Il bel paese (1876)/Serata IV. - Il Ghiacciajo del Forno

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Serata IV. - Il Ghiacciajo del Forno

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Serata IV. - Il Ghiacciajo del Forno
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SERATA IV


Il ghiacciajo del Forno.

I ghiacciai dell’Alpi italiane, 1. — Alle acque di Santa Caterina, 2. — Da Santa Caterina al ghiacciajo, 3. — Aspetto di un ghiacciajo, 4. — Il ghiacciajo si muove, 5. — Perchè si muove, 6. — Al ghiacciajo del Forno, 7. — La porta del ghiacciajo, 8. — Le morene, 9. — Un piccolo mondo, 10. — I crepacci, 11. — Le pulci del ghiacciajo, 12. — Le rane in Giudecca, 13. — Desor e le signore inglesi, 14. — La baita, 15. — La famiglia del montanaro, 16.


1. «Ora lo domandiamo allo zio:» sentii sclamare la Giannina, mentr’io sull’uscio m’affacciava al solito convegno.

«Che c’è?» interrogai io, mentre i bambini mi facevano festa.

«Giovannino», prese a dire Giannina, «vuol sostenere che le Alpi Svizzere sono più belle delle Alpi Italiane, dicendo fra l’altre cose che nelle nostre Alpi non vi sono ghiacciai».

«Di fatti, saltò su a dire Giovannino, «ci hai descritto tutte le Alpi Carniche, senza nominare un solo ghiacciajo. Alle Alpi Italiane manca dunque una delle principali bellezze delle Alpi Svizzere».

«Che le Alpi Italiane», cominciai a dire, «siano men belle delle Alpi Svizzere, cioè che le Alpi siano più belle sull’uno piuttosto che sull’altro versante, questo non lasciartelo intendere assolutamente. Le Alpi sono bellissime tanto in Svizzera quanto in Italia; e quando s’ha da far uso del superlativo, non c’è luogo al comparativo. Questo soltanto è vero che le bellezze sui due versanti sono in gran parte diverse. Non troveresti, per esempio, nelle Alpi Svizzere un sol tratto, che si possa paragonare alle Alpi dolomitiche dell’Agordino, del Cadore e della Carnia. Le Alpi Svizzere hanno sopra le nostre il vantaggio de’ loro famosi ghiacciai. È falso però che alle Alpi Italiane manchi questo stupendo [p. 57 modifica]ornamento. Tutt’altro: i ghiacciai ci sono, e come belli! soltanto sono meno sviluppati. Una delle ragioni che determinano il livello delle nevi perpetue (e son quelle che producono e alimentano i ghiacciai), sui diversi versanti, è la loro esposizione. Nei libri di geografia fisica voi troverete che il livello delle nevi eterne è fissato a 2708 metri sul livello del mare. Ma questa cifra non vi dà che una media approssimativa: voglio dire che in alcuni luoghi le nevi discendono anche più basso dei 2708 metri, mentre in altri luoghi si arrestano ad un’altezza molto maggiore. Io non vidi, per esempio, coperta di neve la cima del monte Antelao, benchè abbia una elevazione di 3233 metri. Ci saranno probabilmente dei campi di neve nelle sinuosità; ma ci vuol ben altro per dare origine ad un ghiacciajo. La Marmolade ha coperta di nevi eterne soltanto la cima, benchè raggiunga l’altezza di 3323 metri. Che vuol dir ciò? vuol dire che le Alpi Carniche sono esposte al sole meglio che le Alpi Svizzere. In fine i versanti italiani delle Alpi guardano mezzodì, mentre gli opposti versanti sono rivolti a settentrione. Questa sola circostanza basta per determinare nelle Alpi Svizzere uno sviluppo di nevi e di ghiacci assai maggiore che nelle Alpi Italiane. Anche l’Italia però, vi ripeto, vanta le sue nevi eterne, di cui potrete contemplare la stupenda mostra, salendo una bella mattina sull’aguglia del nostro Duomo; e dalle nevi eterne si dipartono i ghiacciai, che discendono come fiumi di cristallo in seno alle nostre valli. Vi assicuro che vi lascerebbero ben poco da invidiare alle Alpi Svizzere i ghiacciai del monte della Disgrazia, del Pizzo Fontana, e degli altri alpini colossi, che incoronano i versanti settentrionali della Valtellina. Se poi desiderate un gruppo di montagne, tutto italiano, che per l’importanza de’ ghiacciai rivaleggi coi gruppi del monte Bianco e delle Alpi Bernesi, non avete che a portarvi, se vi regge il cuore, sulle cime del monte Avio, del monte Adamello, sulle cime insomma di quello spaventoso sperone delle Alpi che, spiccandosi direttamente a mezzodì della grande catena, divide il Trentino dalla Val-Camonica. Poi, non sono italiani i versanti meridionali del monte Bianco, del monte Rosa, i quali presentano dei ghiacciai non indegni di figurare a fronte dei più grandi ghiacciai della Svizzera? Sapete che cosa ci manca perchè i nostri ghiacciai acquistino quella celebrità, che i ghiacciai svizzeri godono incontrastata da così lungo tempo? Ci manca che siano studiati, o almeno visitati. Noi ci accontentiamo di ammirare da lontano il candido diadema che ricinge [p. 58 modifica]le nostre fiorite pianure; e quando ci punge la voglia di vedere un ghiacciajo, eccoci anche noi nella valle di Chamouny, o ai piedi della Jungfrau, sulla pesta di tutti i viaggiatori di convenzione. Gli è perciò che io vi manifestai le più vive simpatie pel Club alpino italiano, il quale riuscirà a rendere agevole o almeno possibile la visita ai nostri ghiacciai, i quali, a dir vero, non sono in generale accessibili finora che agli esploratori più arditi, o almeno dotati di una ricca dose di spirito d’annegazione. Se volete però visitare un ghiacciajo italiano, senza scomporvi di troppo, senza rinunciare nemmeno ai comodi della vita, portatevi a Santa Caterina di Bormio. La visita del ghiacciajo del Forno1, che si può dire un ghiacciajo modello, non sarà che una partita di piacere, a cui possono pigliar parte anche le signore, senza nè forzare di troppo la morbidezza della loro muscolatura, nè rinunciare agl’impedimenti meno indispensabili della toletta».

«Allora», disse Giannina, «potresti stassera descriverci il ghiacciajo del Forno. Vedi, io non so nemmeno che cosa sia un ghiacciajo, benchè abbia trovato che tante volte se ne parla nei libri di lettura».

«Se vi piace, vi racconterò adunque i particolari di altro mio viaggetto, che io feci in quella parte delle Alpi che separa la estremità settentrionale della Valtellina dal Tirolo tedesco. È vero che sono passati già da 7 ad 8 anni; ma quei luoghi mi sono rimasti impressi così vivamente.... Poi in questi giorni, giacchè prevedeva che sarei messo a contribuzione di nuovo, ho riveduto i miei piccoli giornali da viaggio, che mi hanno rin frescata la memoria di molti particolari. Portiamoci dunque di lancio a Santa Caterina.

2. » Le acque ferruginose di Santa Caterina, che godono di sì meritata celebrità, scaturiscono a 1853 metri sul livello del mare, dal fondo piano della valle sulla sinistra del Frodolfo. È questo un torrente, nudrito dai ghiacci eterni delle circostanti montagne, che mette foce nell’Adda, non troppo lungi dalle sue sorgenti, in vicinanza di Bormio2. [p. 59 modifica]

» La valle che da Bormio mette alle acque, ricca di colli dapprima e sparsa di paeselli, si restringe poi fra le rupi e gli abeti, nè manca di una certa severa amenità che ricorda le vallate svizzere. Si riapre quindi, formando una specie di fondo cieco o di bacino, il cui piano, occupato in parte dalle sterili alluvioni del Frodolfo, in parte da pascoli torbosi, in parte da ombrose macchie, è seminato di casolari; tra i quali si distingue, più per la mole che per l’eleganza, lo Stabilimento, cioè l’albergo ove nei tre mesi più caldi si raccolgono quanti vanno a far prova di quelle linfe portentose.

» Non vi parlerò di quello Stabilimento, nè della vita che vi si conduce. Il complesso di uno stabilimento di bagni, di acque, ecc., di cui se Esculapio3 ne edificò uno, la moda ne eresse cento, è così vario nella sua uguaglianza, è così stereotipo nella sua varietà, che non saprei se torni più difficile o più inutile il tentarne la descrizione. Foggie e figure più o meno caricate; ammalato da letto nessuno; moltissimi di florida salute e d’insaziabile appetito, narratori inesauribili dei propri malanni, convulsi, spavento e disperazione del medico, attenti a percepire ogni impercettibile oscillazione di alcuna di quelle miriadi di fibre che compongono il corpo umano. V’hanno misantropi in collera col mondo intero, e giovialoni che han per tutti un sorriso ed una stretta di mano. Non parlo delle relazioni più confidenziali, delle amicizie intrinseche nate li per li tra persone che domani incontrandosi muso a muso sul marciapiede della città fingeranno di non conoscersi: non parlo dei pettegolezzi, delle ire, delle smancerie, delle ridicolaggini, mentre qualche persona di spirito, sicura dagli attacchi, si gode di tutto quel piccolo mondo. Ecco il ritratto, troppo mancante, di tutti gli stabilimenti ove si accorre, a determinata stagione, per far uso di quelle che un mio amico, medico valente, ma un po’ piccante nei suoi giudizi, soleva chiamare acque sporche. Chi dichiara il luogo incantevole, la società deliziosa; chi trova orribile quello, detestabile questa. In genere la civetteria e la maldicenza vi trionfano assai più che la cortesia e la carità. Se io potessi però fare una eccezione, la farei per Santa Caterina giudicandone dai brevi giorni che vi passai. È bene ad ogni modo che le floride guancie e gli stomachi sempre a tiro dei giovinetti e delle giovinette, dispensino ordinariamente le mamme dal condurli a quei santuari [p. 60 modifica]di Esculapio, donde riporterebbero forse alcune idee di troppo e molto senno di meno. Per me del resto Santa Caterina non servì che come stazione, se vuolsi, come quartier generale ove discutere e organizzare diverse spedizioni.

» La prima impresa progettata era il passaggio del Zebrù. I monti sulla destra del Frodolfo in faccia allo Stabilimento di Santa Caterina formano come una specie di irta parete che separa la valle Furva, o valle di Santa Caterina, dalla valle detta del Zebrù. Quella gigantesca parete, formata da una catena di acuti gioghi, bianchi di nevi eterne, si ripiega da mezzodì a settentrione e, andando a confondersi colla catena che la valle del Zebrù divide dalla valle dello Stelvio, chiude la prima dalla parte di oriente. La vallata del Zebrù è così una vera valle a fondo cieco, aperta soltanto verso occidente, ove il torrente Zebrù si getta nel Frodolfo a S. Antonio presso Bormio. Si trattava di ascendere lungo la scogliera che divide, come dissi, Santa Caterina dal Zebrù, seguendo il torrente che costituisce il braccio settentrionale del Frodolfo e, per l’alto calle, detto passo del Zebrù, discendere nella valle dello stesso nome. Trovai tosto volonterosi compagni, lieti della occasione che si offeriva di rompere con qualche cosa di energico gli ozî della cura. La gita doveva essere ripartita in due giorni, il primo sacro alla visita, o meglio allo studio del ghiacciajo del Forno, che si incontra sulla via, l’altro al vàlico suddetto.

3. » È una bella mattina; sei i viaggiatori, oltre la guida, o meglio il portatore, carico di munizioni da bocca; tutti muniti del classico alpenstock4, arma inevitabile dei viaggiatori delle Alpi, viaggino a piedi od in vapore, si periglino sulle aguglie del monte Bianco, o si sollazzino nei voluttuosi piani di Interlaken. Ad ogni stazione di certo grido ve ne stampano col ferro rovente il nome; sicchè il viaggiatore riporta a casa il suo alpenstock tutto istoriato. È un calendario di nuovo genere; è una gloria più o meno equivoca ed una piccola bottega per gli alpigiani, che vi vendono al minuto le bellezze delle Alpi.... Ma avanti.

» Eravamo dunque sei.... ma gente di peso, vedete. In primis lo stesso prevosto di Val Furva, uomo colto, carattere leale, franco ne’ suoi principî anche quando non siano divisi dagli altri, tempra di ferro fisica e morale. Fortunato chi può averlo guida su quelle montagne di cui conosce gli aspri gioghi e le geologiche [p. 61 modifica]ricchezze; ma costui si prepari a non indietreggiare giammai. Il prevosto Buonguglielmi è come il capitano della squadra. In seguito il dottore Casella. Tutto il mondo lo conosce come il diligente ricercatore degli orsi antidiluviani nella famosa caverna di Laglio, come l’anima dello Stabilimento di Santa Caterina. Egli, fra noi, occupava il posto più importante nella amministrazione di un’armata; il posto di intendente, di capo della provianda, sdebitandosi egregiamente dell’ufficio suo. Mi metterò poi io, che con un bravo studente ingegnere, un dilettante di geologia e un professore di storia avevamo l’aria d’una commissione scientifica.

» Si attraversano i piani erbosi solcati dal Frodolfo, e cominciamo la salita sulla destra del fiume, internandoci in una valle che si va facendo sempre più oscura ed angusta. Mentre il paesista ammirerebbe i nudi scogli, sporgenti dalle macchie di abeti di continuo spruzzati da cascate argentine, il geologo sarebbe lieto di osservare quell’alternanza di schisti a mille colori, di banchi di calcare saccaroide, di porfidi dioritici».

«Codesti tuoi sassi....» interruppe il Battista, «noi non ci intendiamo niente».

«Che vuoi?... la lingua batte dove il dente duole. Del resto gli schisti sono sassi, ossia rocce, a straterelli lucenti, flessuosi, come formati di tanti fogli sovrapposti. Se poi avete visto le belle statue di marmo di Carrara, sapete già che cosa sia il calcare che si chiama saccaroide, come chi dicesse marmo zuccherino. Il porfido dioritico finalmente è una certa roccia bigia, tutta disseminata di cristallini di color verde-cupo, composti di un minerale che si chiama amfibolo.... Ma già queste cose bisognerebbe vederle.

» Dopo un cammino di forse due ore, per un comodo sentiero che serpeggia entro i burroni, sostenuto talora da travi o da rozzi ponti di legno quasi a volo sui precipizî, la valle sembra chiudersi interamente. Sol vedesi, giù in fondo a destra, da una gola angusta spumeggiare il torrente. Eccoci ad una specie di barriera di rupi arrotondate e quasi lisciate, che nella morbidezza delle loro forme presentano il più sentito contrasto coi dirupi e colle vette, ispide e acute, che sorgono ovunque all’ingiro. Esse accennano all’antica estensione del ghiacciajo il quale, strisciandovi sopra in sua lenta mole, le rodeva come farebbe una lima, e le lisciava come non può meglio il più abile lapidario. Scavalcata quella barriera apresi d’un tratto, come per incanto, un ampio vano, un vasto bacino circondato da rupi [p. 62 modifica]inaccesse, da frane scoscese, da vette nevose, ed eccovi in faccia lo smisurato ghiacciajo, formante quasi l’arena di quell’immenso anfiteatro».

Qui i miei piccoli uditori con certe smorfie sgraziate sembrano volermi avvertire che chi non intende non gusta. Quello sviluppo del ghiacciajo in antico, quell’azione erosiva di cui sono opera e testimonî le rupi arrotondate, lo stesso ghiacciajo di cui non hanno alcuna idea, sono altrettante ignote di cui cercano spiegazione.

«Capisco», dissi «miei cari, che voi non mi intendete abbastanza. La natura e la storia dei ghiacciai alpini aprirono largo campo ad investigazioni interessantissime; nè l’argomento è certo esaurito. Ma il dirne poco non basta, e il dirne abbastanza svierebbe di troppo la nostra conversazione. Chi sa che un giorno i ghiacciai non ci prestino il tema di speciali trattenimenti. Ma oggi vi basti di fare conoscenza con queste moli portentose che tanta parte ebbero ed hanno nell’impianto provvidenziale del l’economia terrestre. Il ghiacciajo del Forno ci valga come di saggio.

4. » Imaginate un’ampia valle, cui fanno parete, dall’uno e dall’altro lato, rupi ignude, scoscese, talora a picco. Un maestoso fiume ne occupa tutto il fondo. Quel fiume è bianco come la neve, sodo come il ghiaccio. È infatti un fiume di ghiaccio che scaturisce dagli immensi campi di nevi eterne, le quali rivestono le eccelse vette e colmano i vasti altipiani delle Alpi. E’ sembra, anche al solo vederle, che quelle nevi eterne con perpetua onda si riversino nella immensa fiumana. Che direste, miei cari, se io vi assicurassi che la è proprio così? che la descrizione che io fo del ghiacciajo e della sua origine è vera, è letterale? Sì veramente, le nevi eterne si riversano in quel fiume di ghiaccio, e quel fiume scorre, e solleva le sue onde simile a un torrente, quasi ad un mare in burrasca. Ma quel fiume sembra immobile; quelle onde sembrano sospese, cristallizzate: quel fiume è tutto di ghiaccio.

» Ma insomma, direte voi, trattasi di realtà o di apparenza? Paragonando il ghiacciajo a un fiume intendi soltanto di trovare una similitudine che lo dipinga quale si vede, o un paragone che ajuti a intenderlo realmente qual è? — Ecco, o miei cari; anche chi non sa nulla dei fenomeni glaciali, se volesse descrivere un ghiacciajo, metterlo lì vivo vivo davanti all’occhio di chi non ne ha mai veduto uno, gli direbbe indubbiamente che [p. 63 modifica]un ghiacciajo è come un fiume vorticoso e spumante, agghiacciato anche talvolta nell’atto che precipitava formando una cascata. Se poi volesse dipingergli certi grandi ghiacciai, come sarebbe quello che discende dal Monte Bianco nella valle di Chamouny, che tutti conoscono sotto il nome di Mare di ghiaccio, allora non basterebbe la similitudine di un fiume; il ghiacciajo vi sarebbe dipinto come un mare gelato nel furore della tempesta. Fin qui non si tratta che di similitudini che ajutano l’imaginazione. Ma lo scopo di queste similitudini è quello semplicemente di porvi davanti ciò che appare, non ciò che è. Quand’uno invece conosce la vera natura dei fenomeni, conosce la fisica dei ghiacċiai, allora la similitudine del fiume diventa un vero paragone; quel paragone che si può stabilire fra due cose che si assomigliano realmente, non soltanto per somiglianza di forme, ma per uguaglianza di natura e di proprietà. Sì, il ghiacciajo si può paragonare ad un fiume, perchè, fino a un certo punto, ha la natura e le proprietà di un fiume; perchè come un fiume si move....».

5. «Come», sclamò il Battista, «è di ghiaccio e si move?».

«Certo, si move; discende, scorre, precipita giù per la valle, come un torrente. Come un torrente rode le rupi, seco travolge i massi, rotola i ciottoli, si piega, serpeggia, ha le sue magre e le sue piene straripanti».

«Dunque», disse Luigi, «il ghiacciajo si vede venir giù come un torrente.... chi sa che fracasso!...».

«Vedi tu muoversi sul quadrante d’un oriuolo l’indice delle ore? Eppure si muove. Perchè nol vedi a muoversi perchè il moto n’è sì lento che l’occhio nol percepisce. E sì che l’indice delle ore, sul quadrante di una torre per esempio, compie in dodici un viaggio circolare di tre o quattro metri, mentre è assai se il nostro fiume di ghiaccio percorre in 24 ore 20 centimetri».

«Allora», soggiunse Luigi, «perchè si dice un fiume? I fiumi corrono assai veloci».

«Non è il grado di velocità che dà ai fiumi la natura di fiumi. Un fiume può essere veloce, lento e lentissimo. Se le acque di un fiume divenissero dense dense, vischiose, pastose, esso scorrerebbe lentissimo; ma non cesserebbe no, d’essere un fiume. L’acqua la quale forma il fiume che noi chiamiamo ghiacciajo, è un’acqua densa o piuttosto solida e dura perchè è gelata; ma pure scorre..., adagio, adagio.... ma scorre. Pare impossibile, n’è vero? eppure è così. Le più accurate esperienze furono istituite [p. 64 modifica]già da molti anni per determinare il movimento dei ghiacciai, e si trovò che essi scorrono (salvo l’estrema lentezza) precisamente come i fiumi. Voi potreste imbarcarvi su quei fiumi di ghiaccio, e scendereste giù per la valle, precisamente come navigando in barchetta sull’Adda o sul Reno. Ma non ve lo consiglierei come il sistema di navigazione più spedito. Supponiamo che la vostra barchetta navigasse sul ghiacciajo dell’Aaar, uno dei più grandi ghiacciai delle Alpi bernesi. Dopo 4 anni di navigazione vi sareste allontanati dal porto 300 metri o giù di lì».

6. «Ma via», interruppe la Giannina con tutta serietà; «spiegaci ciò che vuoi dire propriamente, quando affermi che il ghiacciajo discende come un fiume. Sdrucciola forse?».

«Oibò, oibò! ti pare? Perchè sdruccioli il ghiacciajo dovrebbe trovarsi perfettamente libero, non così incastrato nelle valli più tortuose, inchiodato da rupi e da montagne, che si levano talvolta in forma di isole, come enormi cavicchi, nel mezzo dello stesso ghiacciajo. Poi se il ghiacciajo sdrucciolasse, finirebbe col venir giù come una valanga. Il ghiacciajo invece scorre, e quando vi dissi che discende come un fiume, ho proprio creduto di spiegarmi chiaro. Concepireste voi un fiume di cera, di miele, di pece, di pasta? Ebbene, concepite al modo stesso un fiume di ghiaccio, poichè il ghiaccio, per quanto vi sembri sodo, è anch’esso pastoso, plastico diremo meglio. Il ghiaccio, o compresso o accumulato in gran copia in guisa da comprimersi fortemente da sè, si schiaccia senza rompersi, e scorre come una pece. Così il ghiaccio discende per la valle; così s’insinua fra rupe e rupe, così si modella in ogni seno, in ogni anfrattuosità; così può gonfiarsi per aggiunta di nuovo ghiaccio, può straripare, può inondare, e produrrebbe davvero inondazioni spaventevoli, se il disgelo non lo arrestasse per via, non molto al di sotto del limite delle nevi perpetue. Anzi, volete sapere che cosa sia un ghiacciajo! Esso è un canale di scarico delle nevi eterne. Le nevi, sdrucciolando giù dalle vette, si accumulano nei più elevati bacini delle Alpi. In questi bacini la neve si conglutina, formando un corpo solo, cioè il ghiaccio, che, dotato di una grande plasticità, si move da sè giù per la china riempiendo le valli finchè trovi tale temperatura che lo costringa a sciogliersi in acqua. Se poi volessi tutto spiegarvi, tutto dimostrarvi, ce ne vorrebbero delle serate a nostra disposizione! Ma via; che cosa sia un ghiacciajo dovete averlo inteso quanto basti per tirare innanzi. Il ghiacciajo del Forno ajuterà un pochino anche lui a farvi comprendere il resto. [p. 65 modifica]

7. » Esso non è al certo di quella grandezza che distingue i più colossali ghiacciai della Svizzera, nè offre gli accidenti meravigliosi Ghiacciajo detto Mer de glace a Chamouny. di quella parte del ghiacciajo di Montanvert, nella valle di Chamouny, che fu chiamata Mer de glace (Mare di [p. 66 modifica]ghiaccio). È un bel ghiacciajo però, un ghiacciajo classico, tanto più interessante in quanto è uno dei pochi ghiacciai sui versanti italiani delle Alpi, che presenti in modo così perfetto il tipo de’ ghiacciai alpini. Misura forse 500 metri nella sua massima larghezza, e dal punto ove si stacca dai campi di neve percorre forse tre chilometri, prima di toccare il limite estremo dove si scioglie.

» D’ordinario chi dallo Stabilimento di Santa Caterina ascende a vedere il ghiacciajo, si accontenta di contemplarlo dalla prima altura d’onde si domina in tutta la sua ampiezza. Questi tali credono d’aver veduto un ghiacciajo, e non han visto che una nevicata sul fondo di una valle. No; voi non farete così. Per avere una giusta idea del mare, non basta contemplarlo dal lido; bisogna staccarsi dalle arene, pigliare il largo; sentirsi ridotto a proporzioni microscopiche in seno a quella immensità; fa d’uopo assaggiare le tempeste, sentirsi orribilmente cullato da quelle montagne danzanti, veder quel legno, di cui vi parve sì smisurata la mole quand’era torreggiante presso il lido, vederlo, dico, quasi pagliuzza, trastullo delle onde. Così è del ghiacciajo; per comprenderlo, per gustarlo, bisogna avventurarsi su quel mare gelato, misurarne l’ampiezza, riscontrarne ad uno ad uno i meravigliosi accidenti. Impugnate l’Alpenstock, armatevi di occhiali o verdi o affumicati, imbacuccatevi in un velo che vi copra il viso....».

«Perchè? perchè?» sclamarono meravigliati i bambini.

«Perchè.... provatevi a camminare otto o dieci ore sulla neve o sul ghiaccio senza velo e senza occhiali, e vi accadrà ciò che avviene sovente anche alle più esperimentate guide delle Alpi, di venire cioè ricondotte a mano perfettamente cieche. Anch’io ebbi in conto di ridicole caricature quell’abbigliamento preso a prestanza per una metà dal dottor Tartaglia, per l’altra da una damina qualunque; ma quando ebbi a pagare l’immenso diletto di una bella giornata, passata sui ghiacci dell’Engadina, con tre o quattro giorni di semireclusione, perchè mi trovai, se non cieco, almeno ricotto, con tale un viso da beone da far paura; quand’ebbi a vedermi cadere brano a brano la cute dalle guancie enfiate, quasi fossi un lebbroso; non dimenticai nè dimenticherò più al certo nè il velo nè gli occhiali. Un soverchio continuato bagliore accieca, come un immoderato frastuono assorda. Così avviene d’ogni organo sottomesso a sensazioni o troppo forti, o troppo prolungate. I nervi, oscillando violentemente, si [p. 67 modifica]stancano, come uomo che da troppo lungo cammino è costretto alla immobilità. L’azione poi che i ghiacci e le nevi esercitano sulla epidermide, non è forse ancora bene spiegata. Certo coll’influenza della luce riflessa congiura quella dell’aria vibrata, secca, tagliente delle Alpi. Non si fa un viaggio nelle Alpi senza lasciarvi (non per metafora, ma in senso letterale) la pelle. Sui ghiacciai ci si lasciano anche gli occhi. Per buona sorte quella cecità è affatto temporanea, di qualche ora o tutt’al più di qualche giorno, ed uno strato di epidermide è presto sostituito da un altro.... Ma ora risolviamoci a visitare partitamente il ghiacciajo, cominciando dalla porta».

«Di che? del ghiacciajo?» domandò meravigliato il Peppino.

«Sì, del ghiacciajo».

8. «I ghiacciai han dunque proprio le porte?...» soggiunse Peppino.

«Cioè.... mi spiego.... Quella massa di ghiaccio, appena che la temperatura esterna sia superiore a zero, disgela. Principalmente nelle giornate estive, quando il sole vi cuoce le cervella anche sulle cime delle Alpi, il ghiaccio si strugge rapidamente; l’acqua scorre sulla superficie, cola dai fianchi del ghiacciajo, ne penetra la massa che è assai porosa, tutta screpolata, percorsa da larghe fessure, da canali ramificati, e finisce col raccogliersi sul fondo della valle che serve anche di letto al ghiacciajo. Ne risulta un torrente più o meno voluminoso, che scorrendo per disotto al ghiacciajo, vien naturalmente a sbucare alla estremità inferiore di esso. Così la valle è occupata da due fiumi; l’uno di ghiaccio, sodo e lentissimo al disopra, l’altro d’acqua scorrevole, velocissimo al disotto. Quel superfluo di calore, che può mantenere l’acqua riscaldata da’ cocenti raggi del sole, benchè abbia corso sopra un letto di ghiaccio, agisce anche al disotto sul ghiaccio e lo scioglie. Perciò il torrente sbocca d’ordinario da una lunga galleria di ghiaccio, che si apre al di fuori in forma di vera caverna di ghiaccio, quasi un antro di puro cristallo, a riflessi azzurrini, con tinte e sfumature sorprendenti, talora così vasto, così bizzarro, da costituire da sè solo la parte più interessante o almeno più pittoresca del ghiacciajo. Sono queste le anfore, donde versano le linfe i fiumi, come li scolpivano gli antichi sotto le sembianze di vegli canuti, e come li vedete sotto le stesse sembianze assisi sull’Arco del Sempione. Sono queste le origini brillanti del Rodano, dell’Inn, dell’Aar, del Reno, in generale di tutti i grandi fiumi che, dopo aver [p. 68 modifica]travolte le loro spume biancheggianti di giogo in giogo, scendendo dalle Alpi, scorrono maestosi a nutrire l’eterna fecondità del piano. Avete inteso che cos’è la porta del ghiacciajo? Quello del Forno vantava la sua fra le più stupende, ed è assai probabile che alla forma ed alla profondità della porta debba appunto il poetico nome di Forno. Ma ( credo sulla fine del settembre dell’anno precedente alla mia gita ) nella più profonda oscurità della notte, uno spaventoso scroscio echeggiò nella valle. La volta di ghiaccio si era sfondata. I suoi ruderi, rappresentati da enormi masse di ghiaccio, venivano travolti dal torrente. Accavallandosi l’uno sull’altro, o incastonandosi nell’angusta gola in cui si getta il Frodolfo al suo sbucar dal ghiacciajo, lo forzavano a rifluire sopra se stesso, finchè fosse gonfio abbastanza per forzare, abbattere e giù travolgere quelle sbarre improvvisate. Il piano di Santa Caterina venne, benchè senza molto danno, inondato; e i beventi, levatisi a mane, videro estatici il piano tutto sparso di massi di ghiaccio. Il più allegro in questa occasione fu l’oste, il quale non tardò ad approfittarsi di quella grazia di Dio per rifornire con poca spesa le esauste ghiacciaje. Ma il ghiacciajo del Forno aveva perduto il suo principale ornamento. Quando lo visitai nel 1864, nuove rovine l’avevano ancor più danneggiato. La curva di quella volta meravigliosa disegnavasi ancora entro la massa; ma il fiume sgorgava tra le macerie cristalline di quella specie di palazzo di cristallo. Non temete però; quando voi andrete a visitare il ghiacciajo del Forno, forse esso avrà riparate le sue rovine; forse si sarà fabbricato una nuova porta, anzi un nuovo arco di trionfo più bello del primo5.

9. » Per avanzarci sul ghiacciajo dovemmo scavalcare la morena frontale....».

«Che cosa? la morena frontale? che affare è mai questo?» domandava più d’uno.

«Ecco un nuovo incaglio! Mi spiccierò anche qui in poche parole.

» Dai monti che sovrastano al ghiacciajo continuamente si spiccano e massi, e frane, e sfasciume d’ogni sorta. Il tutto si arresta naturalmente sui lembi laterali dello stesso ghiacciajo. Per [p. 69 modifica]certe leggi, che sarebbe troppo lungo spiegare, quei cumuli di detrito si accrescono da monte a valle; cioè mano mano che vengono in giù col ghiacciajo, ed attingono il loro massimo sviluppo nella parte estrema del ghiacciajo stesso, di cui ricingono i fianchi e la fronte. Così nascono certe colline lineari di massi e di fango che diconsi morene, e dal luogo che occupano morene laterali, morene frontali, ecc. Se due ghiacciai confluiscono, la morena laterale destra dell’uno si tocca e si fonde colla morena laterale sinistra dell’altro, e ne risulta una morena mediana. Il ghiacciajo del Forno vanta un magnifico e regolarissimo sistema di morene, compresavi una poderosa morena mediana per cui il ghiacciajo è come diviso in due per il lungo, mediante una collina di massi, di ciottoli, di fango, di tritume d’ogni specie.

10. » Scavalcata adunque la morena frontale, camminiamo sul ghiaccio, sul nudo ghiaccio, bianco, poroso, scabro. Dapprincipio il ghiacciajo presenta un piano inclinato facile e unito, dove si cammina così bene e con egual sicurezza come sul lastricato del corso di porta Venezia. Ma ben presto la superficie offre mille curiosi accidenti, e si comincia a gustare ciò che è veramente un ghiacciajo. Se da lungi questo non vi sembrava che una grossa nevicata; ora vi credete in un piccolo mondo nuovo, sopra una terra di cristallo, che ha anch’essa i suoi monti, le sue valli, i suoi piani, i suoi burroni, i suoi fiumi, i suoi laghi. Mille limpidi ruscelli serpeggiano nei vitrei letti, e insieme confluendo, danno vita a torrentelli che o si versano sui fianchi del ghiacciajo, o vi sfuggono d’improvviso, precipitandosi entro angusti pozzi di ignota profondità da loro stessi scavati nelle viscere del ghiaccio. Talora l’acqua stagna entro piccoli bacini di forma elittica. Son essi bacini che, rappresi dal gelo notturno, per effetto della cristallizzazione, disegnano una rosa di terso cristallo entro l’informe massa del ghiaccio. Poderosi massi veggonsi a perpendicolo sovra piramidi di ghiaccio. Meravigliosi sovra ogni altro accidente del ghiacciajo sono gli enormi crepacci che ne lacerano i fianchi. Spesso vi credete di camminare in piena sicurtà sul piano gelato, e vi trovate d’improvviso sull’orlo di un abisso. Una fessura stretta, lunga, profonda, minaccia inghiottirvi. Appuntando ben fermo un piede davanti e l’altro indietro, appoggiati al bastone conficcato ben saldo nel ghiaccio, voi sporgete il capo sull’abisso, e vi ficcate lo sguardo pauroso. Che meraviglia è un abisso di cristallo. Il ghiaccio, bianco sugli orli, assume più basso una vaghissima tinta verdiccia e cilestrina, che [p. 70 modifica]cresce gradatamente dal cilestro all’azzurro, dall’azzurro all’indaco, dall’indaco al nero, e tutto si perde nelle tenebre che riempiono il fondo dell’abisso.

11. » Quelle fessure, profonde talvolta centinaja di piedi, sono, come dissi, veri crepacci. Il ghiaccio squilibrandosi ne’suoi movimenti, è vinto talora dall’enorme tensione, e si spezza. Trovavami un giorno, solo colla mia guida, sul ghiacciajo del Roseg, uno dei grandi ghiacciai del gruppo della Bernina. Il silenzio di quei deserti, assai più profondo del silenzio delle foreste, non era interrotto che dal fischio delle marmotte, che numerosissime scavano le loro tane sulle sponde del ghiacciajo, e dal fragore lontano dei torrentelli, che si precipitano negli abissi. D’improvviso un orribile scroscio mi rintrona l’orecchio, e una leggera scossa mi passa colla rapidità del baleno sotto i piedi, quasi un’oscillazione di terremoto. Credetti che tutto il ghiacciajo si sfondasse d’un tratto.... Al mio sguardo spaventato rispose uno scoppio di risa della mia guida. Tutto quel fracasso non era che una crepatura, la quale si era aperta nel ghiacciajo, chi sa in qual parte».

«Che paura!» saltò a dire l’Antonio che, a sentirlo, sfiderebbe il mondo intero. «Che paura! E se il ghiacciajo si fosse squarciato proprio là dov’eri tu?».

«Mi avrebbe inghiottito senza scampo quando fosse stata larga abbastanza. Ma via: non aver paura. Per quelle fessure non passerebbe un foglio di carta. Si allargano poi, ma lentamente, insensibilmente, e ci vogliono dei mesi, forse degli anni perchè una crepatura diventi un crepaccio e un crepaccio una voragine».

«Eppure», soggiunse una delle mamme, «ho letto che quei crepacci sono pericolosissimi».

«È vero», risposi. «Mi ricordo anzi che in quello stesso anno in cui percorreva i ghiacciai dell’Engadina, una giovine guida, scostatasi imprudentemente dalla brigata che discendeva dal monte Bianco, scomparve, sprofondandosi entro un profondo crepaccio. Il pericolo maggiore per chi si arrischia sui ghiacciai, sta appunto in questi crepacci sopratutto quando (come spesso avviene anche nella calda stagione ) quegli abissi sono mascherati dalla neve caduta di fresco, che agglutinandosi, è capace di gettarsi sospesa a guisa di ponte sul vano di quelle voragini. Ma è allora appunto che i prudenti impiegano tutte le precauzioni per non cadere in quegli spaventevoli trabocchelli come fu il caso dello sgraziato giovane. Sarebbe inescusabile [p. 71 modifica]imprudenza l’avventurarsi senza guida sul ghiacciajo: ma con una buona guida ogni pericolo cessa, e nulla v’ha di più sicuro, di più piacevole che il percorrere i ghiacciai. Quel giovine fu imprudente; e vi ho già concesso che un’imprudenza sulle Alpi può costare la vita.

12. » Mentre i miei compagni, nuovi per la maggior parte allo spettacolo di un ghiacciajo, non rifinivano dall’ammirarne le bellezze, e dall’osservarne i più minuti particolari, io preparava oro una sorpresa. Chino, anzi carpone sul ghiaccio andava attentamente spiandone le sinuosità, rivoltando ad uno ad uno i sassi che vi si erano più o meno affondati per effetto del sole cocente che li riscaldava.

— Che fai tu li? — mi gridarono essi. — Cerco le pulci. — Risero di questa mia uscita, come di un lazzo senza senso. Ma, eccole, eccole! — soggiunsi tosto. — Che cosa? — Le pulci. Chi vuol vederle non ha che a chinarsi.... — E giù tutti chini a guardare. Levai cheto cheto dal ghiaccio un ciottolo che vi lasciò naturalmente un’impronta incavata la quale mostrossi immantinente convertita in un pozzetto limpidissimo d’acqua. Sull’acqua galleggiava una macchia nera, quasi una piccola nube. Accostandole un dito, eccola immediatamente scomporsi a guisa (mi si perdoni se, per riguardo a quanto v’ha di più piccolo, piglio il paragone da quanto v’ha di più grande) a guisa d’una nubilosa, che sotto il telescopio si risolva in una miriade di stelle. Quella nubecola nera, si era scomposta in tanti punti neri, e quei punti guizzavano, saltavano, slanciandosi in tutte le direzioni, come scintille che si sprigionano da un razzo».

«I ghiacciai han dunque proprio le pulci?» domandarono i nipotini.

«Proprio delle pulci.... Hanno cioè degli insetti piccolissimi, appartenenti a quella numerosissima classe di insetti senz’ali che comprende anche le pulci. Le pulci del ghiacciajo si assomigliano assai alle nostre per la piccolezza, per la vivacità e per l’agilità nel salto. Del resto la loro struttura è molto differente da quella delle pulci, e soprattutto differente è il loro carattere; chè quegli innocenti insettuzzi del ghiacciajo se l’avrebbero a male quando si sapessero confusi, sotto lo stesso nome, con quell’altra razza di cannibali di nostra conoscenza. La pulce del ghiacciajo è detta dai zoologi Desoria glacialis; appartiene cioè al genere Desoria, stabilito dal celebre Agassiz in onore del non meno celebre Desor, amendue naturalisti svizzeri, autori di opere di gran pregio, fra le quali si distinguono gli Studî sui ghiacciai. [p. 72 modifica]

» Bisogna vedere quelle vivaci bestioline, quando il sole di giugno trasforma il ghiacciajo in una montagna di diamanti che si struggono in vivi ruscelli. Guizzano allora nei limpidi pozzetti, saltellano come spiritelli sul ghiaccio, ebbri di una vita che fa un contrasto così singolare col morto elemento che loro è assegnato dalla natura. Oh il sole! egli è veramente l’imagine di Dio. Quanta vita riversa il sole anche in quegli ermi recessi delle Alpi, anche tra i sempiterni squallori dei poli! Con quanta ebbrezza saluterà il Lappone il primo raggio del sole che ritorna dopo più mesi di una notte non mai interrotta!».

«Ma quelle pulci», chiese la Marietta, «come vivono d’inverno quando tutta dev’essere gelata la superficie del ghiacciajo per mesi e mesi?».

«Eh» rispos’io, «passeranno l’inverno dormendo nel ghiac ciajo come le marmotte che vi dormono sulle sponde. Dico così per un supposto; poichè non so che finora nessuno si sia pigliato lo spasso di cercar le pulci sui ghiacciai, durante l’inverno. Ma se il raggio del sole estivo trova ogni anno si numerosa gente che lo saluta giubilando in quei regni di morte, bisogna pur dire che essa trovi modo di passarvi l’inverno allo stato di uovo o di larva, o d’insetto, sul ghiaccio o dentro il ghiaccio».

«Dentro il ghiaccio?... come è possibile?» soggiunse Marietta.

«E perchè no? Ve ne dirò una bella che non l’avrei creduta se non la fosse capitata per l’appunto a me stesso.

13. » Dando una volta lezioni di zoologia durante l’inverno, teneva pronto in un vaso un certo numero di rane, vittime più ordinarie della scienza, che ebbero nell’invenzione della pila e quindi del telegrafo quel merito stesso che le oche nella salvezza del Campidoglio. Faceva un freddo terribile, sicchè una mattina i miei scolari mi mostrarono il vaso impietositi da lagrimevole evento. Le povere rane in un gruppo, formando un sol pezzo di durissimo ghiaccio con quel pochino di acqua che copriva il fondo del vaso, facevano la figura dei traditori nella Giudecca, creazione terribile della fantasia di Dante. Passarono alcuni giorni, nè io pensavo più nè al vaso nè alle poveracce divenute inservibili. Ma intanto il freddo era scemato, il ghiaccio disciolto, e le rane?... Le trovai che saltavano più vive di prima. Tornando però alle pulci del ghiacciajo, io penso che esse passino l’inverno impigliate nel ghiaccio allo stato di uova, come moltissimi insetti, come per esempio, il baco da seta, sbocciando poi la state, quando il sole discioglie la superficie del ghiacciajo». [p. 73 modifica]

«È una cosa pur meravigliosa», osservò una delle mamme «il vedere come la vita sia sparsa nell’universo; se il ghiaccio stesso è popolato da miriadi di viventi!».

14. «Infatti», continuai io la scoperta della Desoria glacialis eccitò molto interesse, e risvegliò la curiosità dei viaggiatori, e soprattutto delle viaggiatrici alpine. Mi narrava lo stesso signor Desor come, durante il suo lungo soggiorno sui ghiacciai, gli bisognava tenersi sempre provvisto di una boccetta, con entro imprigionate le povere pulci, per soddisfare alla insistente curiosità dei visitatori. Desor, e i suoi compagni, avevano costrutto sul ghiacciajo dell’Aar, se ben mi ricordo, una capanna per dimorarvi settimane e mesi a studiarne i movimenti, sfidando le nevi e i turbini delle Alpi. Quanti visitavano il ghiacciajo nella bella stagione avevano due nuove meraviglie da vedere: l’albergo dei Neusciatelest6 e le pulci del ghiacciajo. Era ben giusto che il domatore delle feroci belve facesse pagare la porta, e il signor Desor che è altrettanto valente scienziato quanto uomo gajo e piacevole, aveva inventato una tassa di nuovo genere. Capitava, supponiamo, una signora inglese, smaniosa di vedere le famose pulci?... Profferire l’ignominioso nome?... bah!... per una mistress7 era impossibile! tutta la dignità del sesso, fors’anche la dignità nazionale, erano spacciate. Come si fa?...

— Si potrebbero vedere, — cominciava la signora — quelle bestie che abitano il ghiacciajo? —

— Forse gli orsi? — rispondeva Desor facendo il trasognato.

— O no, — ripigliava la signora un po’ indispettita d’esser così fraintesa: — quelle bestie che saltano.... —

— Ah, ah, — soggiungeva Desor, — i camosci.... —

— No, no.... quelle bestioline piccoline, piccoline.... — e la voce della signora si assottigliava sempre più a misura che si succedevano quei diminutivi.

— Ah, ho capito; le lepri: — continuava l’inesorabile Desor.

La signora faceva un ultimo sforzo: — No, no, quei piccolissimi insetti che.... —

— Ah, le pulci, — gridava Desor quasi uomo irritato con se stesso di non aver capito alla prima. La signora arrossiva.... la porta era pagata.... spalancato il serraglio delle belve, e.... compariva la meravigliosa boccetta. Vedete mo! dove va talora a cacciarsi il pudore....». [p. 74 modifica]

Risero i bambini, ma di miglior cuore risero le mamme.

«Le signore inglesi», cominciava l’una di esse....

«Sì, sì, interrompeva un’altra «leggete il Baretti, interrogate quanti ritornano da Londra....».

M’accorsi che l’argomento era stuzzicante; ma con una crollatina di spalle, ruppi quegli esordî di maldicenza internazionale, e, ripigliando io solo tutto il diritto di novelliere, continuai:

15. «Era nostra intenzione di spingerci fino alle origini del ghiacciajo, cioè fin là dove il ghiaccio dà luogo al nevischio, ossia alla neve ghiacciata, la quale poi, sempre ascendendo, lascia il campo alla neve farinosa costituente le vere nevi perpetue. Ma il tempo, già nebbioso, continuava a caricarsi. In breve ci fu sopra la pioggia. Riguadagnammo allora a marcia forzata il lembo del ghiacciajo cercando riparo in un piccolo gruppo di capanne che gli sta di fronte sul pendio.

» Quì una specie di consiglio di guerra, il cui risultato fu che alcuni della comitiva ritornassero allo Stabilimento, mentre gli altri avrebbero passata la notte in quelle capanne per essere pronti la mattina di buon’ora al passaggio dello Zebrù, sempre inteso che il tempo si volgesse propizio. Con sommo dispiacere reciproco partirono il dottore, che non avrebbe abbandonato lo Stabilimento anche per una sola notte per tutto l’oro del mondo, e il professore di storia che aveva fatto già troppo, sacrificando alla compagnia un giorno di cura. I rimasti non pensarono per allora che ad acquartierarsi nel miglior modo possibile.

» Non avete voi mai passata una notte in montagna, nella capanna di un pastore, in faccia ad un ghiacciajo, a più di 2000 metri sopra il livello del mare? V’assicuro che ne riportereste una di quelle vive e piacevoli impressioni che non si cancellano più. Perchè della dimora in un’alpina capanna, dove pure è inevitabile compagno il disagio, si serba memoria più viva e più lieta, che della visita ad una reggia, sicchè si ritornerà mille volte a parlare di quella, mentre di questa dureremo fatica a parlar la seconda? Io penso che il segreto non stia tutto nel sentimento della natura così parlante in quei luoghi, o nella novità e nella bizzarria della situazione. Qualche cosa di morale ci si immischia certamente. Quella povertà che non è indigenza, quella cordialità non mentita, quella onestà non calcolata, quell’innocenza libera eppur sicura, quella virtù, infine di cui, se non rotto, è però guasto lo stampo entro le mura di una città, mentre si trovano nella loro verginità primitiva in seno ai monti, sono [p. 75 modifica]cose che ci si rivelano senza quasi che ce ne avvediamo, e sono feconde di purissimi diletti.

» La capanna, o, come la chiamano colà, la bàita ove pigliammo alloggio, non si differenzia per nulla dalle mille che si trovano sparse sulle alture di Lombardia. Un largo quadrato, con un po’ di muratura alla base; il resto costrutto con tronchi d’abeti. Una tettoja di tavole di cui l’uno e l’altro piovente quasi toccano a terra. L’interno è diviso in due scompartimenti; il primo, suddiviso da una tramezza, che lascia sull’ingresso una specie di pianerottolo, ove si accende il fuoco per gli usi domestici, ma specialmente per coagularvi il latte, come lo attesta il pentolone pendente da un braccio di leva, imperniato nel suolo da una parte e nella muraglia, mediante un anello, dall’altra. Il resto di quel primo scompartimento serve di fienile. Il secondo, assai più vasto, serve di cucina, di salle à manger, di sala di ricevimento, di camera da letto; è insomma l’appartamento della famiglia; se vuolsi, della tribù. Il fuoco si accende nel bel mezzo della camera».

«Ma il fumo?...» disse la Biggia.

«Eh il fumo.... il fumo vi è libero come l’aria; quindi, come l’aria, riempie tutti i vacui dell’appartamento; come l’aria s’insinua per la bocca e per le narici nei polmoni; ma più villano dell’aria, move agli occhi atrocissimi assalti. Per buona sorte il fumo, come più leggero dell’aria, tende a levarsi in alto, ed a fuggire dalle fessure di cui a dovizie sono forniti il tetto e le pareti; quindi rimane pur sempre fino a breve altezza dal suolo uno strato d’aria più respirabile. Seduti in terra o sui nani sgabelli, potevam quindi godere liberamente della scena che ci si svolgeva davanti. Un pentolone era al fuoco, e vi bolliva una specie di caos che doveva poscia convertirsi in una zuppa per la famiglia. In una pentola accanto al pentolone si cullava una gallina che, poveretta! tranquillamente invecchiata sulle Alpi, non si aspettava al certo d’esser vittima dell’appetito di gente barbara venuta dal piano.

16. » La pioggia aveva radunata anzi tempo tutta la tribù. Al chiaror delle fiamme, e di mezzo alla nube vorticosa di fumo, come si dipingono le divinità dell’Olimpo, svolgevansi ad una ad una le interessanti figure di quei montanari, che, in diverse positure distribuiti nei diversi angoli, ci contemplavano silenziosi, con quel l’aria di benessere, di curiosità discreta e di franco riserbo, che distingue il montanaro vivace e intelligente dai contadini tardi, [p. 76 modifica]ottusi e ammalaticci delle nostre basse. Appoggiato il gomito a rozza tavola, e la testa al destro palmo, sedeva il capo di casa; un uomo cosperso appena della prima canizie, ma con tutto il vigore della virilità dipinto sul viso. La moglie, intesa ad ammannirci la cena, sembrava più vecchia del marito benchè certo nol fosse. Le donne in montagna sono troppo spesso sottoposte a lavori sproporzionati alle forze del loro sesso; in troppi luoghi, lo dirò chiaramente, ho visto la donna sostituita alla bestia da soma; è uno spettacolo che mi ha sempre rattristato nelle mie gite in montagna; la giovinezza è quindi assai breve, benchè forse non sia perciò minore la longevità. Mi rimarrà sempre profondamente scolpito nella memoria un incontro che ebbi alcuni anni or sono. Colla mia valigia da geologo sulle spalle, e col mio martello alla cintola, viaggiava, seguendo il disastroso sentiero che dalla Val-Brembana mette nella Val-Torta. Curva sul suo bastoncello, ed appoggiata coll’altra mano ad un masso, mi si affacciò una vecchia, la più vecchia ch’io vedessi mai, con tali segni di decrepitezza sulla faccia spenta, da sembrarmi impossibile che la vita alitasse ancora in quel corpo disfatto. Un non legger carico di carbone pesava sulle spalle di quella povera creatura, che, movendosi per camminare, sospirosa, ansante, puntava avanti con una mano il bastone, coll’altra si atteneva agli scogli che fiancheggiavano la via.... Era uno spettacolo di pietà!

— Santo Dio! — le dissi; — perchè fate ancora codesta vita? —

— Che farci — mi rispose: — non ho più nessuno; proprio nessuno! un po’ di carità me la fanno, e un po’ cerco di guadagnarmelo, fin che posso. —

» Partendo dal suo paesello portava un sol carico al giorno ad un luogo, dove poteva il carbone caricarsi sui carri. Il luogo non era discosto che un’ora all’incirca; ma l’intiera giornata era impiegata dalla vecchia nell’improbo lavoro. Che ne dite miei cari? quale lezione per tante signore che invecchiano nella mollezza e nell’ozio, che non si curvano nemmeno per raccogliere la pezzuolina ricamata che sia per avventura caduta ai piedi della morbida sedia a bracciuoli!... E non ci dovrà essere un pochino di bilancio di partite al di là od al dissù di questo basso mondo!... Ma torniamo ai nostri ospiti. Un giovinotto di forse vent’anni, di forme assai robuste, sedeva accosciato in terra in un angolo, con un certo fare noncurante che non accennava a sprezzo ma a spirito indipendente. Era il maggiore della casa, la speranza del padre e l’ambizione della mamma. Ritto davanti al focolare un [p. 77 modifica]pacchierotto di forse dieci anni, tondo e pacifico, colle mani in tasca, teneva d’occhio il pentolone. La macchietta più viva del quadro era una bambina di circa nove anni; capelli biondi, finissimi, liberi di subire tutti gli impulsi di una testolina che non stava mai ferma un attimo; due occhietti splendidi come stelle, realizzazione anch’essi del moto perpetuo; due guancie paffutelle, sode come il marmo e tinte di rosso, ma non di quel rosso incarnatino, pallido, morbido, che scompare ad ogni alito sulle guance delle nostre bambine profilate; ma un rosso vivido, ruvidetto, tra il carmino e il minio. Per una strana antinomia la bambina si chiamava Prudenza. Ritrosa e selvatichetta dapprima, era in brevi istanti passata alla massima dimestichezza, e non v’era mattezza a cui venisse meno. Non così la sorella maggiore, ritta e contegnosa nell’angolo più riposto, della quale vi risparmierò la descrizione, dicendovi soltanto che, salvo la vivacità, era il megascopio della minore. Non vi dirò di altre persone, o famigli, od ospiti, o parenti, che formavano come il fondo del quadro. La sera fu lieta; la cena deliziosa; la conversazione piacevole. Le meraviglie della città, le ferrovie, un po’ di politica, ecc..., erano i temi a cui quella buona gente pigliava maggior interesse».

» Intanto la notte era discesa nera, profonda; il fuoco s’era ridotto ad alcuni stizzi fumanti; la conversazione languiva, Morfeo8, assai precoce in montagna, ripigliava i suoi diritti, e la camera rimaneva deserta, mano mano che si popolava il fienile. Noi fummo naturalmente fra i pochi privilegiati a cui si serbavano gli scarsi pagliericci che coprivano il fondo di tre fusti o, per vero dire, di tre cassoni. Pigliai anch’io una limitatissima porzione di uno di essi, dove se, dopo prove e riprove, non mi addormentai, almeno riuscii a compormi in tale stato che era molto simile al dormire».

«Allora», si fece a dire la più severa delle mamme quasi continuasse lei la narrazione, «allora anche noi anderemo a casa a dormire».

«L’intimazione naturalmente era fatta ai ragazzi che risposero in coro, con quel contorcere di viso e di spalle tra il lagno e la preghiera, che è proprio dei bambini avvezzi ad ubbidire, ma che spesso ne farebbero a meno. Ma io, per tagliar corto, dissi: «buona notte!» e mi levai in cerca del mio cappello».


Note

  1. Vedi la veduta del ghiacciajo del Forno nella tavola che serve di frontispizio. Essa è eseguita sopra un disegno preso dal vero, dal pittore signor Carlo Allegri di Venezia.
  2. A Bormio suole indicarsi ai viaggiatori un bel getto d’acqua che si slancia immediatamente per un foro dalle viscere della montagna, e che precipita a cascata nella valle a circa mezz’ora sopra i Bagni Vecchi, seguendo la via dello Stelvio. L’Adda invece scaturisce da certi laghetti in fondo alla Valle di Fraele, quattro ore circa a nord-ovest di Bormio. Precorsa questa valle, un po’ prima di raccogliere il getto descritto si unisce alla Val-Braulio, poi riceve a destra la Val-Viola a Premadio, quindi a sinistra sotto Bormio il Frodolfo.
  3. Nella mitologia Esculapio è il dio della medicina.
  4. Vedi la nota a pagina 35.
  5. L’augurio non valse. Il ghiacciajo del Forno andò sempre peggiorando e perdendo terreno in questi ultimi anni, che segnano un periodo di regresso universale dei ghiacciai alpini. Esso diè luogo però ad altri fenomeni interessantissimi per la scienza, ch’io descrissi nell’opera Geologia d’Italia, vol. II, che fa parte della grande pubblicazione L’Italia, edita dal Vallardi.
  6. Desor è professore di geologia a Neuchâtel.
  7. Pronunciate missis, che in inglese vuol dire signora.
  8. Dio del sonno nella mitologia.