Il bel paese (1876)/Serata XIII. - Da Milano a Tocco

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Serata XIII. - Da Milano a Tocco

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Serata XIII. - Da Milano a Tocco
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SERATA XIII


Da Milano a Tocco.

Reminiscenze del brigantaggio, 1. — Il cornetto acustico, 2. — Dintorni di Tocco, 3. — L’agricoltura nell’Italia meridionale, 4. — Topografia di Tocco, 5. — Il travertino e le ulivete, 6. — Ospitalità toccolana, 7. — Fogge toccolane, 8. — Il cent’erbe, 9. — Un poeta ciabattino, 10.


1. Il giovedì seguente eccomi di nuovo circondato dal mio piccolo uditorio. Il tema stavolta era obbligato, anzi, così fecondo, che ho dovuto penare più che altro a mantenermi entro limiti ragionevoli.

«Vi ho dunque promesso di raccontarvi qualche cosa dei petroli e delle altre manifestazioni dell’attività interna del globo, che s’incontrano in Italia. Sono tanti, come vi dissi, i luoghi dove si mostrano quei fenomeni, che non saprei da qual punto pigliare le mosse. Basta.... comincerò da una escursione ch’io feci a Tocco nel 1864. Sapete voi dov’è Tocco?...» Il silenzio fu una risposta più che chiara di diniego universale. «Ebbene, Tocco [p. 222 modifica]è una grossa borgata dell’Abruzzo citeriore, posta nelle valli in terne, alle falde della maggiore catena degli Apennini, sul versante1 adriatico. Supponiamo che partiste meco da Milano sulla ferrovia. Attraversati i piani ubertosi della Lombardia, quindi le pianure non meno ricche del Parmigiano e del Modenese, toccata Bologna e guadagnate le sponde dell’Adriatico verso Ancona, scorrendo quasi sempre lungo il lido, sulle scarse arene, chiuse tra le spume del mare a sinistra e il vario pendio dei colli subapennini a destra, sarete presto a Pescara, città abbastanza importante, e piccolo porto di mare sull’Adriatico. Alcuni anni or sono gli era un gran viaggio; oggi gli è un volo d’uccello.

» Io era infatti partito da Milano con alcuni amici, vicentini i più. Ricorderò specialmente il signor Maurizio Laschi di Vicenza, e il bravo dottor Beggiato, pur di Vicenza, che, oltre all’esser medico valente, è scienziato di vasta dottrina, versato principalmente in botanica e in geologia. C’era inoltre il signor Vi tale C.... incaricato della parte economica della spedizione e so pratutto della provianda, uomo di carattere piacevolissimo: poi un ingegnere vicentino; finalmente Nani, una figura magra, lunga, ma nerboruta, un bel tipo di capo — minatore, chè tale era appunto la sua professione a Vicenza. Trattavasi, come vedete, di una spedizione scientifico — industriale. Motivo del viaggio era la verificazione e lo studio di una sorgente di petrolio che sapevasi scoperta a Tocco. Fino a Pescara tutto andò a vapore. Pigliate l’espressione tanto nel senso letterale, quanto nel metaforico. Appena potevamo accorgerci di allontanarci da città e da paesi, ove tutto è progresso, comodo e civiltà, per avvicinarci a città, a paesi, che ricordano un pochino un’età trascorsa da lungo tempo per quasi tutta l’Europa. A Pescara però ci accorgemmo ben tosto di trovarci in quei paesi meridionali, di cui uno dei nostri che ritorni ha sempre tante meraviglie da raccontare, come venisse allora allora dalle Indie o dalla Siberia. Ci convenne rinunciare a quei comodi mezzi di trasporto, a cui siamo ormai troppo avvezzi, e pigliarci una vettura, la quale ci richiamava i bei tempi (e non sono poi tanto lontani ) in cui chi veniva, supponiamo, da Como o da Lecco a Milano, prima di partire [p. 223 modifica]accomodava per bene le sue cose con Dio, e faceva testamento. Così ci convenne volgere le spalle al mare, e in balia di un vetturale, che sarà stato un santo, ma aveva la faccia più brigantesca che mai, seguire a ritroso la valle del Pescara che dà nome alla città lasciata alle spalle, pigliando la via che per di là conduce a Popoli, e quindi, per Sulmona, Isernia e Venafro, a Napoli. Sono nomi codesti che, se fossimo un pochino più battaglieri, ci farebbero correre istintivamente la mano in cerca del revolver2. Nei primi anni della nostra libertà (pochi di voi appena se ne ricorderanno), quando nelle pagine dei giornali non mancava mai la cronaca luttuosa del brigantaggio, quei nomi, che io ho proferiti, vi figuravano sovente, e sonavano rischio e paura. Ringraziamo Dio che ormai la cronaca del brigantaggio appartiene al passato. Allora era un triste presente: e capirete come l’animo non si sentisse tranquillo nel seguire la via di quella valle solitaria, che ci avvicinava a luoghi tanto allora temuti. La prima cosa che avevam vista, per dirne una, alla stazione di Pescara, era stato un miserabile convoglio di poveracci, non so se briganti, ladri, accattoni, o vagabondi, ammanettati, e sotto buona scorta di carabinieri. Spettacolo triste, miei cari!...

» Mi aveva fatto profonda impressione un ragazzo, accosciato in terra come una bestiolina, e intento a biascicare lentamente una fetta di pane con quell’aria stupida che ha qualche cosa di più ferino della rabbia. Egli non sapeva nè il suo nome, nè il nome de’ suoi genitori, nè quello del suo paese, nulla: è molto se sapeva d’esser vivo. I carabinieri l’avevan preso come l’accalappiacani s’impadronisce di un cane smarrito. Era proprio, poveretto! figliuolo di nessuno.... E badate, non era idiota, e poteva avere dodici o tredici anni».

«Non sapeva il suo nome!...» ripigliò la Chiarina, che, dal viso pensoso e rannuvolato, si vedeva comossa da qualche particolare della mia narrazione. «Non sapeva il suo nome! Come è possibile? un nome, quel poverino, bisogna che pur l’avesse. Io non comprendo».

«Tu non comprendi.... capisco.... non puoi comprendere. E quante umane miserie non comprenderesti, che pur son vere.... [p. 224 modifica]troppo vere! Comprese mai bene il ricco che cosa sono le angosce del povero?... Dimmi, Chiarina, quand’è che tu sapesti il tuo nome?». La fanciulla mi guardò cogli occhi attoniti, come chi meraviglia della domanda, eppur sente di non poter rispondere. «Il tuo nome», continuai «non l’apprendesti al certo quando il padre tuo lo suggeri per la prima volta al prete, che ti battezzò Chiarina. Ma il babbo, la mamma, i fratelli, le sorelle, cominciarono da quel momento a chiamarti Chiarina; e mille volte al giorno dalla tua culla udivi quel nome, e ogni volta con quel nome un sorriso che incontrava il tuo sguardo, una carezza sulla tua guancia, un bacio sulle tue labbra. E tu apprendesti in quel nome a riconoscere te stessa, a rispondere baci, carezze, sorrisi. Quel poveretto invece, forse abbandonato vagente sul crocicchio di una via, non ebbe mai a cui rivolgere i cari nomi di babbo e mamma. Chi non ha genitori, non ha fratelli, non ha sorelle, non parenti, non amici, non ha nessuno che lo chiami per nome. Domandi tu forse il nome al pezzente che ti chiede la carità? Forse il primo che domandò il nome a quel poverino, fu il carabiniere, perchè aveva bisogno di riempiere una casella nel rapporto, col quale consegnava all’Autorità il piccolo vagabondo. Di tali cose, e di peggiori, quante ne avrei a dire!... Chiarina.... non hai mai ringraziato Iddio di avere un nome?... ebbene, ringrazialo stasera. Quel poveretto non l’aveva....

2. » Guardimi il Cielo ch’io voglia con tutto ciò far torto a quelle buone popolazioni, e sopratutto agli ospitalissimi Toccolani, tra i quali dovevo soggiornare. Anzi le notizie che si avevano circa quel primo tronco di strada, erano assai rassicuranti: sicchè la paura oso appena far capolino tra le risa, i motti e gli allegri discorsi, che abbreviarono assai le noje di quel viaggio: nè ultimo argomento di facezie erano le premure del signor Vitale, che, seduto a cassetta a fianco di quel vetturale dalla faccia scomunicata, si credeva in dovere di fargli balenare sotto gli occhi di tratto in tratto il suo bel revolver; per ripulirlo.... s’intende.... per vedere s’era all’ordine.... Solo ci affliggeva che il buon dottor Beggiato dovesse appena sorridere quando noi ridevamo. Poveretto.... egli era sordo, profondamente sordo. Ma dolce essendo di cuore, paziente e nobile d’animo, non faceva mistero, vedete, della propria sordità, come molti hanno la debolezza di fare. Anzi, pensando piuttosto a rimediare al suo difetto che a celarlo, girava armato di un cornetto acustico di assai rispettabili dimensioni, esibendolo a chiunque volesse volgergli [p. 225 modifica]la parola, e facendone egli stesso soggetto di celia, come faceva l’Alfieri della sua parrucca.

«Che cos’è codesto cornetto acustico?» volle sapere Giannina.

«Il cornetto acustico è di metallo, e ha veramente la forma di una trombetta da postiglione, o meglio di un corno da caccia, essendo appena ricurvo. È insomma un semplice tubo, di forma conica, ricurvo, e aperto alle due estremità. Chi è duro d’orecchie ne introduce l’estremità più stretta, quì vedete?... proprio nel condotto auditivo. Chi poi dee parlare, aggiusta la bocca alla base, cioè all’estremità svasata del tubo, e parla. Per certe leggi dell’acustica, cioè della scienza de’ suoni, l’aria, che è in quantità maggiore dove il tubo è largo, si move, oscilla e urta l’aria interna, che è in minor quantità; e questa si move, oscilla alla sua volta, e tutti gli urti, tutte le oscillazioni finiscono su quel corpicino, e su quello straterello d’aria che sta nell’estremo forellino, al vertice del cornetto. Gli è come se un bambino venisse urtato da cento uomini che corrono: l’urto sarebbe così villano, che il poverino andrebbe a sfracellarsi contro il suolo senza misericordia. Così quel pochino d’aria, violentemente scosso, batte contro l’aria del condotto auditivo, e questa contro il timpano, quasi contro la pelle tesa di un cembalo. Tutto l’apparato interno dell’orecchio che, reso inerte dal male, non si sarebbe risentito di una scossa meno violenta, si desta a quell’urto poderoso: e il suo moto, trasmesso al cervello, è il suono; il suono compreso dall’intelligenza, è la parola, è l’idea.... Le son cose che capirete a suo tempo....».

«Così», riflettè Marietta, «quel povero signor dottore non poteva intendere i vostri discorsi, nè partecipare alla vostra allegria!...».

«Nulla davvero, o ben poco. Ma stà tranquilla, chè delle più grosse insulsaggini si facevano sempre due edizioni: una che svaporasse all’aria libera, l’altra condensata entro il cornetto del signor Beggiato, tanto che il viaggio fu allegro per tutti. E sì che non fu breve, poichè partiti da Pescara a mezza mattina, eravamo solo al tramonto in vista di Tocco.

3. » Un paese curioso, vedete. Non saprei dove trovarne uno uguale nelle nostre montagne, mentre potrei citarvene mille nel l’Italia meridionale. Imaginatevi un bacino, una specie di anfiteatro tra i monti. Lo sfondo è occupato dalla Majella, una delle maggiori montagne dell’Apennino: anzi non cede appena al Gran Sasso d’Italia il vanto della maggiore altezza. L’Apennino, che [p. 226 modifica]nell’Emilia, in Toscana, e nelle provincie romane è piuttosto un largo rigonfiamento di morbidi colli arrotondati a ridosso l’uno dell’altro, che non una catena di montagne a creste decise, assume più verso mezzodì, e specialmente nei due Abruzzi, il fare delle Alpi. Qui è una vera catena di monti irti e brulli, a vette spiccate, a profili taglienti, come nelle Prealpi e nelle Alpi. Quei monti sono così elevati, che per poco non s’incappucciano di nevi perpetue. Ma poichè la latitudine3 troppo meridionale non lo consente, si contentano di tenersi coperti di neve quasi tutta l’annata. Le due maggiori cime sono il Gran Sasso nell’Abruzzo ulteriore, che è anche il punto culminante dell’Apennino, ossia della penisola italiana, e la Majella, nell’Abruzzo citeriore4 che forma, come dicevo, lo sfondo dell’anfiteatro di Tocco. [p. 227 modifica]

» È un bacino poco ameno quello di Tocco: sparso di radi poderetti e di bassi vigneti, chiuso fra irte giogaje. Però, se la natura lo ha cinto di così severa cornice, i sudori dell’uomo potrebbero trasformarlo, almeno nelle parti basse, in un giardino. Così....».

4. «Non si coltivano i terreni laggiù?» chiese Giannina. «L’Italia meridionale non è tutta un giardino?».

«Ve ne sono dei belli e grandi, cui la natura sorride, e che l’arte infiora. Il territorio di Napoli, quello di Catania, alcuni distretti delle Puglie, e altri, sono veri giardini; ma non è dappertutto così. La coltura del suolo non è un fatto universale, come da noi. Un campo non coltivato, nei nostri paesi non si sa nemmeno che cosa sia. Questa bella pianura, così ben irrigata, che produce l’inverno, quasi quanto l’estate! Queste belle colline, così rivestite di vigne e di frutteti! e quando si arriva alle falde delle montagne, cui la natura fe’ ignude come gli scheletri, vediamo ancora l’agricoltura, che, quasi direbbesi, s’inerpica sulle rupi, e le riveste di zolle, portate a mano d’uomo, e vi crea vigneti, che par impossibile si reggano lassù per aria, su quelle ripidissime pendici senza esservi, direi quasi, inchiodati. Così non è laggiù. In una gran parte dell’Italia meridionale, e anche dell’Italia centrale, i borghi e le rade città, cinti di una bella aureola di colti, mi apparvero sempre come oasi in seno del deserto».

«Ma perchè non si coltivano quelle campagne? insistè la Giannina.

«Perchè!... L’era una cosa, di cui si struggeva il buon Beggiato, il quale, ai pregi che ho detto, univa anche le cognizioni dell’agronomo, e l’affetto del filantropo. Bisognava sentirlo il brav’uomo!... gli era un continuo predicare a quanti ci s’imbattevano per sulla via. Per buona sorte aveva tanto sani i polmoni, quanto infermi gli orecchi. — Vedete, codesto bel fondo (diceva ad uno) perchè sta li abbandonato? — Signorino (rispondeva quel tale), gli è del comune.... — E perchè è del comune non si coltiva, eh?... — Pochi passi più avanti, eccoti un altro fondo incolto. — E codesto (chiedeva il buon Beggiato), è del comune anch’esso? — No, è del signor tale. — Perchè non lo coltiva? — Eh, signorino, ce n’ha tanti!...».

«Bisogna dire che manchino le braccia», riflettè una delle mamme.

«Certamente mancano.... ma perchè mancano?... Il terreno [p. 228 modifica]non si coltiva perchè mancano le braccia; ma le braccia mancano perchè il terreno non si coltiva. Gli è come se andate giù per le maremme toscane, o per le paludi pontine, che sono alla fine, pel mare Tirreno, quello che per l’Adriatico le pianure della Lombardia, della Venezia e dell’Emilia, salvo che ci vivono, lottanti colle febbri micidiali, venti persone, sopra uno spazio ove da noi si vive in duecento5. Domandate ad uno: — Perchè quelle pianure, sedi antichissime delle città etrusche di Popolonia, Vetulonia, Saturnia, Roselle, e delle colonie greche di Cuma, Pesto, Locri, Sibari, ecc., mantenute in tanto fiore dalla dolcezza del clima e dalla fertilità del suolo6, sono ora regioni deserte, seminate da pestiferi stagni, sorgenti di perenne moria? — Vi risponde: — Per la mal’aria. — Domandate a un altro: — Perchè c’è tanta mal’aria in codesti paesi? — Vi dirà: — Perchè manca la popolazione, che lavori a dissodare il terreno, a prosciugarlo, a guidare le acque, le quali, in luogo di essere officine permanenti di pestilenza, diverrebbero fonti d’inesausta fecondità. — Così voi sapete che la mal’aria produce la spopolazione, e la spopolazione produce la mal’aria. È un circolo vizioso, che in luogo di distruggersi, si mantiene come un fatto desolantissimo, ma vero. E bisognerà romperlo, questo circolo: e si romperà, vedete, se la mossa continua. Ma basta....

5. » Vi diceva che il bacino di Tocco è tutto chiuso fra montagne irte e ignude. Il fiume Pescara, che corre dall’interno verso nord-est, lo taglia per mezzo, o piuttosto di fianco, spinto alquanto verso nord dagli accidenti del suolo. Quivi raggiunto dall’Arollo, torrentaccio nudrito dalla Majella, da cui discende, per la via di sud-est, a formare al confluente del Pescara quasi un angolo retto.

» Nel seno di quest’angolo appunto si leva l’altipiano di Tocco. Imaginatevi di essere al piede di un torrione assai largo, che finisca in una piattaforma, e che in luogo di mura abbia rupi scoscese a piombo, sparse di caverne, anzi tutte cavernose e come rôse dal tarlo. Ma la vetta spianata vi appare coperta di cupa verdura, e tutto vi ricorda i celebri giardini pènsili di Babilonia7. Sì, quella spianata è tutta una uliveta.... una delle [p. 229 modifica]più belle ulivete che io vedessi mai nelle regioni meridionali, che ne vantano tante: una uliveta tutta d’un pezzo, fitta, che si distende qualche miglio quadrato: solo in certa guisa intaccata dal paese, che copre il davanzale della piattaforma, come il guscio la tartaruga».

6. «Come mai», domandò la Camilla, «una così ricca uliveta in un bacino così sterile?».

«Ecco la domanda ch’io feci appunto a me stesso, e a cui potei rispondere facilmente, interrogando il terreno. Conoscete voi quella pietra leggiera, porosa come tarlata, che ha forma talvolta quasi di musco pietrificato?...».

«Sì, sì», risposero molti insieme; «il tufo».

«Da noi si chiama tufo; più in giù, in Toscana, in Romagna, lo dicono travertino; per essi il tufo è una tutt’altra roccia, formata da un impasto di sabbie, lapilli e ceneri vulcaniche. Ora io parlo veramente del nostro tufo, ossia del travertino. Ne sapete l’origine?».

«Mi ricordo», prese a dire Giovannino, «che quando fui a Lecco per qualche giorno, lo zio Carlo mi condusse a vedere la tufaja di Germagnedo. Ci ha difatti un gran masso di quello che noi chiamiamo tufo e lo scavano d’inverno i contadini, quando non hanno lavori in campagna: ne fanno dei pezzi riquadrati, per fabbricarne muri e pilastri: ma i pezzi più curiosi, che talora pajono di zuccaro candito, li chiamano fiori, e li vendono per farne ornamento ai giardini, come si usa anche quì in Milano».

«Benissimo! e non ti disse lo zio Carlo come s’era formato quel tufo?».

«Sì: egli m’assicurò che tutta quella pietra era la posatura di una sorgente, che nasce un po’ in alto dagli stillicidî di una caverna anch’essa di tufo, così bella, che è un desìo a vederla. Mi disse di più che quel tufo, e specialmente quei fiori che ho detto, derivano dalle erbe e dai muschi, che la sorgente andò [p. 230 modifica]mano mano incrostando colla sua posatura. Anzi salimmo insieme alla caverna, ove ci toccò di camminare carponi lavorando di braccia e di ginocchia tra i greppi e le macchie. Quando fummo su, lo zio Carlo mi fece osservare come lo stillicidio, che gemeva dalla volta della caverna, formasse e, per così dire, sospendesse alla volta medesima come delle candele e dei grappoli di sasso che si chiamano stalattiti; poi gocciando sul suolo spruzzasse le erbe e i muschi, che rivestivano la soglia della caverna, e che si venivano coprendo di una crosta di sasso. Volle anzi che io staccassi e portassi meco una bella ciocca di musco, la quale sul didietro era ancora verde e rigogliosa, mentre il davanti era di sasso».

«Bravo Giovannino! Ma era forse l’acqua stessa che convertivasi in pietra?...».

«Oh no!» si affrettò a rispondere quello scienziato in erba.

«L’acqua convertirsi in pietra!... No: mi disse lo zio Carlo, che la pietra ci è disciolta, come lo zuccaro nel caffè; ma l’acqua svapora nell’aria, e resta la pietra».

«Bravo un’altra volta! Non credevo che la sapessi così lunga. Quasi quasi tu puoi sostituirmi».

«Eh sì!...» rispose Giovannino con quell’aria vergognosetta, che lascia però trasparire la compiacenza dell’elogio toccato.

«Allora continuerò io. Quello che ha narrato Giovannino è proprio vero. Non si tratta nemmeno di un fenomeno nuovo, che cioè sia rimasto fino ad oggi straniero alle nostre conversazioni. Vi ricordate della caverna del Dàina, di quelle meravigliose stalattiti che la rendono si vaga? Le stalattiti, le stalagmiti, i tufi rappresentano sempre lo stesso lavoro della natura sotto diverse forme. Là è l’acqua che depone il calcare, filtrando, e gocciando dalla volta di una caverna; qui è l’acqua scorrente alla superficie; è la sorgente che depone il calcare sul suo cammino, incrostando il sentiero, e gli oggetti che vi si incontrano a caso. Di queste acque, che incrostano di pietra calcarea, cioè di tufo, i luoghi ove passano, e gli oggetti che bagnano, ve ne sono molte in tutti i paesi. Nell’Apennino poi ve ne sono moltissime e coll’andare del tempo la posatura acquista una tale potenza che se ne potrebbero fabbricare, o piuttosto se ne fabbricano montagne. Il travertino è una delle pietre meglio impiegate per le costruzioni in Italia. A non tener conto dei marmi e delle pietre più fine, che si trassero da lontani paesi, come dalla Grecia e dall’Egitto, Roma antica e moderna si può dire fabbricata di [p. 231 modifica]travertino. Tornando ora al nostro Tocco, quell’altipiano non è che una gran massa di travertino, che le sorgenti incrostanti eressero colà, strato sopra strato, tra il Pescara e l’Arollo. Vi giovi ora sapere che il travertino è, come si direbbe, il paradiso dell’ulivo, il terreno su cui prospera più allegramente. Non è quindi maraviglia che quell’altipiano si cambiasse, per favore di natura e solerzia d’uomo, in una pènsile uliveta, come una oasi in mezzo al deserto.

7. » Scalando a lenti passi quell’altura per andirivieni a zig-zag, quei poveri cavalli, pontando gli zoccoli e allungando i colli ci trassero lassù: ed eccoci a Tocco sul far della notte. Eravamo aspettati, e però ci vennero incontro il sindaco e altri del paese, fra i quali il nostro ospite, di cui non mi ricordo il nome. Era un uomo destro, dal fare aperto, dalla lingua sciolta e di parole così pronte che non potevamo aspettarci tanto da un semplice Toccolano. Il mistero fu presto spiegato quando si seppe ch’egli s’era acconciato per cuoco a Roma negli anni di sua gioventù. Reduce in patria aveva messo su un botteghino, un certo che tra il caffè e la bettola. A lui, meglio che a nessun altro, si addiceva l’incarico di far gli onori ai forastieri, e di apprestar loro i desinari. Quanto all’alloggio, ci aveva provveduto il signor sindaco, facendo allestire per noi due letti lì per li nella casa delle scuole comunali».

«Perchè non andare all’albergo?» interruppe la Chiara.

«Eh via!... non dimentichiamoci di essere nell’Italia meridionale, e, quel che è peggio, per entro agli Apennini. Poi, perchè ci sarebbero alberghi, se non ci va nessuno?

«E mangiare?» continuò curiosa la Chiarina.

«Quanto a questo gli è un altro par di maniche. Anzi tutto, c’è quel detto di Catullo8, se pur mi ricordo: — Cenerai bene presso di me, se ci porterai del buono; — e state sicuri che il signor Vitale aveva inteso pel suo verso il suggerimento del poeta latino, ed aveva rimpinzito il nostro piccolo carrettone di carni fresche, le quali, come sapete, si preparano in America e si mangiano in Europa ben disposte entro scatolette di latta saldata: poi di tutto quanto può, non solo bastare alla necessità, ma contentare anche una onesta leccornia. Del resto, vino che è un’ambrosia, olio che è una dolcezza, maccheroni conditi con [p. 232 modifica]salsa di pomidoro che sono un desio, le son cose che bisogna andare a Tocco per gustarle. A proposito di salsa di pomidoro dovete sapere che Tocco è un piccolo Manchester9 per la confezione e l’esportazione di questo ghiotto condimento. Vedete quella specie di polpettoni neri, lucenti, quasi fossero pasta di tamarindi, esposti nelle mostre de’ salumai?».

«Sì», fu presta a rispondere la Chiarina, «conserva di pomidoro. N’ha comperato la Caterina appena l’altro dì».

«Ebbene, eccovi un prodotto che occupa, si può dire, tutta la popolazione di Tocco sullo scorcio dell’estate. È questo in fatti lo spettacolo che ci presentò Tocco, appena usciti la mattina dal nostro albergo. Tutte le donne erano fuori, intese a rimestare, spappolare, stemprare, spalmare, spianare quella poltiglia, la quale disseccandosi al sole, di rossa si faceva bruna, poi nera, e allora brancicandola, le davano forma, prima di pallottole, poi di cilindri che ungevano d’olio, perchè non s’appiccicassero. L’è una bella e buona industria; non c’è che dire.... ma lo stomaco ci guadagna a non vederla in pratica».

8. «Non ci hai detto ancora», fece Giannina, «come sono codesti Toccolani. Nell’Italia meridionale ci sono fogge e costumi così bizzarri....».

«No, non siamo ancora là dove troveresti qualche cosa che rispondesse alla tua aspettazione. Se vuoi vedere di quegli uomini dal cappello a cono, detto alla calabrese, e con quel figurino che sui nostri teatri, dal Gerolamo alla Scala, è la divisa degli assassini e dei briganti; se vuoi vedere quelle donne, vestite di colori che avventano, e tutte armate di ciondoli di metallo e di sonagli, con quelle fogge di vestire arabe e greche, col pugnale nella calza, con tutto quel fare brigantesco, di cui nulla ha esagerato nè l’arte, nè l’imaginazione: bisogna andar più in giù, nella Capitanata, nel Principato, a Benevento, nelle Calabrie. A Tocco il vestire degli uomini non differisce quasi da quello de’ nostri contadini. Anche il vestire delle donne è semplice assai; ma per isventura tutti i colori scompajono sotto un color solo: il sudicio. La pezzola con cui tengono invariabilmente fasciata la fronte, si dice bianca per modo di dire, ma è tutta un untume....».

«Oh! devono essere pur brutte!» sclamò una delle mamme.

«Non affatto.... cioè.... bisogna guardarle tre volte, perchè, dopo [p. 233 modifica]averle trovate irremissibilmente brutte la prima, tollerabili la seconda, vi riesca forse di dirle anche belle la terza. E son belle davvero, d’una bellezza moresca, d’una bellezza da sfinge10 cogli occhi neri, le guancie brune e sode così, che pajono getti di bronzo. Ma non v’ho detto dei bambini. Vi assicuro ch’io sono rimasto a vederli. Se uno di quei piccini se n’andasse in cucina, e si pigliasse due cenci già licenziati dal lavapiatti, e se li buttasse dattorno, così alla moda dei greci eroi, cioè come vien viene, lasciando che il vento li aggiusti a suo modo, v’assicuro che a Tocco potrebbe parer vestito degli abiti di festa. Di simili cenci non ne vidi altrove che a Londra. Eppure Tocco è una grossa borgata che può meritare il nome di città, e, come ogni città vantare le sue meraviglie. Tre erano le meraviglie di Tocco al tempo che io ci andai. Prima meraviglia il cent’erbe».

9. «Il cent’erbe?... cosa è codesto?» domandarono gli uditori.

«Credo che oggimai lo troverete facilmente nei nostri caffè. Il cent’erbe di Tocco è liquore conosciuto assai nel Napoletano, dov’era anche in voce di anticolerico. Si ottiene colla distillazione di erbe aromatiche, ed è liquore gustoso, piccante e stomatico. Questa è dunque la prima meraviglia di Tocco. La seconda son le sorgenti di petrolio: la terza poi, e la maggiore di tutte, un.... un poeta ciabattino».

10. «Un poeta ciabattino!...» scoppiò a dire sghignazzando e facendo gli occhiacci tutta la nidiata.

«Sì, un poeta ciabattino; e se vi torna meglio, un ciabattino poeta».

«Sarà un qualche torototella11», volle ribattere Giovannino.

«Un torototella!... tutt’altro. Ho detto un poeta e lo mantengo. Il poeta ciabattino si chiama Domenico Stromei12. [p. 234 modifica]

» Omero cieco e mendico, che erra per le greche città facendole risonare de’ suoi canti immortali, si vuole che sia un mito, ossia una favola; ma il poeta ciabattino è un ciabattino davvero, che vive e veste panni, che batte il cuojo e tira lo spago, e potrebbe ripetervi dolorosamente quei periodi ch’io lessi d’una sua lettera, scritta in un’ora di scoraggiamento, poichè si lagna del capriccio della fortuna, — che mi ha gettato (egli dice) qual merce vilissima su questa terra, vera officina di miserie, e che m’ha conficcato tra lo squallore delle lesine e delle ciabatte, perch’io consumassi nel duolo il corso della mia vita, a confusione della poesia, ed a trionfo e sollazzo della svenevole turba degli animi volgari —».

«Ma è dunque un uomo altrettanto colto quanto infelice costui», riflettè una delle mamme profondamente commossa.

«Più che colto, è veramente poeta, come vi dissi. Le poesie dello Stromei, quelle almeno che ci venivano recitate dal nostro ospite con una vena da non dirsi, sono satiriche, come quelle di tutti i poeti popolari, da Aristofane al Porta ed al Giusti. Non ho paura, vedete, di paragonare lo Stromei a quei sommi satirici di cui si gloriano le letterature antiche e moderne. Ma qui c’è veramente di che maravigliare, chi ripensi, come lo Stromei scrive di sè stesso, e con semplicità pari alla verità: — ch’io sono un poverissimo calzolajo, e che tutto il mio studio l’ho terminato col Libro delle Vergini, quand’io non aveva neppur imparato a sillabare: che sono marito e padre di quattro figli che aspettano il pane quotidiano dal mio materiale mestiere, e che debbo pensare seriamente ad accattare l’esistenza per ciascun giorno collo spago e colla pece, e che perciò non mi è dato di poetare se non in qualche momento che mi riesce di rubare al sonno della notte, ed alla ferrea mano della sventura, che mi tiene oppresso sotto il potere del tiranno bisogno —».

«Mette freddo a sentirlo parlare così il povero uomo:» soggiunse quella delle madri che aveva fatto poc’anzi l’altra riflessione. «Parmi che vi si senta piuttosto la vena dell’elegia13 che quella della satira».

«Eh! non direste così se aveste sentito il nostro ospite quando ci recitava certe strofe piene di canzonatura veramente [p. 235 modifica]oraziana14. Ma quando noi capitammo a Tocco lo Stromei aveva fatto da qualche tempo un profondo mutamento. Il sentimento religioso, associato forse ad un pochino di misantropia, aveva messo in penitenza il genietto della satira. Lo stato del suo animo a quel tempo è ben dipinto in un’ode, ch’egli scrisse precisa mente in quella occasione, per ringraziare il signor Maurizio Laschi, che, approfittando della nostra gita a Tocco, gli aveva recato un libro di Meditazioni sugli Evangeli, di cui gli aveva prima espresso il desiderio. Già s’intende che a Tocco librai e librerie le son cose sconosciute. I periodi ch’io vi ho citati testè, sono estratti appunto dalla dedica di quel carme».

«Si potrebbe anche sentirne qualche strofa?» interrogò Camilla. «Un poeta ciabattino è veramente una rarità».

«Aspetta.... le strofe migliori credo d’averle a mente. Quell’ode sente un po’ delle poesie d’occasione; manca piuttosto di spontaneità, è prolissa, non ha in fine quel nerbo che dai versi scritti, dirò per riflessione, distingue quelli dettati da un estro che si accende spontaneo, sotto il predominio di un sentimento quasi irresistibile. Quell’ode, ripeto, non ha nulla che fare colle satire di cui il nostro ospite ci espose i saggi più conditi; tuttavia quanti dei nostri professori di belle lettere sarebbero lieti di poter dettare dalle loro cattedre delle strofe come queste, scritte sul desco del ciabattino, tra i profumi del cuojo e della pece?... Sentite dunque alcune di quelle strofe. Dapprima, volgendosi al Laschi gli domanda:

Qual genio ti trasse dagli adri paesi
     Quì sotto le falde dei monti apruzzesi,
     O Laschi, a recarmi del nume superno
                                   Il codice eterno?

» Poi si diffonde a cantare le lodi del Vangelo:

Quel libro ch’è vita, ch’è tromba del vero,
     Ch’è sole che schiara l’umano sentiero,
     Che svela il profondo futuro destino
                                   Col raggio divino,
     . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Che in riso di cielo converte natura,
     Che cangia in diletto la stessa sventura,
     Che lauri dispensa d’eterno splendore,
                                   De’ forti al dolore....

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» Quì passa agli elogi del donatore, e lo ringrazia che abbia voluto assidersi al suo rozzo e cruccioso deschetto, dov’egli trascina da tanti anni la vita:

Romita ed oscura, per colpa del mondo,
     Che in duro lasciommi silenzio profondo,
     Che volle sepolta nel pianto e nell’ira
                                   La mesta mia lira;
La lira che diemmi benigna natura,
     Che forse di Pindo15 toccava l'altura,
     Se non l’addentava con empia perfidia
                                   La squallida invidia.

» Ma il poeta si consola con religiosa filosofia. Egli ha veduto che tutto è ombra e chimera quaggiù:

Che i cocchi, le danze, le ninfe amorose,
     Le trecce dorate, le guance di rose,
     Non valgano a fronte del fervido e pio
                                   Pensiero di Dio.

» Vi so dir io che il mio piccolo uditorio rimase al sentirsi recitare quei versi scritti da un ciabattino. Tutti vollero farci i loro commenti; nè mancarono quelli delle mamme, le quali imaginatevi se avrebbero trascurata l’occasione di far intendere ai bambini quanto possa l’ingegno sorretto da una buona volontà, mentre loro, con tanti soccorsi di educazione, non erano ancor buoni a nulla: — Chè la ci vuol tutta —, dicevano, — a farvi metter giù la testa per mandare a memoria qualche riga di lezione. — Tuttavia ciò era vero soltanto per alcuni di quei ragazzi, che si distinguevano tosto fra gli altri, a certi occhiacci, a certe faccie raumiliate, che, volendosi nascondere, appunto si rivelavano. Io mi approfittai di quella diversione per levarmi».

«E la terza meraviglia?» grido Giannino accortosi della mia mossa.

«Cioè la seconda....» corresse Marietta.

«Seconda o terza che sia, basta per questa sera. Addio!».


Note

  1. Usano i geografi la parola versante a significare un tratto declive di paese, per cui le acque correnti discendono dalle altezze dello spartiacque ad un bacino di mare. Meglio si direbbe defluvio.
  2. Questa voce inglese è derivata dal latino, — volvere, — in italiano — volgere, rigirare, — e poeticamente anche — volvere — tale quale. Da questa radice derivarono già da un pezzo nell’italiano le voci — volvolo — e — convolvolo: — e per che non potremmo derivarne anche la voce — revolvolo? — Basta che qualcuno cominci. Intanto si è introdotto il nome di rivoltella, che buon pro vi faccia.
  3. Latitudine è la distanza di un paese dall’equatore. Più ci avviciniamo all’equatore, allontanandoci da uno dei due poli, e minore diventa la latitudine, e più alta la temperatura generalmente parlando.
  4. Il Gran Sasso d’Italia è alto 8621 piedi parigini (metri 2896) sul livello del mare: la Majella 8594 piedi parigini (metri 2792).
  5. Correnti, Annuario, 1864.
  6. Pilla, Trattato di geologia, pag. 167.
  7. Gli antichi storici s’accordano tutti nel magnificare i giardini pensili o sospesi di Babilonia, come una delle maggiori meraviglie del mondo, benchè non vadano altrettanto d’accordo nel darne le misure. Figuratevi una gran piramide tronca, formata di quattro terrazzi, posti a scaglioni l’uno sull’altro e sostenuti da enormi pilastri quadrati. S’ascendeva dall’uno all’altro terrazzo per amplissime gradinate, a’ cui lati eran disposte le così dette viti d’Archimede per mandar l’acqua fino al l’ultimo ripiano. Tutto l’edificio, pilastri, terrazzi, vôlte, gradinate, era di cotto: i pilastri, rivestiti di cotto, internamente erano pieni di terra, in cui si sprofondavano le radici degli alberi giganteschi che ombreggiavano i terrazzi. Secondo Strabone, il circuito a terreno misurava quasi 500 metri. Tutti poi dicono che da lontano quei giardini parevano una collina boscosa. Chi li edificasse non si sa; si crede un re per far piacere alla sposa, che, essendo nativa dei monti della Persia, mal sopportava l’uniformità della pianura babilonese, e al pensiero delle sue montagne era presa da quel male che tanto travaglia i montanari lontani dalle loro case, e che dicesi nostalgia — malattia del ritorno, — o più esattamente, — la pena, il dolore, la smania del ritorno.
  8. Cajo Valerio Catullo, nato 86 anni prima di Cristo a Verona od a Sirmio (oggi Sermione) sul Benaco (lago di Garda), visse appena 30 o 40 anni e fu elegantissimo poeta latino.
  9. Una delle più industriose e commercianti città della Gran Brettagna, a levante di Liverpool, e del seno più orientale del mar d’Irlanda.
  10. Leone favoloso, col capo di donna, simbolo di Neith, dea della sapienza. Dinanzi ai templi egiziani si vedono ancora lunghi viali fiancheggiati da figure di sfingi di pietra. Hanno tutte il volto conforme al tipo particolare della nazione egiziana, a cui somigliano per qualche rispetto i lineamenti delle donne di Tocco.
  11. In Lombardia chiamansi torototella quei menestrelli o cantastorie d’infima lega, che battono i mercati e le fiere, apostrofando il terzo ed il quarto con versi improvvisi, scipiti e spesso insolenti, accompagnandoli con uno strumento che è la canzonatura del violino. Esso consiste in una semplice verga un po’ arcuata, su cui è tesa una corda di minugia, che arriva da una estremità all’altra, passando attraverso al ventre di una zucca da tenervi il vino, alla quale sia stato segato il collo. Onde il ventre della zucca serve ad un tempo di ponticello e di corpo. Ad ogni strofa il torototella dà una buona fregata coll’archetto a quello strano strumento, cavandone un gemito od un ronzio piuttosto che un suono, e l’accompagna coi lazzi e colle smorfie più svenevoli. Ma ormai di tali trovatori è quasi spenta la razza.
  12. Dello Stromei furono pubblicate molte poesie d’argomento serio; nessuna, credo, delle satiriche, che sono le più caratteristiche. Recentemente apparvero: I Marsi, L’emissario Claudio, L’emissario Torlonia, poemetti di Domenico Stromei Aquila, tip. Vecchioni, 1875.
  13. Gli antichi Greci usarono dapprima il nome di elegia per designare la poesia in cui si rimpiangeva qualche caro defunto; poi la estesero a tutte le poesie di soggetto flebile o melanconico.
  14. Quinto Orazio Flacco, nato a Venusio (Venosa) nell’Apuglia (Puglia) verso l’anno 66 avanti G. C., morì di 57 anni lasciando delle poesie liriche e satiriche, e un’Arte Poetica, che sono tra le più belle opere della letteratura latina. Si dice quindi proverbialmente sale venosino l’arguzia della satira.
  15. Lunga catena di monti, che dipartendosi dal monte Scardo (Ciar-dagh) forma l’ossatura di tutta la penisola greca. Era sacro alle Muse, cioè alle dee inspiratrici dei poeti, secondo la favola.