ebbe agio e tempo di vacare agli studii; cosicchè eziandio nelle materie sacre egli è costretto a ricorrere al giudizio degli altri, che facilmente ne abusano) - non avesse bene compreso il senso del latino, che gli avevan dato a leggere e che egli aveva letto in Concistoro.
  4. Farini, Pasolini, Minghetti, Grandoni, La Farina, Finto, Rusconi, Spada, testimoni oculari; e moltissimi altri storici e tutti i giornali del tempo; Contemporaneo, Pallade, Epoca, Labaro, Speranza.
  5. Dispaccio Bargagli al ministro degli affari esteri in Firenze, in data di Roma 29 aprile in N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea, ecc., vol. V, cap. III, § 40.
  6. G. Spada, op. cit., vol. II, cap. XI, pag. 263; M. Minghetti, op. cit, vol. I, cap. V, pag. 377 e seguenti.
  7. Che tali fossero i pensieri di Ciceruacchio, che l’ottimo popolano, nonostante l’Allocuzione del 29 aprile, continuasse ad amare Pio IX, oltre che io l’ho dalle ripetute e concordi affermazioni dei più stretti amici del tribuno romano, vai quanto dire dalle affermazioni del Montecchi, del Derni, dei Benai, del Finto, del Bruzzesi, del Caravacci e di parecchi altri, risulta anche dalla narrazione del Colombo (op. cit., § 3°, pag. 73) e fin anche da quella del De Saint-Albin, il quale scrive (op. cit., tom. Ier, chap. IV, pag. 132), che i preti i quali avevano predicata la crociata gridavano - dopo la pubblicazione dell’Allocuzione - con indignazione: egli ci ha ingannati! E Ciceruacchio, con le lacrime agli occhi, ripeteva: egli ci ha traditi! E risulta fin anche dalle parole del Balleydier, il quale, inventando una proposta di massacro di tutti i preti, che egli attribuisce a Ciceruacchio, per conservare al personaggio il suo carattere storico, è costretto a porgli in bocca queste parole: V’è un solo mezzo di salvare la rivoluzione (!) ed è liberare Pio IX dai nemici che cagionano la sua perdita, rovinando la sacra causa del popolo: i preti si son posti di fronte alla libertà: è duopo massacrarli per aprire il passo alla libertà. (A. Balleydier, op. cit., cap. VI, pag. 84).
          Ripeto che questa è una favola, non solo non sussidiata di prove, ma smentita da altri storici della stessa fazione papale: ma dico che, se fosse vera, proverebbe, con le parole attribuite a Ciceruacchio, che il generoso popolano, in mezzo all’ira ed al dolore da cui era commosso, si preoccupava del suo Pio IX, come della patria e della libertà.
  8. P. D. Pasolini, op. cit., cap. VI, § 3°, pag. 104.
  9. V. Gioberti, Rinnovamento, ecc., vol. I, cap. XIII; L. Pianciani, op. cit., tom. II, chap. XXII, pag. 415.
  10. P. D. Pasolini, op. cit., cap. VI, § 3°.
  11. Vedi il documento n. 116.
  12. L. Pianciani, op. cit., tom. II, chap. XXII, pag. 416. Cfr. con C. Rusconi, Repub. rom. Introduzione, pag. 11.
  13. C. Rusconi, Repubblica romana. Introduzione, pag. 10.
  14. V. Gioberti, Rinnovamento, vol. I, cap. XIII.
  15. Lo stesso, ivi.
  16. F. Ranalli, op. cit., vol. II, lib. X, pag. 176 e 177.
  17. Lo atesso, ivi.
  18. T. Flathe, op. cit., lib. III, cap. I, § 3.
  19. A. Balleydier, op. cit., cap. VI, pag. 84; A. De Saint-Albin, op. cit, tom. I, chap. IV, pag. 132 et suiv.; L. Pianciani, op. cit. tom. II, chap. XXII, pag. 416.
  20. F. Croce, op. cit., cap. VIII; G. Spada, op. cit., vol. II, cap. XI.
  21. E. Ruth, op. cit., voi II, cap. VI, pagr. 354.
  22. L. Mickiewicz, op. cit, note al cap. I, pag. 149.
  23. Il giornale romano allude al prete Stella, succeduto nell’ufficio di confessore di Pio IX al compianto e amato abate Graziosi. Il canonico Stella era, secondo l’affermazione del Pianciani, un prete ignorante e dominato dai gesuiti. (Vedi Pianciani, op. cit., tom. II, chap. XXII, pag. 411).
  24. Pallade, del 1° maggio 1848, n. 232.
  25. H. Reuchlin, op. cit., vol. II, cap. XVIII, pag. 191.
  26. G. La Farina, op. cit., lib. III, cap. XXIII.
  27. Il Minghetti riferisce nelle sue Memorie ( vol. I, cap. V, pag. 280) una lettera scrittagli dal Galletti, nella quale questi dichiara che non farà parte del nuovo Ministero e nota che fu il solo degli antichi ministri che entrò nel nuovo Ministero; ma dimentica che anche il Farini, sostituto del Ministero dell’interno nel Gabinetto Antonelli-Recchi, consentì di restare nello stesso ufficio col nuovo Ministero Mamiani, mosso, certamente, da quelle stesse patriottiche considerazioni da cui fu mosso il Galletti, a cedere alle insistenti preghiere del conte Mamiani.
  28. Nella copertina 151, contenuta nella busta 25 della Miscellanea politica, già tante volte citata, esistono trentasei lettere indirizzate al conte Mamiani per felicitazioni, in occasione della sua assunzione al potere. Fra queste lettere ve ne sono scritte dai cardinali legati Amat (Bologna), Ciacchi (Ferrara), Marini (Forlì), dal pro-legato conte Lovatelli (Ravenna), dal pro-legato conte Eduardo Fabbri (Urbino e Pesaro), e dai delegati monsignor Ricci (Ancona), monsignor Consolini (Perugia), monsignor Milesi (Macerata), monsignor Sialti (Ascoli), monsignor Giraud (Fermo), monsignor Gramiccia (Benevento), monsignor Pellegrini (Velletri), monsignor Lo Schiavo (Camerino), monsignor Gonella (Viterbo), monsignor Torraca (Orvieto), monsignor Bucifanti (Civitavecchia), cav. Bonfigli (Rieti). Poi vi sono quelle dei gonfalonieri di Pesaro, Ancona, Fabriano, e delle magistrature municipali di Faenza, Foligno, Comacchio, Monte Milone; dei governatori di Todi, Palombara, Genazzano, San Vito, Vergato, ecc. ecc. L’onorando conte Eduardo Fabbri, compagno di lotta e di esilio del Mamiani pei moti del 1831, gli scriveva una lettera entusiastica che cominciava cosi: Non poteva il Principe sapientissimo meglio collocare la sua fiducia, che chiamando, nelle presenti gravissime congiunture. all’ufficio di ministro dell’interno l’Eccellenza Vostra, la quale risplende di vivissima luce per intemerati principii di libertà vera, per altezza stragrande di merito e per senno straordinario delle materie sociali: di che sono ampia prova le profonde sue meditazioni: sicché tutti l’ammirano come onore non solo dello Stato nostro, ma d’Italia (Lettera in data 8 maggio, n. 4151).
          Piene di entusiasmo e di ammirazione pel filosofo pesarese erano anche le lettere del cardinale Pietro Marini, legato di Forlì, di monsignor Achille Maria Ricci, delegato di Ancona, del gonfaloniere di Ancona conte Filippo Camerata, del gonfaloniere di Comacchio Giuseppe Farinelli, e delle magistrature municipali di Foligno e di Faenza. Da tutte quelle lettere, come dagli articoli dei principali giornali di Roma, dello Stato, d’Italia, appare chiaro che la fiducia inspirata, in quel momento, dal Mamiani nelle popolazioni, era tanto meritata quanto grande e profonda.
  29. Contemporaneo del 29 aprile 1848, anno II, n. 51.
  30. V. D’Arlincourt, op. cit., cap. IV, pagf. 56. Il lettore già comprende che per l’ignobile visconte calunniatore tutto ciò che in Italia non fosse prettamente legittimista e clericale... era rosso. E perciò nel libello da lui intitolato L’Italie rouge... tanto appare rosso il Balbo quanto il Mazzini.
  31. G. Montanelli, op. cit, vol. II, cap. XXXIX, pag. 243; Anatole de la Forge, op. cit, tom. II, pag. 297 et suiv.
  32. Garnier-Pagès, op. cit., tom. 1, cap. IX, § 7, pag. 274-275.
  33. C. Cattaneo, Considerazioni al II volume dell’Archivio triennale, nel volume citato, pag. 373 e seg.
  34. L. Settembrini, Ricordanze della mia vita, Napoli, cav. Antonio Morano editore, 1879, cap. XVIII.
  35. E. Castelan, Ricordi d'Italia, traduzione di P. Fanfani, Firenze, tipografia della Gazzetta d’Italia, 1873, § VIII, pag. 73.
  36. F. Bonola, I patrioti italiani, Storie e biografie, Milano, Giocondo Messaggi, tip. editore, 1870, vol. III, cap. VL
  37. R. Bonghi, op. cit., cap. VIII, pag. 238.
  38. Bianchi-Giovini, Pio IX e Carlo Alberto, già citato, pag. 17.
  39. G. Mestica, Sulla vita e le opere di Terenzio Mamiani, Città di Castello, S. Lapi tip. editore, 1885, pag. 17.
  40. J. Webb-Probyn, op. cit, cap. VII, pag. 148.
  41. Henri Martin, Daniel Manin, Paris, Furne et C, éditeurs, 1859, liv. II, pag. 103.
  42. E. Ruth, op. cit., vol. II, cap. VI, pag. 352.
  43. L. Mickiewicz, op. cit., cap. I, § 1. — Biasima, implicitamente, con tutta la reverenza ossequiosa e quasi servile che egli professa apertamente per Pio IX, l’Allocuzione del 29 aprile anche l’abate Antonio Rosmini, il quale, se trova alta e nobile, sotto l’aspetto relig-ioso, l’Allocuzione, la trova pericolosa dal lato politico e crede che il Papa, non ostante l’Allocuzione detta come Pontefice, come Principe italiano debba fare la guerra contro l’Austria. (Vedi due lettere dal Rosmini, scritte di quei firiorni all’abate Gilardi e al cardinale Castracane, da Stresa, nel libro di William Lockhart, Vie d’Antonio Rosmini Serbati, traduction de l’anglais, Paris, Perrin et C, 1889, cap. XXXVI.
  44. G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, Milano, G. Daelli, editore, 1863, nello scritto Dal Papa al Concilio, contenuto nel vol. VII, pag. 269 e seguenti. Confronta i consimili giudizi emessi dal Mazzini su Pio IX, sui tentennamenti della sua politica e sulla Allocuzione del 29 aprile nello scritto Cenni e documenti intorno alla insurrezione lombarda, vol. VI, pagg. 342, 343, 380 e nelle Note autobiografiche, contenute nel vol. VII, pagg. 156 e 160 e passim. — Biasimano tutti, dal più al meno, ma la maggior parte severamente, l’Allocuzione papale del 29 aprile, oltre gli autori sopra notati, anche i seguenti: About, Anelli, Balbo, Beghelli, Belviglieri, Bersezio, Bertolini, Brofferio, Bosio, Cappelletti, Casati, Colombo, DAzeglio, Dall’Ongaro, De Boni, Del Vecchio, Deschamps, Dicey, Farini, Flathe, Gabussi, Caiani, Gaspari, Gravazzi, Gioberti, Guerrazzi, Guerzoni, La Farina, Lamartine, Lang, Leopardi, Mariani, Massari, Miraglia, Nisco, Oriani, Orsini, Pallavicino, Pandullo, Perfetti, Pepe, Perrens, Petruccelli, Pianciani, Pinto, Ranalli, Reuchlin, Rey, Riccardi, Ricciardi, Rusconi, Saffi, Silvagni, Torelli, Torre, Torrearsa, Tivaroni, Vecchi, Ventura, Von Sybeì, White Mario, Zeller, Zobi.
  45. G. Mestica, op. cit., pag. 21 e 22; D. Gaspari, Vita di Terenzio Mamiani della Rovere, Ancona, A. G. Morelli editore, 1888, cap. XI, pag. 94
  46. D. Gaspari, op. cit. ivi, pag. 97; G. Spada, op. cit, vol. II, cap. XII, pag. 342-43.
  47. B. Grandoni, op. cit., pag. 195
  48. Lo stesso, ivi.
  49. L. C. Farini, op. cit., lib. III, cap. VI.
  50. L. C. Farini, op. cit., ivi.
  51. B. Grandoni, op. cit., ivi.
  52. Documenti nn. 119, 120 e 123.
  53. Gazzetta di Roma dell’8 maggio, n. 80, nella sua parte officiale.
  54. Documenti n. 116.
  55. Documenti nn. 114 e 115.
  56. Rapporto straordinario Sacripante, documento n. 114.
  57. Ho sott’occhio le lettere, pubblicate a stampa, dal Carenzi, dal Petrocchi, dal Fiorentino e dal Tucci, e l’articolo del Times, riprodotto dal Galignani’s Messenger, e pubblicato sopra un foglietto volante col testo inglese in una colonna e la traduzione italiana nell’altra l’11 maggio 1848, senza annotazione di stamperia.
  58. F. Ranalli, op. cit., vol. II, lib. X, pag. 118; Belviglieri, op. cit., vol. III, lib. XVI, pag. 136; N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia, ecc., vol. V, cap. III, § 5; N. Nisco, op. cit. vol. I, cap. V, pag. 193 e seg.
  59. Pallade dell’8 maggio, n. 238; Contemporaneo dell’11 maggio, anno II, n. 56.
  60. Gazzetta di Roma del 9 e 17 maggio, n. 81, 88; Pallade del 17 maggio, n. 243.
  61. B. Grandoni, op. cit, pag. 200 e 201. Cfr. G. Spada, op. cit., vol. II, cap. XII.
  62. Pallade del 18 maggio, n. 247.
  63. Oltre lo Sterbini, in questo articolo, riferiscono il detto attribuito al Lutzow anche il Ranalli, op. cit, vol. II, lib. X, pag. 178 e il Belviglieri, vol. III, lib. XVI, pag. 136.
  64. Contemporaneo del 16 maggio, anno II, n. 58.
  65. Angelo De Gubernatis, F. Dall’Ongaro e il suo epistolario scelto, Firenze, tipografia Editrice, 1875, § II, pag. 19.
  66. Angelo De Gubernatis, op. cit.
  67. L. C. Farini, op. cit., lib. III, cap. VIII.
  68. Gazzetta di Roma dell’8 maggio, n. 30; Contemporaneo del 9 maggio, anno II, n. 55; Labaro dell’8 maggio, n. 80; Epoca del 9 maggio, n. 46; Speranza del 10 maggio, n. 70.
  69. Pallade dell’8 maggio, n. 238.
  70. B. Grandoni, op. cit., pag. 198.
  71. G. Spada, op. cit., vol. II, cap. XII; Pallade dell’11 maggio, n. 241
  72. Pallade del 10 maggio, n. 240.
  73. Pallade del 5 maggio n. 236. Cf. con la Pallade del 3 maggio, n. 234.
  74. A. Colombo, op. cit., § II, pag. 66, ove sono riferite quelle due lettere.
  75. Ci vuole tutta la - come dovrò chiamarla? - la... disinvoltura faziosa dello Spada per venire ad affermare ai lettori suoi che l’alto Consiglio rappresentava tutti nomi cogniti, mentre, tranne i diciotto, ai quali singolarmente io accenno, gli altri ventotto erano, dal più al meno, o mediocrità o nullità le quali niente, all’infuori della ricchezza e del benevolo capriccio del Sovrano, rappresentavano. A chi infatti erano cogniti e per qual titolo o ragione potevano e dovevano essere cogniti lo Spada Medici, l’Angelelli, il Paoli, il Benti voglio, il Medici, il Laureani, il Paccaroni, il Baldesehi, il conte Andrea Gabrielli, il Bertolini, l’Orsini, il Chigi, il Barberini, lo Strozzi, Il Paolucci deXalboli e l’Altieri? Cfr. con G. Spada, op. cit, vol. II, cap. XII, in fine.
  76. Verbali della elezione di Osimo nella busta n. 8, fra le carte del Ministero dell’interno del Governo pontificio, esistenti nell’archivio di Stato di Roma, raccolte nelle buste dell’anno 1848 dalla busta 6ª alla busta 11ª.
  77. Questa locuzione è erronea; perchè le elezioni avvennero tutte meno le quattro cui appresso accennerò - il 19 e 20 maggio, e quindi lo Spada avrebbe dovuto scrivere non già man mano che avevano luogo, ma bensì, man mano che ne giungeva notizia; essendo chiaro che le notizie non potevano giungere tutte nello stesso giorno, ma dovevano, di necessità, giungere le une dopo le altre, a intervallo di varii giorni, secondo la maggiore o minore distanza che separava la capitale dai diversi capo-luoghi di collegio.
  78. G. Spada, op. cit., vol. XII, cap. XII, pag. 332.
  79. Nell’archivio di Stato di Roma, mercè le cure indefesse, amorose e sapienti del sovraintendente avv. comm. Enrico De Paoli fatto emporio prezioso di documenti medioevali e moderni, trovansi raccolti, per ordine alfabetico dei nomi dei rappresentanti eletti, i verbali di tutte le elezioni, tanto generali che suppletive, al Consiglio dei deputati dal 18, 19 e 20 maggio fino al 26 dicembre 1848 - giorno in cui il Consiglio stesso fu sciolto - in sei buste che vanno dal n. 6 al n. 11 dell’anno 1848, e che portano ancora sul dorso lo stemma pontificio, come quelle che provengono dall’archivio del Ministero dell’interno del Governo papale.
          L’egregio e chiaro comm. De Paoli, uomo degnissimo di stima e di affetto, tanto per le belle doti dell’ingegno e per la vasta dottrina, quanto per la squisita cortesia e rettitudine dell’animo, mi fu largo di ogni maniera di aiuti nelle lunghe e faticose ricerche da me fatte nell’archivio stesso, onde sento il bisogno di rinnovargliene qui, pubblicamente, le più vive e sincere azioni di grazia.
  80. Vedi il prospetto, da me compilato sulla scorta di quei verbali, fra i documenti che allego, al n. 125. In esso ho raccolto tutti i dati che i verbali mi fornivano sul numero degli inscritti e dei votanti in ciascun collegio. Pur troppo, per la inesperienza dei membri degli uffici di presidenza e per la conseguente inesattezza e imperfezione dei verbali, il numero degli elettori inscritti non l’ho potuto constatare che per soli quaranta collegi.
  81. In questo collegio, che fu, forse, quello in cui accorressero in maggior numero gli elettori alle urne - e dico forse perchè, mancando nei verbali l’annotazione del numero degli inscritti, non si può fare il calcolo di rapporto fra gl’inscritti e i votanti - avvenne, per la elezione del deputato, una vivissima lotta elettorale. Al primo scrutinio si presentarono a votare 355 elettori. Il principe Cosimo Conti conseguì 161 suffragi, ne raccolse sul suo nome 123 l’avv. Carlo Armellini, 61 ne ottenne l’avv. Giuseppe Soldini, 10 nulli o dispersi. Proclamato il ballottaggio fra il principe Conti e l’avvocato Armellini, il successivo giorno 20 maggio concorsero alle urne 420 eletttorì, dei quali 252 votarono per l’Armellini e 166 pel Conti, due diedero scheda che fu annullata, onde fu eletto l’Armellini (Vedi la busta n. 7).
  82. Dal verbale del collegio di Bazzane, contenuto nella busta n. 11, risulta che i votanti il 19 maggio furono 36, dei quali 26 votarono per l’avvocato Antonio Zanolini, 6 per l’avv. Giuseppe Sollimei, mentre 4 voti andarono dispersi; e risulta che, senz’altra votazione, fu proclamato eletto lo ZanolinL Ho notato che tale proclamazione fu irregolare, non ostante che fosse convalidata dal Consiglio dei deputati, perchè dal verbale della successi va elezione suppletiva (busta n. 7), avvenuta il 13 luglio, dopo le dimissioni offerte dallo Zanolini, e nella quale, in vece sua, fu eletto il marchese Carlo Bevilacqua, risulta che gli elettori inscritti nel collegio di Bazzano erano 417, per cui sarebbe stato necessario, perchè lo Zanolini potesse essere dichiarato regolarmente eletto a primo scrutinio, che sul nome suo si fossero raccolti non soli 26, ma 139 suffragi, cioè un terzo degli inscritti.
  83. In questo collegio, per mancanza di numero legale, a causa del pessimo tempo, non potè procedersi alla elezione del deputato nel comizio del 19 maggio. Il giorno 14 giugno, il collegio di Castelmaggiore fu riconvocato, e il giorno medesimo gli elettori, trovatisi in numero maggiore del fissato dal regolamento del 1° aprile, costituirono l’ufficio di presidenza, e nel successivo giorno 15, presenti e votanti 88 elettori, si procedette alla elezione del deputato. Al primo scrutinio i voti si divisero così: avvocato Giuseppe Galletti voti 31, avv. Michelangelo Accursi voti 23, conte Giovanni Massei voti 17, marchese Luigi Pizzardi voti 13, voti 4 dispersi e nulli. Venutisi immediatamente al ballottaggio fra il Galletti e l’Accursi, il primo riportò 61 voti e il secondo 27 e così il Galletti, Ministro di polizia, ebbe un posto nell’Assemblea legislativa, dalla quale gli aveva chiuso l’accesso, il giorno 19 maggio, la setta moderata, imperante allora e onnipotente in Bologna e nella sua provincia.
  84. Questo fu uno dei collegi in cui la lotta fu più aspra, e il dottor Carlo Berti-Pichat ne uscì eletto con un solo voto di maggioranza. Sopra 456 inscritti presero parte alla prima votazione, il 19 maggio, 179 elettori. Carlo Berti-Pichat ebbe voti 96, l'avv. Achille Gennarelli voti 73; gli altri andarono dispersi. Fu fissato il ballottaggio per l’indomani 20 maggio. I votanti salirono a 233; il Berti-Pichat ottenne voti 113, il Gennarelli 112, 8 andarono dispersi o furono dichiarati nulli. Vi furono parecchie proteste inserite nel verbale. L’Assemblea dei deputati convalidò, nondimeno, la elezione del dottor Berti-Pichat (Vedi la busta n. 7, fra le indicate esistenti nell' archivio di Stato).
  85. Vivissima fu al primo scrutinio la lotta in questo collegio. Sopra 628 inscritti parteciparono al voto 298 elettori, cioè poco meno della metà. L’aw. Francesco Sturbinetti attrasse sul suo nome 135 voti, l'avv. professore Pasquale De Rossi 108, l'avv. Agostino Zaccaleoni 55, nullo 1. Si indisse il ballottaggio per il domani 20, e vi presero parte 352 elettori; dei quali 829 votarono pel De Rossi e 21 per lo Sturbinetti, 2 schede furono dichiarate nulle e il De Rossi fu proclamato deputato (Vedi la busta n. 11).
  86. Questo fu uno dei collegi nei quali affluirono in maggior numero gli elettori. Non risulta quanti fossero gl’inscritti, certo non più di 588. I votanti furono 252. Il conte Lauro Lauri riportò 196 voti, il dottor Diomede Pantaleoni 42; gli altri andarono dispersi, e il conte Lauri fu proclamato eletto a primo scrutinio (Vedi la busta n. 9).
  87. In questo collegio la lotta fu vivissima. Non si ha il numero degli elettori inscritti. I votanti il 19 maggio furono 185. Ricca avv. Francesco ottenne, al primo scrutinio, voti 90, Bonaparte di Canino principe Carlo 66, Venturini conte Filippo 28, nullo uno. Fu indetto il ballottaggio subito, non ostante le vivaci e numerose proteste a voce e in iscritto di una parte degli elettori - quelli che parteggiavano pel principe di Canino - i quali lo volevano rimandato al domani. L’esito della seconda votazione fu questo: presenti e votanti 185; il Ricca ebbe 99 voti, il Bonaparte 86; proclamato eletto il Ricca. Non ostante le proteste l’Assemblea dei deputati approvò la elezione (Vedi la busta n. 11).
  88. In questo collegio il 19 maggio si presentarono a votare 178 elettori, dei quali 134 diedero il voto al marchese Lodovico Gualterio e 39 all’avvocato Pietrantonio Valentini; gli altri 5 andarono dispersi. Indetto subito il ballottaggio, su 176 votanti il marchese Gualterio raccolse 148 suffragi e l’avv. Valentini 28, onde il marchese Gualterio fu proclamato eletto. Ma egli rinunciò subito e monsignor delegato indisse la riunione del nuovo comizio pel 30 maggio. E, al primo scrutinio, su 181 votanti, l’avv. Pietrantonio Valentini riportò 87 voti, mentre 85 si raccolsero sul nome del conte Giuseppe Bracci e gli altri 9 andarono dispersi. Procedutosi subito al ballottaggio il Bracci ebbe a suo favore 96 suffragi su 178 votanti e il Valentini 82, per il che fu dichiarato eletto il Bracci (Vedi la busta n. 7).
  89. Anche nel collegio di Ripatransone la battaglia fu fiera. Gli elettori inscritti erano 556. I votanti al primo scrutinio il giorno 19 maggio furono 110. 11 car. Giuseppe Neroni, di San Benedetto del Tronto ebbe voti 65, il conte Filippo Palmaroli di Grottammare 42, andarono dispersi 3 voti. Alla votazione di ballottaggio, indetta per l’indomani 20, intervennero 107 elettori. Il cav. Neroni conseguì 98 voti, il conte Palmaroli 96, 3 schede furono annullate, e fu proclamato eletto il cav. Neroni. Numerose e vive proteste. L’Assemblea dei deputati, pur nondimeno, approvò reiezione (Vedi la busta n. 10).
  90. In questo collegio ci fu lotta vivissima. Al primo scrutinio il giorno 19 maggio si presentarono a votare 189 elettori. Il principe Marcantonio Borghese ebbe voti 125, il marchese Alessandro Muti Papazzurri Savorelli 57: gli altri andarono dispersi. Fu indetto il ballottaggio per l’indomani 20: ma i sostenitori del marchese Savorelli infuriarono, protestando non esservi il tempo necessario perché da alcuni comuni del collegio potessero intervenire gli elettori al secondo scrutinio: ci furono anche minaccio: si inserirono varie proteste nel processo verbale: all’indomani intervennero 164 elettori - i partigiani del Savorelli erano ripartiti pei loro comuni - il Borghese ebbe 149 voti, il Savorelli 15, e fu proclamato eletto il primo, di cui hi Camera convalidò relezione (Vedi la busta n. 7).
  91. In questo collegio era stato eletto il 19 maggio il prof. Giovan Battista Fabbri, eletto contemporaneamente anche a Camerino. Ma di tale prima elezione non esistono i verbali. Dai verbali della seconda elezione, indetta dalla delegazione di Macerata pei giorni 29 e 30 maggio, si rileva il fatto della rinuncia emessa dal Fabbri. A sostituirlo fu eletto il conte Francesco Fiorenzi il 30 maggio, con voti 88 in ballottaggio col conte Alessandro Medici Lavini Spada che ne ebbe 7 soli, perchè i suoi partigiani, che erano dei comuni di Troia e di Appìgnano, si ritrassero, protestando contro la soverchia ristrettezza di tempo fra uno scrutinio e l’altro. L’Assemblea dei deputati convalidò relezione del Fiorenzi (Vedi la busta n. 8).
  92. Anche in questo collegio avvenne ciò che era avvenuto nel precedente: il 19 maggio si presentarono all’urna 100 elettori su 287 inscritti e diedero 159 voti - uno fu dichiarato nullo - al conte Enrico Amici Pasquini, il quale rinunciò subito; onde il collegio fu riconvocato pei giorni 29 e 30 maggio; e raccoltisi 137 elettori votarono unanimi pel conte Giovanni Marchetti degli Angelini che fu proclamato eletto. La sua elezione fu approvata dal Consiglio dei deputati. Esistono i verbali di ambedue le elezioni (Vedi la busta n. 9).
  93. In questo collegio pure seguì lo stesso fatto che nel due precedenti. Il giorno 19 maggio fu elettto - si ignora con quanti votanti e con quanti voti, perchè mancano i verbali di questa prima elezione - il marchese Giuseppe Bisleti, il quale rinunciò subito; onde il collegio fu riconvocato il giorno 27 maggio, in cui si addivenne all’elezione dell’ufficio di presidenza. Il giorno 28 si raccolsero 120 elettori - più del terzo degli inscritti, che si ignora quanti precisamente fossero - Il dottor Francesco Melloni ebbe 110 voti, 5 ne riportò l’avv. Giuseppe Piacentini; gli altri andarono dispersi. Il dottor Melloni fu proclamato eletto a primo scrutinio, e 11 Consiglio dei deputati ne convalidò l’elezione (Vedi la busta n. 9).
  94. In questa mia affermazione ho frapposto l’avverbio forse, perchè sarebbe difficile garantire che nessuno di quei quindici uomini nell’intimo della sua coscienza non avesse sentimenti repubblicani: e sarebbe più difficile garantire ciò pei meno noti fra quegli uomini, dei quali, appunto perchè meno noti, riescirebbe più arduo afferrare e constatare le manifestazioni di pensiero. Ma dei più noti, quali lo Sterbini, l’Armellini, il Campello, il Torre, il Manzoni, il Rusconi ed il Mariani, si può, dagli ulteriori atti loro e dalle loro parole dal 5 giugno fino alla convocazione della Costituente, non solo arguire legittimamente, ma dedurre logicamente che non pensavano punto alla repubblica, da tutti accettata, poi, come una necessità che s’imponeva. Forse il principe di Canino era il solo della sinistra che, dopo l’allocuzione del 29 aprile, pensasse e tendesse alla repubblica; ma anche qui inserisco l’avverbio dubitativo forse, perchè la mia affermazione su questo proposito è più intuitiva che dimostrabile.
          Che poi allora, nessuno degli uomini più autorevoli in Roma, nè il Mamiani, nè il Galletti, nè l’Armellini, nè lo Sturbinetti, nè lo Sterbini, nè Ciceruacchio pensasse alla repubblica, non ostante che gli appassionati storici di parte papalina continuamente e gratuitamente affermino che esisteva una cospirazione rivoluzionaria, in cui ciascuno di quegli uomini rappresentava una parte concordata con gli altri, sarebbe agevolissimo dimostrare, esaminando - come, del resto, farò in seguito - gli atti posteriori di ciascuno di quegli uomini. Ma, come prove generiche, e - a mio giudizio - assai importanti, ne addurrò qui due, che confido saran trovate veramente tali anche dai miei lettori.
          La Pallade, cioè, il più rivoluzionario e il più audace fra i giornali che allora si pubblicassero in Roma, nel suo n. 235 del 4 maggio - cioè noi giorni in cui essa era più invelenita, contro i Cardinali e i preti, a causa della Allocuzione pronunciata dal Papa e la quale teneva ancora in fermento tutta la cittadinanza - dopo aver riprodotto dal giornale La Riforma, sotto la data di Milano 26 aprile, la notizia che: «il Mazzini pubblicherà qui fra breve un nuovo giornale che avrà per titolo: Associazione Nazionale Italiana», la fece seguire da questo severo commento, anzi da questo fiero monito, pubblicato nel più grosso carattere stampatello che il giornale avesse disponibile nella propria tipografia: « È desiderabile che il signor Mazzini nel suo nuovo gioviale voglia mettere in cima di tutti i pensieri quello della nostra indipendenza la quale solo può derivare dal felice esito della presente guerra, senza entrare in discussioni e progetti di forme governative, per imbrogliare e disviare le menti dallo scopo principale. Allorchè potremo dire l’Italia è libera dallo straniero - al signor Mazzini si darà facoltà di accampare i suoi piani di governo. Per ora abbia la bontà di aspettare, come aspettiamo tutti, e in luogo della penna prenda la spada: ora il primo servigio che esige la patria si è la guerra dell’indipendenza: con le ciarle non si fa guerra». E il giornale dello Sterbini, il Contemporaneo, nel suo n. 51 dell’anno II, in data 15 aprile, in un articolo intitolato «Comitati di guerra» così scriveva: «Non esitiamo a dirlo: è nemico del suo paese, e traditore della patria colui che in questi momenti solenni devia dagli animi dei suoi fratelli dal santo pensiero della guerra per occuparli delle future forme di reggimento, per crescere quel partito che deve far trionfare la sua idea dominante, facendo nascere in tal guisa diffidenze e sospetti, e rallentando l’ardore di chi dalla vittoria non spera altro che la conquista della pace e della unità italiana.
          «I Comitati non abbiano riguardo alcuno: scuoprano essi i tradimenti alla grande causa italiana da qualunque parte vengano, sotto qualunque manto si nascondano! e tradimento noi chiamiamo a ragione i tentativi di crearsi un partito nella rovina di chi pensa in altro modo, e di riaccendere le antiche gare municipali, e le basse invidie, e gli adii, e le calunnie, usando tutte quelle arti di cui si servono gli uomini, i quali a dispetto dei tempi e dell’opinione generale vogliono che ad ogni costo trionfi il loro progetto».