Filli di Sciro – Discorsi e appendice/Filli di Sciro/Atto quarto

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Atto quarto

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Filli di Sciro - Atto terzo Filli di Sciro - Atto quinto
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ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Serpilla, Clori.

          
Serp.Non posso più: deh qui ti posa omai,
          e dل qualche respiro,
          se non al core, al piede almen.
          Clori.Posiamci
          ove a te pare: ad ogni modo in vano
          quinci e quindi m’aggiro.
          Non c’è monte né colle,
          aura non c’è ned ombra
          che ? mio dolor consoli.
          Non c’è luogo al mio scampo, ed ogni luogo
          a tormentar m’è buono.
          Ecco appunto ove nacque il mio dolore:
          là rividi il crudel, qui ? riconobbi;
          qui fui lieta, e repente
          ad un colpo di voce
          qui, in questo luogo appunto,
          qui ricaddi infelice; e fu si ratto,
          ahi lassa, il precipizio,
          ch’omai per me la morte
          esser non puٍ che neghittosa e tarda.
          Serp.D’amor e di fortuna
          miseri avvenimenti
          da me più non uditi
          tu m’hai narrati, o figlia.
          G. Bonarelli, Filli di Sciro.

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          82
          FILLI DI SCIRO
          Non è perٍ ? tuo stato or, quai tel fingi,
          senza speme e conforto,
          che, se ben dritto miri,
          Niso, costui che Tirsi
          or mi di’ che si noma,
          egli è pur tuo, né fia possanza umana
          che tei ritoglia. Indissolubil nodo
          strinse fra voi la fede;
          e ben si puٍ talor porre ’n oblio
          l’amor, ma non la fede:
          la fé, cui Giove ha scritta
          con la sua man folgoreggiante in cielo.
          Clori.Ma, lassa, a me che pro?
          Senza G amor la fede
          è fune de la mano,
          non è laccio del core. In questa guisa
          troppo è duro il suo nodo:
          per me sciolgasi pure. Ah lungi, lungi
          da me la man che non mi porge il core!
          No, no: vedi, Serpilla,
          poich’io non ho ? suo amor, la fé non cheggio.
          Serp.Anzi tempo disperi.
          Tirsi morta ti crede, ond’a ragione
          nel giovanetto sen poté raccorre
          altra fiamma d’amore, e senza ingiuria
          de la beltà, ch’estinta
          fors’ha creduta, e pianta.
          Ma quando ei vedrà pur che tu se’ viva,
          ravviverassi il suo primiero ardore.
          Clori.Ardor, cui spegner puote un lieve soffio
          d’imaginata morte, oimè, Serpilla,
          è ben languido ardore, ardor, di cui
          poco o nulla mi caglia
          s’è’ si ravvivi o mora.
          Anch’io credei lui morto, e pure, schiva
          d’ogni altro amore, amai

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          quell’estinta beltade,
          quell’ossa incenerite,
          e sotto ? cener loro
          serbai vivo il mio foco.
          Ben tu ? sai, che sovente
          vedesti, e te ne ’ncrebbe,
          il mio talento in ombra.
          Non puٍ dunque, non puote
          la mia creduta morte
          farmi parer men grave
          o la sua colpa o la mia pena. Ahi lassa,
          egli è ’nfedele, egli è ’nfedele, ed io
          sono infelice! Omai
          non ha scusa il suo error, non ha riparo
          il mio tormento. Ahi, dunque
          che debb’io far, che mi consiglia (amore
          non dirٍ, no, ch’amore
          contra l’infedeltà perde ? consiglio)
          che mi consiglia il mio furore? il mio
          disperato furore?
          Serp.Figlia, vien meco, o lascia
          ch’i’ vada a trovar Tirsi.
          Vo’ ch’ei ti riconosca,
          vo’ vedergliti a fronte.
          Udrem ciٍ ch’ei ne dica;
          prenderem poi consiglio.
          Clori.Ch’ei mi riveggia? Ahi non ho tant’ardire!
          Sento che mal sicuro
          avanti agli occhi suoi sarà ? mio sdegno,
          il mio sdegno, che pur a mia salute
          convien ch’io serbi intero.
          Ah non più, non più mai!
          Serp.Sí, vo’ ben io
          ch’ei ti riveggia (e tu negar noi dèi),
          se non per tuo conforto,
          almen per suo tormento.

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          Or vo. Ma Tirsi a casa
          d’Aminta alberga; quinci
          è più breve il sentiero.
          Tu fa’ ch’a le tue case io ti ritrovi,
          o quivi sappia almen ove sie gita.
          Clori.Sí, sí, va’ pur felice.
          Serp.(Deh s’io potessi trar ad un sol colpo
          Celia e Clori d’impaccio!)
          Clori.Saprai u’ sarٍ gita;
          ma ben saprai ch’i’ sarٍ gita a morte.
          Sento ben io dov’il dolor mi mena.
          Tirsi più non vedrammi.
          Per me non e’ è conforto,
          per te non vo’ tormento:
          che, qual tu pur ti sie perfido e crudo,
          è forza, oimè, ch’io t’ami.
          Io t’amo, e se per altro
          non t’è caro ? mio amor, caro tí fia,
          perché ? mio amor sarà la morte mia.
          O Tirsi, o Tirsi ingrato,
          Filli che per te nacque,
          Filli che per te visse,
          Filli per te si muore!
          SCENA II
          Niso.
          Odo ? nome di Filli?
          Deh par ch’ad ora ad ora
          fieramente da l’aria
          mi rimbombi nel cor! Ma donde viene
          questa mentita voce,
          ch’a le sue fiamme antiche
          le ceneri del core

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          altamente richiama?
          Se’ tu forse, o di Filli
          ombra serena e bella,
          se* tu, che quinci intorno
          senza riposo errante
          al cor mi ti ravvolgi?
          Lasso, da me che puoi voler? Tu sai
          che dopo la tua morte
          altro a me non rimase
          che lagrime e sospiri.
          Se ti giova ch’io pianga,
          potrai ben, finch’io viva,
          rinovar a tua voglia
          de le lagrime mie, de’ miei sospiri
          ricca pompa funèbre. Or prendi queste
          calde lagrime amare,
          questi sospiri ardenti :
          ad Amor li consacro, a te gli spargo.
          Rimanti, ahi lasso! in pace.
          SCENA III
          Aminta, Niso.
          Amin.(Egli è pur solo.) E con cui parli, o Niso?
          Niso.Parlo con l’ombre, Aminta. Ahi non so come
          la dolente memoria
          di quel mio primo ed infelice ardore
          or nel mio nuovo incendio,
          quando pur men dovrebbe,
          or più che mai si rinovella; e mentre
          questo e quello ad un tempo
          ciascun vuoi che per sé pianga e sospiri,
          s’ingorgano le lagrime,
          confondons! i sospiri, e ? cor vien meno.

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          Amin.Omai cotesto core
          fra tanti ardor, fra tanti incendi sembra
          il focolar d’Amore. Oh miserello!
          Ove Celia balena, una favilla
          non basta dunque a folgorar un core,
          senza ch’Amor poi tenti
          trar da spenta beltà cieche fiammelle?
          non è morta colei (se ben rimembro)
          ch’or il tuo duol ravviva?
          Niso.Mori ch’era fanciulla: in oriente
          andٍ a l’occaso il mio bel sol nascente.
          Ella mori fanciulla:
          e se poscia talor altra beltade,
          e forse anco ver me (qual tu mi vedi)
          non ritrosa beltà m’offerse Amore,
          tosto, per non vederla, in altra parte
          gli occhi rivolsi o li coprii col pianto.
          Sol di Celia poteo
          la nemica beltade
          quel che d’altrui non fece
          l’amorosa beltà: né so già come
          schermo o fuga non v’ebbi.
          Cosi di nuova fiamma,
          senza punto allentarsi il primo ardore,
          il cor mi si raccese,
          onde Fillide i’ piango,
          Celia sospiro: quella
          ho già perduta, questa
          non avrٍ mai: e fieno (or ben mei veggio)
          vani i sospiri e ? pianto.
          Amin.Omai soverchio,
          mentre ti lagni, il tuo dolor s’inaspra.
          Parliam d’altro. Il capraio,
          col qual perciٍ rimasi
          nel bosco favellando,
          di Clori o di Nerea

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          ATTO QUARTO
          non mi sa dar novella.
          Niso.Ed in qual parte omai potrem seguirle?
          Amin.Senz’orma e senza traccia,
          che più seguirle a caso? G son già stanco.
          Meglio è che ’n questo luogo, ove si scopre
          da lungi ogni cammino,
          appiè di que’ be’ faggi
          riposando, veggiam se quinci intorno
          appariranno, mentre
          l’aura con fresca mano a l’arsa fronte
          il sudor ne rasciuga.
          Niso.Andiam. Ma che vegg’ io?
          là entro in riva al bosco,
          fra quegli sterpi e ? tronco?
          Amin.Ninfa sembra a le vesti.
          Oh ella è Celia: mira
          quella gonna d’azzurro,
          que’ coturni d’argento,
          quell’arco d’oro. È Celia,
          che giace a l’ombra; è dessa.
          Niso.Deh Celia a l’ombra giace!
          Vegna chi veder vuole ،
          giacer a l’ombra il sole. [
          Amin.Di’ pian, che dorme. 1
          Niso.E dorme?
          Oh se per me pietoso
          (non dico uomini o dèi)
          oh se per me pietoso
          un sogno, un’ombra almeno,
          or che dorme secura e non sen guarda,
          gisse colà davanti
          a quell’anima cruda, effigiando
          - l’addolorato Niso
          con isquallide labbia,
          in atto di morir chiederle aita!
          Chi sa? Ben per me provo

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          fra l’ombre anco de’ sogni
          destarsi amor dormendo.
          Misero, a che son giunto or, quand’io credo
          le mie speranze a’ sogni ?
          Ma che? potrٍ pur una volta almeno
          rimirar non fugace il suo bel volto.
          Amin.(Ed io, lasso, ad ogni ora
          odo le altrui, e debbo
          tacer le proprie pene!
          Ma taccio, perch’i’moro. A l’ultim’ore
          non grida, no, chi muore).
          Niso.Per ogni lato i’ miro,
          e non iscorgo il viso. Or vedi, Aminta,
          quel fronduto cespuglio?
          Par ben ch’amante anch’egli ingordo stenda
          . le ramora spinose
          \ ad involar quelle vermiglie rose.
          O rivale importuno,
          non fia che la tua branca,
          benché di spine armata,
          il mio ben mi contenda.
          Amin.Va’ pian, che non la desti.
          Niso.Oimè, vicino al mio bramato foco
          or tutto agghiaccio e tremo. Oh meraviglia!
          cosi vien che si tema
          la beltà che s’adora? G non ardisco;
          invisibili strali
          par ch’indi Amor saetti.
          Ma tu, che non paventi
          saettume d’Amor, tu vanne ardito,
          e ? suo bel viso mi discopri.
          Amin.Or vado.
          (Ma non a lieve impresa,
          com’ei si crede.)
          Niso.Aminta,
          Aminta, eh non t’accorgi

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          che ? pie tremando segna
          l’orme incerte e ritrose?
          Ferma, ferma, che ? volto impallidito
          ridice il tuo timore. E pur non ami :
          or dond’è’l tuo spavento?
          Amin.Certo io noi so. Ma forse
          qualche nume del cielo è qui disceso
          a custodir l’addormentate membra.
          Niso.Se maggior nume ha ? cielo
          che la stessa beltà di quel bel volto.
          SCENA IV
          Narete, Niso, Aminta.
          Nar.Ma ve’, Silvan, che ? capro
          non ti fugga di man, se tu pur vuoi
          dar la vita a Filin con le tue mani.
          Amin.Egli è Narete.
          Nar.E di’ lui che volando
          riporti a Celia omai de l’amor suo
          la felice novella.
          Niso.Ahi, che novella?
          che amor? che Celia? Or tu non odi, Aminta?
          Amin.Taci, taci. — Ti salvi il ciel, Narete.
          Ma che liete novelle
          hai per Celia d’amor?
          Nar.Che l’amor suo,
          il suo bel capro è vivo.
          Amin.Ah, ah!
          Niso (Respiro!)
          Amin.Quel capro che Filin già d’ogn’intorno
          con si vezzose lagrime piangendo?
          Nar.Morto ? credea ? fanciullo; e saria morto,
          se tratto a le sue strida

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          non v’accorrea Narete;
          perch’egli avea pasciuto
          d’un’erba velenosa,
          che con mortale inganno
          prima addormenta e poscia
          gli addormentati ancide,
          s’avanti che ? velen giunga nel core
          non vengono bagnati,
          si che, ne lo spruzzar percosso il volto,
          da l’abisso del sonno
          la vita si richiami.
          Ond’io, cui nota è l’erba,
          a l’acqua corsi, ed inaffiando il capro,
          bello e vivo nel trassi.
          Ma voi colà, figliuoli,
          ch’andavate guatando?
          qualche fiera al covile?
          Niso.O Narete, una fiera
          (dirol, né fia ch’io’l taccia
          a te, perché se’ veglio,
          che fra le nevi ancor di bianche chiome
          saprai aver pietate
          dei giovanili ardori),
          giace una fiera qui, del basilisco
          più fera e più mortai, poiché se quello
          sol mirando avvelena,
          questa mirando e non mirando ancide.
          Ed ora appunto, ah vedi
          ch’ella dorme ed io moro!
          Nar.La veggio, e riconosco
          la fiera e’1 suo velen: foss’io pur buono
          a dar aita, quanto
          ho di pietà! Figliuolo,
          son vecchio, ma rammento
          la propria giovanezza,
          e l’altrui non invidio.

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          Niso.S’altro non puoi, deh vanne;
          prova ancor tu se la tua man, quantunque
          per vecchiezza tremante,
          ha forza infra que’ pruni
          di scoprir il bel volto,
          che noi si dolce impresa
          abbiam tentata in vano,
          poich’indi i’ non so quale
          spira virtù segreta,
          ond’appressando il piede
          torpe la mano, e l’alma
          fin entro al cor s’agghiaccia.
          Nar.Oh di maga beltate opra d’incanto!
          La donnesca beltà, se noi sapete,
          è la maga del cielo, ond’egli ’n terra
          sue meraviglie, e le più grandi, adopra.
          E quell’ardor, quel gelo,
          quell’ardir, quella tema,
          onde, com’a lei piace, affrena o sferza
          il core ammaliato,
          tutti son pur effetti
          de l’alta sua magia,
          contra la qual non giova
          carme, pietra ned erba.
          Appena vai talora
          d’una rugosa pelle
          cotta al sol di molt’anni
          portar coperto il volto.
          Ond’ io, che ben armato
          men vo di voi più forte,
          trarrٍ fors’anco a fine
          la per voi male incominciata impresa.
          Amin.Va’ pur dunque.
          Nar.Attendete.
          Niso.Ascolta, ascolta.
          Guarda che non la svegli,

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          perché tu la vedresti
          come un lampo sparire; e dietro a lei
          si veloce il mio cor n’andrebbe, ch’io
          non le potrei pur dir:—Mio core, addio!
          Nar.Or voi vi state ascosi,
          che bench’ella si desti,
          quando pur voi non veggia,
          per me non fuggirassi.
          Amin.Odi, odi.
          Nar.Il ciel m’aiti.
          Amin.Pon cura che, movendo
          que’ vepri, non le punga un qualche spino
          la tenerella gota.
          Nar.Or tu mi sembri
          più di lei tenerello.
          Vatten, rimira e taci.
          Niso.Eccolo giunto.
          Or la discopre. Ah par che quella mano,
          mentre si muove intorno a quel bel volto,
          mi solletichi ? core.
          Nar.Oimè! pastori,
          o pastori, correte,
          correte, oimè, che Celia,
          se non è morta, muore!
          Amin.Ahi!
          Niso.Ahi, Celia muore?
          Nar.Non è già qui d’intorno ombra ch’adduggi.
          Niso.O Celia, o vita mia!
          Amin.Ma non ho tanto core,
          non ardisco mirarla.
          Niso.Deh non rispondi, o Celia?
          Nar.Sbranca, Niso, que’rami:
          fuor di questi cespugli
          vo’ trarla in qua su l’erba.
          Amin.Narete, di’, viv’ella?
          Nar.Né per cotale scossa
          veggio che si risenta. Or qui posiamla.

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          SCENA V
          Niso, Narete, Aminta, Celia.
          Niso.O Celia, anima mia!
          ? AR. Lascia che’ntorno al seno
          la gonna io le rallenti.
          Amin.Deh, viv’ella, Narete?
          Nar.Or vo’ toccarle il core.
          Ma che scorza è pur questa
          che, dentro ? petto ascosa,
          ha di sua man vergata?
          Amin.E non riviene ancora?
          Niso.Oh fra candide nevi
          discolorate rose, ecco ? sembiante l
          che prender dèe la morte, se talora
          la morte anco innamora.
          Nar.Oh mai più non udito
          miserissimo caso !
          oh fanciulla infelice, oh strana morte,
          oh crudele omicida!
          Amin.Ahi, dunqu’è morta?
          Niso.E chi fu l’omicida?
          ov’è lo scelerato?
          Amin.In qual caverna
          troverٍ questa tigre?
          Niso.Seguiamlo.
          Amin.Andiamo.
          Già l’ancido e gli schianto
          co’ denti infin da le radici il core.
          Nar.O forsennati, e dove
          andate furiando?
          Niso.A la vendetta.
          Nar.Deh ritornate, o ciechi!
          Egli è qui l’omicida.
          Niso.Aminta, addietro:

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          94
          FILLI DI SCIRO
          è qui, è qui ? nemico.
          Amin.E dove?
          Niso Ov’è, Narete?
          ? AR. Eccol, vedete
          in un l’uccisa e l’omicida estinti.
          Udite quel che di sua propria mano
          la miserella in questa scorza ha scritto:
          Per Niso e per Aminta
          Arsi: ma fui crudele,
          Fui amante infedele:
          Or per non esser loro
          Infida e cruda, i’ moro.
          1 Oh mille volte e mille
          miserissimo caso !
          Amin.Oimè!
          Niso.Oimè, si forte,
          che fin il cielo il senta.
          Aminta, Aminta, in questa guisa eh?...
          Amin.
          Niso, per Dio, ch’a torto
          di me ti lagneresti.
          Arsi a forza, ma tacqui.
          Niso.E ? tuo silenzio appunto
          ne conduce a la morte.
          Amin.Oimè, non più.
          Niso.Deh, Celia,
          or tu se’ morta, ed io
          morrٍ. Ma che? non vale
          la mia per la tua morte.
          Amin.Oimè!
          Nar.Vo* pur almeno
          veder come s’uccise.
          Niso.Aminta, ah se m’aitasti
          ad esser infelice,
          a pianger anco il mio dolor m’aita.
          Nar.Segno non ha di laccio
          Taci,

[p. 95 modifica]

          la bianchissima gola.
          Amin.Ahi lasso, il mio dolore
          chiuso è nel core, e quivi
          di lagrime si pasce,
          né vuoi che fuor dagli occhi
          pur una ne trabocchi.
          Nar.Ned è qua suso intorno
          luogo di precipizio.
          Amin.Ma, spieiato dolor, dolore ingordo,
          divora il core, e lascia
          le lagrime per gli occhi ;
          lascia ch’omai l’alta pietà dirompa
          gli abissi del mio pianto.
          Nar.Senza goccia di sangue
          veggo innocente il dardo.
          Niso.O Celia, ahi tu non odi?
          o bell’anima ignuda, ove se’ gita?
          lasci qui fredde e sole
          queste membra si belle?
          Nar.Sono intatte le vesti.
          Niso.Vieni, torna, rimira
          sol una volta ancor questo bel viso;
          ed allor vivi poi
          lontana, se tu puoi.
          Nar.Che erba è questa, ond’ella ha pieno il grembo?
          Niso, Aminta, correte,
          tosto correte a la vicina fonte.
          Niso.Qual più vicina fonte
          che gli occhi miei correnti
          d’amarissime lagrime?
          Lascia che noi piangiamo:
          ufficio nostro è’1 pianto: il bagno e ? rogo
          saran cura d’altrui.
          Nar.Deh non è tempo
          di lagrimar in vano !
          Itene voi, dich’io,

[p. 96 modifica]

          FILLI DI SCIRO
          imp-
          de l’acqua
          da bagnamele il viso.
          Datemi luogo, eh gite!
          Amin.A che lavar d’altr’acqua
          il volto, in cui (non vedi?)
          il nostro pianto innonda?
          Nar.Or io stesso v’andrٍ.
          Amin.Vien, vien, Narete.
          Deh par ch’ella si mova.
          Celia.Oimè!
          Niso.Tosto, o Narete!
          Celia vive e respira.
          Nar.Oh providenza eterna!
          felicissimo pianto,
          antidoto mirabile!
          Ei fu che, per lo viso diramando,
          contra ? velen de l’erba
          le ritornٍ la vita.
          Niso.O Celia!
          Amin.Celia!
          Nar.Non la turbate. Ecco risorge: aitiamla.
          Celia.Oh com’è faticoso
          il cammin de la morte!
          Son lassa, e tutto molle
          ho di sudore il volto.
          Nar.Stordita anco vaneggia,
          e sudor del suo volto
          cred’ella il vostro pianto.
          Celia.G son pur giunta
          entro i regni de l’ombre.
          Son questi i campi stigi?
          Nar.Itela sostenendo.
          Celia.Chi mi sospinge? Ahi lassa, ahi lassa, or ecco
          i mostri de l’inferno; or ecco quelli
          che ’n forma degli amanti
          vengono a tormentar l’anime infide.

[p. 97 modifica]

          Niso.O Celia!
          Celia.Oimè !
          Nar.Deh lungi,
          lungi da lei, pastori:
          quivi ascosi tacete, infin ch’io sgombri
          da questa mente addormentata i sogni.
          Celia.Ma pur al loro aspetto
          la fiamma del mio core, oimè, s’avanza.
          Dunque i mostri d’inferno
          spiran fuoco d’amore? Ahi troppo è crudo,
          se col fuoco d’amore arde lo ’nferno.
          Nar.O figlia!...
          Celia E chi è costui,
          cosi barbuto e bianco?
          Forse ? vecchio Caronte? A l’altra riva
          non ho varcato ancora?
          Nar.Celia, figlia, vaneggi.
          Deh riscuotiti omai, tu se’ tra’ vivi.
          E se noi credi, mira
          colà girando il cielo
          ir a l’occaso il sol, che tu pur dianzi
          vedesti in oriente;
          mira al soffiar de l’aura
          questa fronda cadente.
          Là ne’ regni de l’ombre,
          o non si leva o non tramonta il sole;
          né quell’eterne piante
          caduca fronde adorna.
          Se’ in terra de’ mortali, e tu se’ viva.
          io son Narete: questi
          son i campi di Sciro. E non conosci
          il prato de la fonte,
          il boschetto del Cervo, il monte d’Euro,
          il colle Orminio, il colle ove se’ nata?
          Or che rimiri? E’son ben dessi: parla.
          Che pensi omai? non ti risvegli ancora?
          G. Bonarëlli, Filli dí Sciro.

[p. 98 modifica]

          Celia.Son viva? ed è pur vero?
          Narete ? dice, ed io
          più ch’a Narete, al mio dolore il credo.
          Ma pur fui morta, e fui
          la giù ne’ regni de la morte: vidi
          pur quivi ad uno ad uno
          tutti quanti ha l’inferno
          furie, fere e tormenti.
          Or chi potea trarmi d’abisso a forza?
          Nar.I tuoi miseri amanti,
          piangendo la tua morte, essi poterٍ
          con le lagrime lor darti la vita.
          Celia.Ah mal per me si fece al pianto loro
          placabile l’inferno!
          Ma non fu il pianto loro: e so ben io
          ch’ove Cerbero latra o fischia l’Idra
          altra voce non s’ode.
          Ei fu l’orror di quest’alma infedele,
          cui non poté soffrir l’orrido inferno.
          Misera, e vivo? G vivo, e la mia vita
          è vomito d’inferno.
          Niso.’ Odi, Narete,
          costei ancor tra le chimere adombra.
          Celia.Vita infelice, a cui
          fin il morir vien meno.
          Nar.Voi, senza darle noia,
          mirate che di nuovo
          contra sé non ritorni a ’ncrudelire.
          Celia.Ma tu forse, o del cielo alta giustizia,
          tu forse vuoi ch’io doppiamente infida
          or sia tornata in vita,
          perché di nuovo i’ mora,
          e sia per doppio error doppia la morte.
          Niso.Ma tu, perché ten vai?
          Deh non lasciar noi soli
          a tanta impresa.
          Nar.Io vado

[p. 99 modifica]

          ver la valle d’Alcandro,
          e torno or or con erbe
          da stenebrar quell’alma.
          Celia.A morte, dunque, a morte!
          SCENA VI
          Aminta, Celia, Niso.
          Amin.A morte, o Celia, a morte?
          Or, se pur vuoi morir, prendi quest’alma,
          e con essa ti mori.
          Tu certo non morrai,
          se l’alma mia non spiri.
          Niso.(Ei parla seco; ed ella ancor non fugge?)
          Celia.Perché non vuoi ch’io mora?
          cosi dunque contendi
          al mio male il rimedio?
          cosi contrasti il cielo?
          Niso.(Anzi ascolta e risponde.)
          Amin.Altro rimedio ? cielo
          che la tua morte or al tuo mal prescrive.
          Celia.E qual rimedio vuoi ch’abbia ? mio male,
          quando né pur la morte,
          che fine è d’ogni male,
          poté dar fine al mio ’nfinito male?
          Niso.(Ma romperٍ ben io
          questi fra lor si dolci
          amorosi parlari.)
          Amin.La mia, non la tua morte;
          e con la morte mia G amor di Niso
          per tua salute ha destinato il cielo.
          Niso.(Ma no, non vo’turbarli;
          vo’ prima udir tacendo.)
          Celia.Ah, ah!
          Amin.Non ti sdegnar; deh più benigna

[p. 100 modifica]

          IOO FILLI DI SCIRO
          or mia ragion intendi.
          S’ami pur Niso, o Celia...
          Niso.(E contra me si parla.)
          Amin.Ami Niso a ragione:
          merta Niso il tuo amor, Niso che seppe
          arder al tuo bel lume
          fin d’allor che, morendo,
          a) tuo bel lume apri le luci oscure.
          | Felice lui ! se vide tardi il sole,
          \non arse tardi al sole,
          jond’ei puٍ dirsi in Sciro
          inovello abitator, non tardo amante.
          Niso.(Ove cadrà costui? ove s’aggira?)
          Amin.Ma, lasso, in me che scorgi,
          ond’io pur del tuo amor degno ti sembri?
          Io d’ogni merto ignudo
          ardo bensí, ma quasi inutil tronco;
          ardo vii tronco, il quale
          tardi s’accende e tosto incenerisce.
          Io, che potei molti anni,
          mirando il tuo bel viso,
          senza fiamma mirarlo,
          degno non son che trovi
          tarda fiamma d’amor pronta pietade:
          degno non son che m’ami: e pur non cheggio
          che lasci, no, d’amarmi (omai cotanto
          non mi consente Amore); i’ cheggio solo
          che mi lasci morire. E la mia morte,
          oh fortunata morte!
          sarà la tua salute. Allor potrai
          amar Niso ed Aminta:
          e non sarai crudele,
          od amante infedele,
          perché amerai l’un vivo e l’altro estinto:
          l’un amerai godendo,
          l’altro amerai piangendo.

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          ATTO QUARTO ???
          Né sarà lungo il pianto:
          una lagrima sola
          farà pago ? mio amore; indi n’andrai
          tu stessa lieta a far beato altrui.
          Niso.(Oh d’amante, oh d’amico
          non usata pietade !
          A torto io ne temei; or me ne pento.)
          Amin.Voi dunque ambo vivete,
          vivete voi felici :
          io morirٍ. Per voi de la mia vita
          faccio un voto ad Amor: lل nel suo tempio
          questa spoglia s’appenda.
          Niso.(Non è più tempo di tacere; omai
          vile fora il silenzio.) Aminta, Aminta,
          ho ben un’alma da morir anch’io;
          ho core anch’io che sa bramar la morte;
          anzi la vita omai cara m’è solo,
          quanto con essa i’ mora,
          s’a la mia morte lice
          far l’amico e l’amante in un felice.
          Celia.Deh tacete, pastori;
          ambo tacete, ed ambo
          datevi pace, ch’io,
          io sola errai, ed io
          sola convien che mora.
          Vivete voi, vivete,
          né vi prenda pietade
          d’una fera spieiata;
          non vi riscaldi amore
          d’una amante infedele.
          Parvi che questo volto,
          questi occhi, questo crine,
          avanzi del dolore,
          rifiuti de la morte,
          ; debbansi amar da voi?
          Or amate, i’ noi vieto;

[p. 102 modifica]

          ma amate si ch’amore
          disdegno, e non pietade, al cor vi spiri.
          10 t’amo Aminta; o Niso,
          e tu non m’odii addunque? Io t’amo, o Niso;
          dunque non m’odii, Aminta?
          Oimè, se non m’odiate,
          voi certo non m’amate:
          ch’amor non è là dov’ei non ispira,
          quando ? chiede ragion, disdegno ed ira.
          O miei traditi amanti,
          deh tra voi si contenda,
          non chi di voi, morendo,
          ridoni a me la vita,
          ma si contenda solo
          chi debba esser di voi a la mia morte
          il feritor primiero.
          Deh venitene omai,
          ch’a la mia morte anch’io sarٍ con voi
          congiurata, e ciascuno a suo talento
          ogni poter v’impieghi.
          Voi la mano ed io ? sen; voi l’arme, io l’alma:
          voi m’aprirete il core,
          io ne trarrٍ la vita.
          Cosi voi col ferire, io col morire
          farem di nostre offese alta vendetta.
          SCENA VII
          Filino, Celia, Aminta, Niso.
          Fil.E tu se’ qui? Correndo
          non ti vedeva, o Celia.
          Deh non sai? La tua Clori...
          oimè!...
          Celia.Che rea novella

[p. 103 modifica]

          ATTO QUARTO IO3
          hai di Clori, o Filino,
          da recar sospirando?
          Fil.O non è viva o muore.
          Celia.Muore?
          Amin.Oh!
          Niso.Che dic’egli?
          Celia.Ahi, come e dove?
          Fil.Ne la valle...
          Cella. Di’ tosto !
          Fil.Adagio! appena
          anelando respiro.
          Ne la valle d’Alcandro
          io l’ho testé lasciata,
          ove giacea, non miga
          in su l’erbetta a l’ombra,
          ma fra G ignude pietre,
          ove più scalda il sole.
          Ella quivi piagnendo
          prendea dal ciel commiato,
          e con dolenti voci
          affrettava la morte.
          Ma ben G a vea da presso; i’ l’ho veduta
          che già con l’ali sparse
          faceale ombrar di pallid’ombre il volto.
          Niso.Oh infausto giorno!
          Celia.Ahi, qual empia cagione
          ha di dolor sí fiero?
          Amin.Forse ? romor ch’è sparso
          de la tua morte. O Celia, e chi vorrebbe,
          andando a morir tu, restar in vita?
          Niso.Aminta, è costei forse
          quella Clori, a cui diedi il cerchio?
          È dessa.
          Amin.
          Celia.
          Ah ria
          fortuna !
          Niso.
          O
          Celia,
          andiam
          colà; fors’
          anco

[p. 104 modifica]

          potremo aitarla.
          Celia.Andiam, Filino.
          Amin.E dove
          di’ tu ch’ella giacea?
          Fil.Ne la valle d’Alcandro infra le selci,
          colà presso a la fonte:
          voi non potrete errare. Io men ritorno
          a riveder la greggia,
          a ribaciare il capro.
          Celia.O Clori, anima mia, deh voglia il cielo
          che viva io ti riveggia!
          So ben che quand’udito
          avrai l’alta cagion de la mia morte,
          so ben che ’n pace allora
          tu soffrirai ch’io mora.
          Fil.O Niso, Niso, ascolta.
          Niso.Che vuoi?
          Fil.M’uscia di mente.
          Niso.Or di’ tosto, che Celia
          vassene e corre.
          Fil.Aspetta.
          Ma tu stesso tei prendi.
          Ella ? mi cinse, ed io non so disciorlo.
          Niso.Sí, sí, questo è ? mio cerchio.
          Or sia lodato il ciel ! Ma che vegg’ io ?
          È qui la parte anco di Filli; è certo.
          Ecco appunto d’intorno
          appariscono intiere
          le già tronche figure.
          O chi tei die, Filino?
          Fil.Clori mei diede.
          Niso.E donde
          l’ebbe costei?
          FiL.Non so; ma quando mossi
          cheto cheto là dove
          ella giacea piangendo,

[p. 105 modifica]

          quivi ’n terra l’avea;
          miraval fisso, e tutto
          di lagrime il bagnava,
          spesse volte chiamando:
          — Oh sfortunata Filli ! oh Tirsi ingrato ! —
          Niso.Oimè, che fia cotesto? Or segui, or segui.
          Fil.E che vuoi più ch’io segua?
          Niso.Come poscia tei diede?
          che fé’, che disse allora?
          Fil.Ella di me s’avvide,
          e mi chiamٍ: v’andai, e di sua mano,
          ma d’una man tremante,
          fredda via più che ? marmo, intorno al collo
          questo cerchio mi cinse,
          e dissemi piangendo,
          tal ch’appena l’udii, cosi già roca
          avea la voce: — O bel garzَn (mi disse)
          vanne, che ? ciel t’aiti;
          porta or or questo cerchio,
          (né far ch’altrui tei veggia),
          a quel pastor che Niso or qui s’appella,
          e digli...
          Niso.E che dèi dirgli?
          Fil.Non so se mi rammenti.
          Niso.Oh smemorato!
          Fil.Non mi gridar. Si si, or mi sovviene.
          — Digli ch’ei riconosca
          in questo cerchio intiero
          la rotta fé di Tirsi.
          E viva ei pur felice,
          come ’nfelice i’ moro. —
          Niso.Ahi, certo è Filli!
          Che più temerne? Oh me via più ch’ogni altro
          fin ne le mie venture
          sventurato pastore!
          O dolcissima Filli,

[p. 106 modifica]

          dunque ha voluto il cielo
          che viva io ti ritrovi
          solo perch’io t’ancida? ahi, non bastava
          a la miseria mia
          la tua morte, s’io stesso
          non era l’omicida?
          Fil.S’altro da me non chiedi,
          G me n’andrٍ.
          Niso.Ma tu, cerchio ’nfelice,
          tu che dell’error mio fusti ad un tempo
          accusatore e reo,
          or to’, va’ negli abissi.
          Fil.(Deh, nel torrente ei l’ha gittato.)
          Niso.Quinci
          Tu la mia colpa accusa,
          le mie pene apparecchia:
          quinci a poco io ti seguo.
          Fil.Costui si furioso
          mi spaventa, impazzisce.
          Io men vo’ gire.
          Niso.O stolto,
          errai. Che feci? a che gittar il cerchio?
          Filli fors’anco è viva.
          Ma che perٍ? Non fia
          che già ? colpo crudel de la sua morte
          10 non abbia scoccato. Omai che spero?
          potrٍ forse negando
          ricoprir l’empietà de Terror mio?
          O giustizia d’Amore, hai pur voluto
          che questa propria lingua innanzi a lei,
          a lei stessa dispieghi
          fra mill’empi sospiri
          il mio ’nfedele ardore.
          Ma sia che puote, i’ voglio,
          viva o morta che sia,
          gir a trovar costei:

[p. 107 modifica]

          ATTO QUARTO IO7
          le vo’ morir a’ piedi,
          che se non altro, almen le fia pur caro
          di veder la mia morte. O Celia, o Celia,
          ama tu pur il tuo fedele Aminta:
          tu vivi seco, e lascia
          ch’omai per la mia Filli,
          s’altro non posso, almeno
          per la mia Filli i’ mora. — Or tu mi guida.
          Ove se’tu, Fillino? — Ei se n’è gito.
          Deh chi fia che mi scorga? Andronne a caso.
          A disperato core
          fida scorta è ? furore.