Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo III/Capitolo decimo

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Capitolo decimo

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Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo III Capitolo undecimo
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CAPITOLO DECIMO




Or sen va per un segreto calle ec.


Seguendo il cominciato modo di procedere, dico che il presente canto si continua al precedente in questo modo, che avendo l’autore nella fine del canto superiore descritta la qualità del luogo piena di sepolcri, e chi dentro a quegli è tormentato, nel principio di questo mostra come dietro a Virgilio per lo detto luogo si mettesse ad andare, e quello che nell’andar gli avvenisse. E fa l’autore in questo canto quattro cose; primieramente ne dice il suo procedere per lo luogo disegnato, appresso muove a Virgilio alcun dubbio, il quale Virgilio gli solve: oltre a questo ne mostra, come con alcuna dell’anime dannate in quel luogo lungamente parlasse: ultimamente dice, come tornato a Virgilio, dove con lui seguitandolo pervenisse: la seconda comincia quivi [p. 2 modifica]O virtù somma: la terza quivi, O Tosco: la quarta quivi, Indi s’ascose. Dice adunque l’autore, continuando al fine del precedente canto, che, Ora, cioè in quel tempo che esso era in questo viaggio, sen va per un segreto calle, chiamato segreto, a dimostrare che pochi per quello andassero, avendo per avventura altra via coloro i quali dannati là giù ruinavano; e per dimostrare quella via non essere usitata da gente la chiama calle, il quale è propriamente sentieri li quali sono per le selve, per li boschi triti dalle pedate delle bestie, cioè delle greggi e degli armenti, e perciò son chiamati calle, perchè dal callo de’ piedi degli animali son premute e fatte, Tra il muro della terra, di Dite, e gli martirj, cioè tra’ sepolcri, ne’ quali martirii e pena sostenevano gli eretici,

Lo mio maestro, ed io dopo le spalle,

cioè appresso a lui seguendolo. O virtù somma. Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale l’autore muove a Virgilio alcun dubbio, e Virgilio gliele solve: dice adunque, O virtù somma, nelle quali parole l’autore intende qui per Virgilio la ragion naturale, la quale tra le potenze dell’anima è somma virtù, che per gli empi giri, cioè per i crudeli cerchi dell’inferno, Mi volvi, menandomi, cominciai, com’a te piace, perciocchè mai dal suo volere partito non s’era, Parlami, cioè rispondimi, e satisfammi ’a miei disiri, cioè a quello che io desidero di sapere: il che di presente soggiugne dicendo,

La gente che per li sepolcri giace,

[p. 3 modifica]cioè gli eretici, Potrebbesi veder? E volendo dire che si dovrebbon poter vedere, seguita, già son levati Tutti i coperchi, delle sepolture, e così mostra che tutti erano aperti, e per questo segue, e nessun, che ne’ sepolcri sia, guardia face, per non essere veduto: e in queste parole par piuttosto domandar del modo da potergli vedere, che dubitare se vedere si possono o nò. Ed egli a me: qui comincia la risposta di Virgilio, la qual non pare ben convenirsi alla domanda dell’autore, in quanto colui domanda se quegli che sono dentro a’ sepolcri vedere si possono, e Virgilio gli risponde, che essi saranno serrati tutti dopo il dì del giudicio. Ma Virgilio gli dice questo, acciocchè esso comprenda e il presente tormento degli eretici e il futuro, il quale sarà molto maggiore, quando serrati saranno i sepolcri, che ora che aperti sono, perciocchè quanto il fuoco è più ristretto più cuoce: e nondimeno mostratogli questo, e chi sieno gli eretici che in quella parte giacciono, gli risponde alla domanda: dice adunque: tutti saran serrati, questi sepolcri i quali tu vedi ora aperti, Quando di Josaffà, cioè della valle di Josaffà, nella qual si legge che al dì del giudicio, tutti quivi, giusti e peccatori, rivestiti de’ corpi nostri, ci raguneremo ad udire l’ultima sentenza; e di quindi i giusti insieme con Gesù Cristo se ne saliranno in cielo, e i dannati discenderanno in inferno: e chiamasi quella valle di Josaffà, poco fuori di Gerusalem, da un re chiamato Josaffà, che fu sesto re de’ Giudei, il quale in quella valle fu seppellito, qui torneranno,

Coi corpi che lassù hanno lasciati,

[p. 4 modifica]quando morirono, li quali risurgendo avranno ripresi. Suo cimitero, cioè sua sepoltura: ed è questo nome d’alcun luogo dove molte sepolture sono, siccome generalmente veggiamo nelle gran chiese, nelle quali sono alcuni luoghi da parte riservati per seppellire i corpi de’ morti; e queste cotali parti si chiamano cimitero, quasi communis terra, perciocchè quella terra pare esser comune a ciascuno il quale in essa elegge di seppellirsi, da questa parte hanno

Con Epicuro tutti i suoi seguaci,
Che l’anima col corpo morta fanno.

Epicuro fu solennissimo filosofo, e molto morale e venerabile uomo a’ tempi di Filippo re di Macedonia, e padre d’Alessandro: è il vero che egli ebbe alcune perverse e detestabili opinioni, perciocchè egli negò del tutto l’eternità dell’anima, e tenne che quella insieme col corpo morisse, come fanno quelle degli animali bruti; e così ancora più altri filosofi variamente e perversamente dell’anima stimarono: tenne ancora che somma beatitudine fosse nelle dilettazioni carnali, le quali sodisfacessero all’appetito sensibile, siccome agli occhi era sommo bene poter vedere quello che essi desideravano, e che loro piaceva di vedere: così agli orecchi d’udire, e alle mani di toccare, e al gusto di mangiare. Ed estimano molti, che questo filosofo fosse ghiottissimo uomo; la quale estimazione non è vera, perciocchè nessuno altro fu più sobrio di lui; ma acciocchè egli sentisse quello diletto, nel quale poneva che era il sommo bene, sosteneva lungamente la fame, o vogliam piuttosto dire il desiderio del mangiare, il quale molto [p. 5 modifica]portato adoperava, che non che il pane, ma le radici dell’erbe salvatiche maravigliosamente piacevano, e con desiderio si mangiavano: e così sostenuta lungamente la sete, non che i deboli vini, ma l’acqua, e ancora la non pura piaceva, appetitosamente si bevea; e similmente di ciascuna altra cosa avveniva; e perciò non fu ghiotto, come molti credono, nè fu perciò la sua sobrietà laudevole, in quanto a laudevole fine non l’usava: adunque per queste opinioni, separate del tutto dalla verità, siccome eretico mostra l’autore lui in questo luogo esser dannato, e con lui tutti coloro i quali le sue opinioni seguitarono. Poi seguita l’autore; Però, cioè per quello che detto t’ho, che da questa parte son gli epicuri, alla dimanda che mi faci, cioè se veder si possono quelle anime che nelle sepolture sono, Quinc’entro, cioè tra queste sepolture, satisfatto sarai tosto, quasi voglia Virgilio dire: perciocchè tra questi epicuri sono de’ tuoi cittadini, i quali sentendoti passare ti si faranno vedere, di che fia satisfatto al desiderio tuo,

Ed al disio ancor, che tu mi taci,

il quale disio taciuto dall’autore, vogliono alcuni, che fosse di sapere perchè l’anime dannate mostrano di sapere le cose future, e le presenti non par che sappiano, la qual cosa gli mostra appresso messer Farinata. Ma io non so perchè questo desiderio gli si dovesse esser venuto; conciosiacosachè niun altro vaticino per ancora avesse udito, se non quello che detto gli fu da Ciacco, salvo se dir non volessimo essergli nato da questo, che Ciacco gli disse le cose future, e Filippo Argenti nol conobbe, essendo egli [p. 6 modifica]presente: ma questa non pare assai conveniente cagione da doverlo aver fatto dubitare, conciosiacosachè, come Ciacco il vide il conoscesse, come davanti appare; e però che che altri si dica, io non discerno assai bene qual si potesse essere quel disio, il quale Virgilio dice qui, che l’autore gli tace.

Ed io: buon duca, non tegno nascosto
A te mio dir, se non per dicer poco,

per non noiarti col troppo;

E tu m’hai, non pur mo a ciò disposto,

ammonendomi di non dir troppo. O Tosco, che per la città. Qui comincia la terza parte del presente canto, nella quale con alcune dell’anime dannate in questo lungamente parla l’autore: nella qual terza parte l’autore fa sette cose: primieramente descrive le parole uscite d’una di quelle arche: appresso come Virgilio gli nominasse e mostrasse messer Farinata, e a lui il sospignesse: susseguentemente come con lui parlasse: oltre a questo come un’altra anima il domandasse d’alcuna cosa, ed egli le rispondesse: poi mostra come messer Farinata continuando le sue parole gli predicesse alcuna cosa: dopo questo scrive, come movesse un dubbio a messer Farinata, ed egli gliele solvesse: ultimamente come imponesse a messer Farinata quello che all’anima caduta dicesse: la seconda comincia quivi, Ed el mi disse: volgiti: la terza quivi, Com’io al piè: la quarta quivi, Allor surse alla vista: la quinta quivi: Ma quell’altro: la sesta quivi, Deh se riposi: la settima quivi, Allor come di mia. Dice adunque nella prima cosi, O Tosco: dinomina qui colui che queste parole dice, [p. 7 modifica]l’autore della provincia, forse ancora non avendo tanto compreso di qual città lo stimasse, e chiamato Tosco, cioè Toscano: intorno al qual nome se noi vorremo alquanto riguardare, forse conosceremo avere a render grazie a Dio, che Toscani piuttosto che di molte altre nazioni essere ci fece, se la nobiltà delle Provincie, come alcuni voglion credere, puote alcuna particella di gloria aggiungere a quegli che d’esse sono provinciali. È adunque Toscana una non delle meno nobili provincie d’Italia, dal levante terminata dal Tevero fiume, il quale nasce in Appennino, e mette in mare poco sotto la città di Roma; e di verso tramontana e di ponente è chiusa tutta dal monte Appennino, quantunque vicino al mare le sieno da diversi posti diversi termini; perciocchè alcuni dicono quella essere dalla foce della Macra divisa da Liguria; altri la stringono e dicono i suoi termini essere al Motrone sotto a Pietrasanta;j e sono ancora di quegli che vogliono, lei finita essere da un piccolo fiumicello chiamato Ausere, propinquissimo a Pisa; e i Pisani medesimi, forse più nobile cosa estimando esser Galli che Toscani, hanno alcuna volta detto, quella di ver ponente esser chiusa dal fiume nostro d’Arno, il quale mette in mare poco sotto Pisa: di verso mezzodì è tutta chiusa dal mare Mediterraneo, il quale i Greci chiamano Tirreno: e questa terminazione è secondo il presente tempo; perciocchè anticamente essa si stendeva passato il monte Appennino, infino al mare Adriano: ma di quindi i Galli, i quali seguir Brenno, cacciarono i Toscani, e mutaron nome alla [p. 8 modifica]provincia, e chiamaronla Gallia. E fu Toscana, secondochè alcuni antichi scrivono, primieramente abitata da certi popoli i quali si chiamarono Lidi, i quali partendosi d’Asia minore, di dietro a due fratelli, nobili giovani, chiamati l’uno Lido e l’altro Tireno, in quella vennero, e fu la provincia chiamata Lidia, da Lido, e il mare fu chiamato il mar Tireno dall’altro fratello: e non solamente quello il quale bagna i termini di Toscana, ma cominciandosi dal Fare di Messina, infino alla foce del Varo, tra Nizza e Marsilia, tutto fu chiamato Tireno: e così ancora il chiamano i Greci. Poi cambiò la provincia il nome dall’esercizio generale di tutti quegli d’essa, intorno all’alto del sacrificare alli loro iddii, nel quale essi furono più che altri popoli ammaestrati; e perciò usarono lungo tempo i Romani di mandare de’ lor più nobili giovani a dimorar con loro, per apprendere da loro il rito del sacrificare; e perocchè essi, quasi tutti i lor sacrificii facevano con incenso, e lo incenso in latino si chiama Thus, furon chiamati Tusci, i quali per volgare son chiamati Toscani: e da questo dirivò il nome il quale noi ancora serviamo. Ed è, come assai chiaro si vede, Toscana piena di notabili città in sè, tra l’altre contenendo tanto della città di Roma, quanto di qua dal Tevere se ne vede e appresso questa nostra città, cioè Fiorenza, la quale tanto sopra ogn’altra è eminente, quanto è il capo sopra gli altri membri del corpo; e però meritamente potè l’autore, il quale di questa città fu natio, esser da messer Farinata chiamato Tosco: [p. 9 modifica]seguita poi, che per la città del foco, cioè per la citta di Dite, ardente tutta d’eterno fuoco,

Vivo ten’vai così parlando onesto,

cioè reverentemente, come poco avante faceva parlando a Virgilio,

Piacciati di ristare in questo loco,

quasi voglia dire, tanto che io ti possa vedere, e possati parlare.

La tua loquela ti fa manifesto,

esser, Di quella nobil patria, cioè di Fiorenza, natio.

Alla qual forse fui troppo molesto.

Guarda colui che parla di dover piuttosto per queste parole ritenere l’autore, come davanti il prega; conciosiacosachè volentieri ne’ luoghi strani, sogliano l’un cittadino l’altro voler vedere, e ancora volere udire, quando da alcuna singular cosa son soprappresi, come qui faceva quella anima dicendo, forse essere stato alla città dell’autore troppo molesto; e dice avvedutamente qui questo spirito, forse, perciocchè se assertive avesse detto sè essere stato troppo molesto alla sua città, si sarebbe fieramente biasimato, in quanto alcuno non dee contro alla sua città adoperare, se non tutto bene; conciosiacosachè noi nasciamo al padre e alla patria, e il biasimare sè medesimo è atto di stolto; e perciò disse lo spirito, forse, suspensivamente parlando, volendo questo, forse, s’intenda per l’esser paruto a molti lui essere molesto, al giudicio de’quali per avventura non era da credere, siccome al giudicio de’ guelfi, siccome di nemici, non parea da dover credere [p. 10 modifica]contro al ghibellino: nondimeno come molesto fosse alla patria sua e nostra, costui nelle cose seguenti apparirà. Subitamente questo suono, cioè questa voce; e pone questo vocabolo suono improprio, perciocchè propriamente suono è quello che procede dalle cose insensate, come è quello della campana, del tuono e simiglianti, uscìo D’una dell’arche, le quali eran quivi: però m’accostai,

Temendo, un poco più al duca mio.

Ed el mi disse. Qui comincia la seconda particella della parte terza principale, nella quale Virgilio gli mostra messer Farinata e sospignelo ad esso; dice adunque, Ed el mi disse: volgiti, inverso l’arca onde uscì il suono, che fai? cioè come fuggi tu? Vedi là Farinata, cioè l’anima di messer Farinata degli Uberti, che s’è dritto, nella sepoltura nella quale giacea: dalla cintola in su, cioè da quella parte della persona sopra la quale l’uom si cigne, la quale non era tanta parte quanta è quella che oggi si vedrebbe; perciocchè gli uomini solcano andar cinti sopra i lombi, oggi vanno cinti sopra le natiche: e soleva essere la cintura istrumento opportuno, a tenere ristretta la larghezza de vestimenti, ove ne’ giovani d’oggi è ornamento superfluo d’assai vil parte del corpo loro; perciocchè in luogo di cinture, essi fanno ricchissime corone; e come per addietro delle corone si solea ornar la fronte, così delle presenti si coronan le natiche: tutto il vedrai. Per le quali parole di Virgilio, l’autore prestamente verso quel luogo rivoltosi, cominciò a riguardare questo messer Farinata, e però segue, Io avea il mio viso, [p. 11 modifica]cioè la mia virtù visiva, nel suo, viso cioè negli occhi suoi, fitto, fiso riguardando: Ed el, cioè messer Farinata, il quale io riguardava, s’ergea, cioè surgea, levandosi da giacere, ed ergevasi, col petto e con la fronte, i quali l’uomo levandosi mette innanzi, il che messer Farinata faceva,

Come avesse l’inferno in gran dispitto,

cioè a vile e per niente: e in questo vuole l’autore mostrare messer Farinata essere stato uomo di grande animo, nè averlo potuto vivendo piegare nè rompere alcuna fatica, pericolo o avversità. E l’animose man, diciamo allora le mani essere animose, quando elle son pronte e destre all’oficio il quale esse vogliono o debbon fare, del duca e pronte

Mi pinser tra le sepolture a lui,

non è da credere che violentemente il sospignessero, ma fecero un atto, il quale colui che bene intende prende per sospignere, cioè per essere animato da colui che fa sembiante di sospignere ad andare, Dicendo, in quell’atto: le parole tue sien conte, cioè composte, e ordinate a rispondere; quasi voglia dire, tu non vai a parlare ad ignorante. Come al piè. Qui comincia la terza particola di questa terza parte principale, nella quale dimostra l’autore come con messer Farinata parlasse: dove, avanti che più oltre si proceda, è da mostrare chi fosse messer Farinata. Fu adunque messer Farinata cittadino di Firenze, d’una nobile famiglia chiamata gli Uberti, cavaliere secondo il temporal valore da molto, e non solamente fu capo e maggiore della famiglia degli Uberti, ma esso fu ancora capo di parte ghibellina in Firenze, e quasi [p. 12 modifica]in tutta Toscana, sì per lo suo valore, e sì per Io stato, il quale ebbe appresso l’imperador Federigo secondo, il quale quella parte manteneva in Toscana, e dimorava allora nel Regno; e sì ancora per la grazia, la quale morto Federigo ebbe del re Manfredi suo figliuolo, con l’aiuto e col favore del quale teneva molto oppressi quegli dell’altra parte, cioè i guelfi: e secondochè molti tennono, esso fu dell’opinione d’Epicuro, cioè che l’anima morisse col corpo; e per questo tenne, che la beatitudine degli uomini fosse tutta ne’ diletti temporali; ma non seguì questa parte nella forma che fece Epicuro, cioè di digiunar lungamente, per aver poi piacere di mangiar del pan secco, ma fu desideroso di buone e di dilicate vivande, e quelle eziandio senza aspettar la fame usò; e per questo peccato è dannato come eretico in questo luogo. Dice adunque l’autore,

Com’io al piè della sua tomba fui,

appare qui che quelle arche non erano in terra, ma levate in alto, Guardommi un poco, forse per vedere se il conoscesse, e poi quasi sdegnoso, è questo atto d’uomini arroganti, i quali quasi ogn’altra persona che sè avendo in fastidio, con isdegno riguardano altrui,

Mi domandò: chi fur li maggior tui?

cioè gli antichi tuoi: e questo per ricordarsi se cognosciuti gli avesse, posciachè lui non ricognoscea

Io, ch’era d’ubbidir disideroso,
Non gliel celai, ma tutto gliele apersi:

dicendo che gli antichi suoi erano stati gli Alighieri, onorevoli cittadini di Firenze, e antica famiglia, [p. 13 modifica]siccome più distesamente si narrerà nel canto XV. del Paradiso,

Ond’ei levò le ciglia un poco in soso;

sogliono fare questo atto gli uomini quando odono alcuna cosa, la quale non si conformi bene col piacere loro, quasi in quello levare il viso in su, di ciò che odono si dolgono con Domeneddio, o si dolgano di Domeneddio:

Poi disse: fieramente furo avversi,

cioè contrarii e nemici, perciocchè guelfi erano, A me, in singularità, e a’ miei primi, cioè a’ miei passati, e a mia parte, era, come di sopra è detto, la parte di costui quella che ancora si chiama parte ghibellina, della qual parte, e della opposita, e della loro origine, par di necessità di parlare alquanto diffusamente, acciocchè poi dovunque se ne tratterà in questo libro appresso, senza avere a replicare s’intenda. Sono adunque in Italia già è lungo tempo perseverate, con grandissimo danno e disfacimento di molte famiglie, e città e castella, due parti, delle quali l’una è chiamata parte guelfa e l’altra ghibellina, e hannosi sì fervente odio portato l’una all’altra, che nè gittare le proprie sustanze, nè il perder gli stati, nè il metter sè medesimi a pericolo e a morte pare che curati si sieno: e questi due nomi, secondochè recitava il venerabile uomo messer Luigi Gianfigliazzi, il quale affermava averlo avuto da Carlo quarto imperadore, vennero della Magna, là dove dice nacquero in questa forma. Fu in Italia, già son passati dugento anni, una nobile donna e di grande animo, e abbondantissima di baronie e delle [p. 14 modifica]mondane ricchezze, chiamata la contessa Matelda; delle cui laudevoli operazioni distesamente si dirà nel Canto XXVIII. del Purgatorio la quale acciocchè alcun certo erede di lei rimanesse, cercò di volersi maritare: e non trovando in Italia alcuno che assai le paresse conveniente a sè, mandò nella Magna e quivi trovatosi un barone, il cui nome fu il duca Gulfo, ovvero Guelfo, e costui parendole e per nobiltà di sangue e per grandigia convenirlesi, fece con lui trattare il matrimonio: la qual cosa sentendo un parente di questo Guìfo, il cui nome fu Ghibellino, e udendo la maravigliosa dota che a costui dovea da questa donna esser data, divenne invidioso della sua buona fortuna, e occultamente cominciò a cercar vie per le quali questo potesse sturbare; e ultimamente s’avvenne ad alcuna persona ammaestrata in ciò, il quale adoperò con sue malie, e con sue malvage operazioni, cose per le quali questo Gulfo fu del tutto privato del potere con alcuna femmina giacere: per lo qual maleficio, essendo dato opera alle sponsalizie, e Gulfo venuto in Italia, e cercato più volte di dare opera al consumamento del matrimonio, e non avendo mai potuto; tenendosi la donna schernita da lui, con poco onor di lui il mandò via, nè poi volle marito giammai. Gulfo tornatosi a casa, o che Ghibellino sospicasse non questo gli venisse che fatto avea agli orecchi, o per altro odio che gli portasse, il fece avvelenare, e così morì: ma questa seconda malvagità di Ghibellino conosciuta manifestò ancor la prima, per le quali cose assai nobili uomini della Magna si levarono a dover questa [p. 15 modifica]iniquità vendicare; e così molti ne furono in aiuto e in sussidio di Ghibellino; e tanto procedette la cosa avanti, che quasi tutta Alamagna fu divisa, e sotto questi due nomi Guelfo e Ghibellino guerreggiarono. Nè stette questa maledizione contenta a’ termini della Magna, ma trapassò la fama d’essa in Italia, la quale udita dalla contessa Matelda e conoscendo la innocenza di Gulfo, eia iniquità di Ghibellino, in aiuto di quelli che vendicar voleano la morte di Gulfo mandò grandissimo sussidio, nel quale furono molti nobili uomini italiani: e perciocchè per avventura in Italia erano similmente delle divisioni, quantunque senza alcun notabile nome fossero, assai di quegl’Italiani, che d’altro animo erano che coloro i quali erano andati a vendicar Guelfo, andarono dalla parte avversa, mossi da questa ragione, che se avvenisse agli avversarii loro d’aver bisogno d’aiuto contra di loro, pareva loro essi con l’avere aiutata la parte di Guelfo aver dove ricorrere; e perciò, acciocchè a loro similmente non fallasse ricorso se bisognasse, andarono nell’aiuto di Ghibellino: e poi l’una parte e l’altra tornatisene di qua, ne recarono questi soprannomi, cioè quelli che in aiuto della parte di Guelfo erano andati si chlamaron guelfi, e gli altri ghibellini. Ed essendo questa pestilenza per tutta Italia distesa, divenne nella nostra città potentissima; e per la uccisione stata fatta d’un nobile cavaliere, chiamato messer Bondelmonte, mise maravigliosamente le corna fuori; e quegli che co’ parenti del cavaliere ucciso teneano si chiamaron guelfi, de’ quali furon capo i Bondelmonti, e la parte degli [p. 16 modifica]ucciditori si chiamò ghibellina, e furonne capo gli Uberti; e questa è quella parte alla quale messer Farinata dice, che gli antichi dell’autore furono fieramente avversi, siccome uomini i quali erano guelfi, e con quella parte teneano contro a’ ghibellin.

Sì che per due fiate gli dispersi,

cioè gli cacciai di Firenze insieme con gli altri guelfi: e questo fu la prima volta essendo l’imperador Federigo privato d’ogni dignità imperiale da Innocenzio papa e scomunicato, e trovandosi in Lombardia per abbattere e indebolire le parti della chiesa in Toscana, mandò in Firenze suoi ambasciadori; per opera de’ quali fu racceso l’antico furore delle due parti guelfe e ghibelline nella città, e cominciaronsi per le contrade di Firenze, alle sbarre e sopra le torri, le quali allora c’erano altissime, a combattere insieme, e a danneggiarsi gravissimamente: e ultimamente in soccorso della parte ghibellina mandò Federigo in Firenze milleseicento cavalieri; la venuta de’ quali sentendo i guelfi, nè avendo alcun soccorso, a di 2 di febbraio nel 1248, di notte s’usciron della città, e in diversi luoghi per lo contado si ricolsono, di quegli guerreggiando la città. È vero che poi venuta la novella in Firenze, come lo imperador Federigo era morto in Puglia, si levò il popolo della città, e volle che i guelfi fossero rimessi in Firenze e così furono, a dì 7 di gennaio 1250. La seconda volta ne furon cacciati, quando i Fiorentini furono sconfitti a Monte Aperti da’ Sanesi; per l’aiuto che i Sanesi ebbero dal re Manfredi, per opera di messer Farinata, il quale avea mandata la [p. 17 modifica]piccola masnada avuta da Manfredi con la sua insegna, in parte che tutti erano stati tagliati a pezzi, e la insegna ec. La qual novella come fu in Firenze, sentendo i guelfi che i ghibellini con le masnade del re Manfredi ne venieno verso Firenze, senza aspettire alcuna forza, con tutte le famiglie loro, a dì 13 di settembre 1260, se ne uscirono: e poi avendo il re Carlo primo avuta vittoria, e ucciso il re Manfredi, tutti vi ritornarono, e i ghibellini se n’uscirono fuori; de’ quali mai poi per sua virtù o operazione non ve ne ritornò alcuno: per la qual cosa dice l’autore, Se e’ fur cacciati, i miei antichi da voi, e’ tornar d’ogni parte, dove che si fossero,

Risposi lui, e l’una, e l’altra fiata,

come di sopra è stato mostrato: Ma i vostri, cioè gli Uberti, i quali Con gli altri ghibellini furon cacciati, quando la seconda volta vi ritornarono i guelfi, non appreser ben quell’arte, cioè del ritornare, perciocchè come detto è mai non ci tornarono, nè per quel che appaia sono per ritornarci. Allor surse. Qui comincia la quarta particella di questa terza parte principale, nella quale l’autore mostra come un’altra anima surgesse, e dimandasselo d’alcuna cosa, nè gli rispondesse; e però dice, Allor, mentre io rispondea, come detto è, a messer Farinata, surse, si levò, alla vista scoperchiata, cioè infìno a quella parte della sepoltura non coperchiata, della qual si poteva veder di fuori,

Un ombra, lungo questa, insino al mento:

non si levò diritta in piè, come s’era levato [p. 18 modifica]messer Farinata, ma tanto che dal mento in su si vedea,

Credo, che s’era inginocchion levata,

e così dovea essere, poichè più non se ne vedea.

D’intorno mi guardò, come talento,

cioè volontà,

Avesse di veder s’altri era meco;
Ma poi che il sospicciar fu tutto spento,

cioè poichè vide che io era solo,

Piangendo disse: se per questo cieco

Carcere, dell’inferno, il quale meritamente chiama carcere, perciocchè alcuno che v’entri mai uscir non ne puote: e chiamal cieco, non perchè cieco sia, perciocchè il luogo non ha attitudine niuna di poter vedere nè d’essere cieco, ma perciocchè ha a far cieco chi v’entra, in quanto egli è tenebroso, e ne’ luoghi tenebrosi non si può veder lume, vai, per altezza d’ingegno, avendo per quella saputo trovar via e modo, per lo quale senza ricevere offesa, o doverci rimanere, tu ci vai,

Mio figlio ov’è, perche non è el teco?

quasi voglia dire, conciosiacosachè egli sia così di maraviglioso ingegno dotato come sia tu:

Ed io a lui: da me stesso non vegno:

cioè per l’altezza d’ingegno che in me sia: Colui che attende là, e mostrò Virgilio, per qui mi mena, cioè per questo luogo, Forse cui Guido vostro, figliuolo, ebbe a disdegno. Le sue parole, cioè se tu vai per altezza d’ingegno, come non è mio figlio teco? e ’l modo della pena, cioè vederlo dannato [p. 19 modifica]tra gli altri epicurii, M’avevan di costui, che mi parlava, già detto il nome, cioè m’avevan fatto conoscere chi egli era: Però fu la risposta, mia a lui, così piena, senza mostrare in alcuna cosa di non intenderlo. È qui adunque da sapere che costui, il quale qui parla con l’autore, fu un cavalier fiorentino chiamato messer Cavalcante de’ Cavalcanti, leggiadro e netto cavaliere, e seguì l’opinion d’Epicuro, e non credette che l’anima dopo la morte del corpo vivesse, e che il nostro sommo bene fosse ne’ diletti carnali; e per questo siccome eretico è dannato. E fu questo cavaliere padre di Guido Cavalcanti, uomo costumatissimo, e ricco, e d’alto ingegno; e seppe molte leggiadre cose fare, meglio che alcun nostro cittadino: e oltre a ciò fu nel suo tempo reputato ottimo loico e buon filosofo, e fu singularissimo amico dell’autore, siccome esso medesimo mostra nella sua Vita nuova, e fu buon dicitore in rima: ma perciocchè la filosofia gli pareva, siccome ella è, da molto più che la poesia, ebbe a sdegno Virgilio e gli altri poeti. E perciocchè messer Cavalcante conosceva l’ingegno del figliuolo, e la singulare usanza la quale con l’autore avea, riconosciuto prestamente l’autore, senza alcuna premessione d’altre parole, nella prima giunta gli fece la domanda che di sopra si disse. Poi seguita l’autore e dice, che attristatosi messer Cavalcante per la risposta udita,

Di subito drizzato, gridò: come

Dicesti, egli ebbe! il che si suol dire delle persone [p. 20 modifica]passate di questa vita, e però segue: non viv’egli ancora?

Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?

del sole, perciocchè gli occhi de’ morti non sono quanto i corporali feriti, cioè illuminati da alcun lume. Quando s’accorse, aspettando, d’alcuna dimora

Ch’io faceva dinanzi alla risposta,

cioè non rispondea così subitamente, Supin ricadde. segno di pena è il cader supino, la quale assai bene si può comprendere essergli venuta, estimando che il figliuolo fosse morto, poichè l’autore non gli rispondea cosi tosto; perciocchè gli uomini sogliono soprastare alla risposta, quando la conoscono dovere esser tale, che ella non debba piacere a colui che ha fatta la domanda, e più non parve fuora. Puossi nelle predette cose comprendere quanto sia l’amor de’ padri ne’ figliuoli, quando veggiamo che in tanta afflizione, in quanta i dannati sono, essi non gli dimenticano, e accumulano la pena loro quando di loro odono o suspicano alcuna cosa avversa. Ma quell’altro magnanimo. Qui comincia la quinta particella della terza del presente canto, nella quale poichè l’autore ha mostrato, come quello spirito, il quale s’era in ginocchie levato, era nella sepoltura ricaduto, ne dice come messer Farinata, continuando le sue parole, gli annunzia alcuna cosa di sua vita futura: dice adunque: Ma quell’altro magnanimo, cioè messer Farinata, a cui posta, cioè a cui richiesta, Restato m’era, in quel luogo, non [p. 21 modifica]mutò aspetto, per cosa che detta fosse, Nè mosse collo, volgendosi in giù alle parole di messer Cavalcante, nè piegò sua costa, cioè suo lato;

E se (continuando al primo detto)

cioè a quello che di sopra avea detto, d’avere due volte cacciati i passati dell’autore, Egli han quell’arte, del tornare d’onde cacciati sono, disse, male appresa, in quanto non tornano in Firenze,

Ciò mi tormenta più che questo letto,

cioè, che questo sepolcro acceso nel quale io giaccio:

Ma non cinquanta volte fia raccesa
La faccia della donna che qui regge,

a dichiarazion di queste parole è da sapere, come altra volta è stato detto, Proserpina esser moglie di Plutone e reina d’inferno: e questa Proserpina talvolta è da intendere per una cosa, e tal per un’altra: e tra l’altre cose, per le quali i poeti la prendono, alcuna volta è per la luna, la quale però si dice reggere in inferno, perciocchè la sua potenza è grandissima appo questi corpi inferiori, i quali per rispetto delle cose superiori si posson dire essere in inferno; e però intendendosi per la luna, è da sapere, la luna di sua natura non avere alcuna luce, siccome noi possiamo vedere negli ecclissi lunari, ne’ quali ella non è veduta dal sole, per la interposizione del corpo della terra tra ’l sole e lei, rimane un corpo rosso senza alcuna luce, e così facendo il suo corso, quanto più dal sol si dilunga, più vegglamo del corpo suo lucido, insino a tanto che perviene alla [p. 22 modifica]quintadecima, e quivi allora veggiamo tutto il corpo suo luminoso e bello; e così si mostra a noi essere raccesa, cioè ralluminata la faccia sua: poi dal luogo, dove tutta la veggiamo, partendosi, e tornando verso il sole, continuamente par diminuisca il lume suo, in quanto a’ nostri occhi apparisce meno di quello che dal sole è veduto; e così se ne va continuamente diminuendo, infino a tanto che ell’è entrata sotto i raggi del sole; e di sotto a quegli uscendo, comincia, come dinanzi ho detto, a divenire ogn’ora più luminosa, infino alla quintadecima; e brevemente in 354 dì ella si raccende, cioè si vede tutta accesa dodici volte, perchè possiam dire che in quattro anni, e pochi di più, ella si raccenda cinquanta volte; e però vuol qui vaticinando dire messer Farinata, egli non saranno quattro anni, Che tu saprai, per esperienza, quanto quell’arte, del tornare chi è cacciato, pesa, cioè è grave; volendo per queste parole annunciargli, che avantichè quattro anni fossero, esso sarebbe cacciato di Firenze, il che avvenne avantichè fossero i due, o poco più: E se tu mai nel dolce mondo, cioè in questo, il quale quantunque pieno d’amaritudine sia, è dolce, cioè dilettevole, a rispetto dell’inferno, regge, cioè torni, Dimmi: perchè quel popolo, cioè i cittadini di Firenze, è sì empio, cioè crudele, Incontr’a’ miei, cioè agli Uberti, in ciascuna sua legge? delle quali, poichè cacciati furono, mai alcuna non se ne fece, nella quale alcun beneficio si concedesse a’ cacciati di Firenze, se alcuna se ne fece mai, che da quel [p. 23 modifica]cotal beneficio non fossero eccettuati gli Uberti generalmente tutti. Ond’io a lui, risponde l’autore e dice: lo strazio, e ’l crudo scempio,

Che fece l’Arbia colorata in rosso,

Tali orazion, cioè composizioni contro alla vostra famiglia, fa far nel nostro tempio, cioè nel nostro senato, nel luogo dove si fanno le riformagioni, e gli ordini e le leggi; il quale chiama tempio, siccome facevano i Romani, i quali chiamavano talvolta tempio il luogo dove le loro deliberazioni facevano. E acciocchè pienamente s’abbia l’intelletto della risposta che l’autore fa, è da sapere che avendo il comun di Firenze guerra col comun di Siena, si fece per opera di messer Farinata, il quale allora era uscito di Firenze, che il re Manfredi mandò in aiuto del comun di Siena il conte Giordano con ottocento Tedeschi, i quali avendo, tenne messer Farinata trattato con più cittadini ghibellini e altri, co’ quali compose quello che poi seguì, come si dirà appresso. Poi con astuzia, mandati frati minori, con falsa informazione data loro, agli anziani di Firenze, e loro per parte di coloro che luogo di comun teneano in Siena, mostrando di dover dar loro una porta di Siena se ad oste v’andassero; trassono i Fiorentini con ogni loro sforzo fuori della città, sotto titolo d’andare a fornire Monte-alcino; e pervennero infino a Monteaperti in Valdarbia, dove contro all’opinion di tutti, usciti loro all’incontro i Sanesi co’ Tedeschi del re Manfredi, e molti dell’oste de’ Fiorentini, secondochè con messer Farinata erano in concordia, partitisi dell’oste de’ Fiorentini, entrarono in quella de’ [p. 24 modifica]Sanesi: di che quantunque sbigottissero i Fiorentini, nondimeno fatte loro schiere, s’avvisarono con la gente de’ Sanesi; ed essendo già la battaglia cominciata, messer Bocca Abati, il quale era di quegli che con messer Farinata sentiva, accostatosi a messer Iacopo del Vacca de’ Pazzi di Firenze, il quale portava la insegna del comune, levata la spada, ferì il detto messer Iacopo e tagliogli la mano, di che convenne la insegna cadesse; per la qual cosa i Fiorentini del tutto rotti1, senza segno e senza consiglio furono sconfitti, e molta gran quantità di loro e di loro amici furono in quella sconfitta uccisi; il sangue dei quali n’andò infino in un fiume ivi vicino chiamato Arbia; e ciò fu a dì 4 di settembre 1260: la qual cosa saputa poi pienamente per tutti, fu ed è cagione, che tornati i guelfi in Firenze, mai della famiglia degli Uberti alcuna cosa si volesse udire, se non in disfacimento e distruzion di loro: e per queste cose state per opera di messer Farinata fatte, dice l’autore, che fece l’Arbia colorata in rosso del sangue de’ Fiorentini. E seguita,

Poi ch’ebbe, sospirando, il capo scosso,

come color fanno i quali minacciano, A ciò non fu’ io sol, disse, cioè a far questi trattati contro al comun di Firenze: quasi voglia dire, comechè contro alla mia famiglia s’adoperi o procuri ogni disfacimento, e non contro agli altri che ad adoperar questo fur meco; nè certo, Senza cagion con gli altri, che a ciò tennero, sarei mosso, a dover fare [p. 25 modifica]quel che si fece; vogliendo per questo intendere, che il comune di Firenze, il quale il teneva fuori di casa sua, gli dava giusta cagione d’adoperare ciò che per lui si poteva, per dover tornare in casa sua: poi segue,

Ma fu’io sol colà dove sofferto,

cioè acconsentito, Fu per ciascun, Fiorentino, che a quello ragionamento si trovò, di torre via Fiorenza, cioè di disfarla,

Colui che la difesi a viso aperto,

che essa non fosse disfatta: volendo per questo atto dire, che egli e’ suoi dovrebbono sempre esser cari e a grado al comun di Firenze, più che alcuni altri cittadini. È il vero, che poichè i ghibellini furono tornati in Firenze per la sconfitta ricevuta a Monteaperti, e i guelfi partitisi di quella, si ragunarono ad Empoli ambasciadori e sindachi di tutte le terre ghibelline di Toscana, e molli altri nobili uomini ghibellini, e così ancora più gran cittadini di Firenze, per dover riformare lo stato di parte ghibellina, e far lega e compagnia insieme a dover contrastare a chiunque contro a quella volesse adoperare: e tra l’altre cose che in quello ragunamento furono in bene di parte ghibellina ragionate, fu che la città di Firenze si disfacesse, e recassesi a borghi, acciocchè ogni speranza si togliesse a’ guelfi di mai dovervi ritornare: e ciò era generalmente per tutti consentito, e ancora per i Fiorentini che v’erano, fuor solamente per uno; e questi fu messer Farinata, il quale levatosi ritto, con molte ornate parole conIradisse a questo dicendo nella fine di quelle, che se [p. 26 modifica]altri non fosse che ciò vietasse, esso sarebbe colui, che con la spada in mano mentre la vita gli bastasse il vieterebbe a chi far lo volesse: per le quali parole, avendo riguardo all’autorità di tanto cavaliere, e ancora alla sua potenza, fu il ragionamento di ciò lasciato stare. Deh se riposi mai. Qui comincia la sesta particella della terza parte di questo canto, nella quale l’autor muove un dubbio a messer Farinata, ed egli gliele solve: dice adunque così,

Deh se riposi mai vostra semenza

cioè i vostri discendenti: e in queste parole alquanto catta la benivolenza di messer Farinata, acciocchè più benivolamente gli sodisfaccia di quello di che intende di domandarlo.

Prega’ io lui, solvetemi quel nodo,

cioè quel dubbio,

Che qui ha inviluppata mia sentenza,

cioè il mio giudicio, intantochè io non ne posso veder quello che io desidero. El par che voi, cioè anime dannate, veggiate, se ben odo, quello che voi m’avete detto, e comprendo quello di che messer Cavalcante mi domandò, veggiate, Dinanzi, cioè preveggiate, quel che ’l tempo seco adduce, nel futuro, E nel presente, tempo, tenete altro modo, in quanto non par che cognosciate nè veggiate le cose presenti: e questo dice, perciocchè messer Farinata gli avea detto, che avanti che quattro anni fossero, egli sarebbe cacciato di Firenze, in che si dimostra loro veder le cose future: e messer Cavalcante l’avea domandato, se il figliuolo vivea, in che si dimostra che [p. 27 modifica]essi non conoscono le cose presenti: e messer Farinata gli risponde,

Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
Le cose, disse, che ne son lontano;

suole questo vizio avvenire agli uomini quando vengono invecchiando, per omori i quali vengon dal cerebro; ed essendo nell’occhio, per la vicinanza loro alla virtù visiva, alquanto l’occupano intorno alla vista delle cose propinque: ma come la virtù visiva si stende più avanti, e lontanasi dall’adombrazion dell’omore, tanto men mal vede, e con più sincerità riceve le forme obiette: così adunque i dannati offuscati dalla propinquità della caligine infernale, non posson le cose propinque vedere; ma ficcando con la meditazione l’acume dell’intelletto per le cose superiori, veggion le più lontane: e come queste possan vedere o nò, quello che per Tullio se ne tiene è dimostrato nel precedente canto, dove l’autore induce Ciacco a predire quello che esser deve della città partita: e seguita, Cotanto, quanto odi, ancor ne splende, cioè presta di luce, il sommo duce, cioè Iddio, senza la grazia del quale alcuna cosa non si può fare: Quando s’appressan, le cose future, n’è del tutto vano Nostro intelletto, in quanto niuna cosa ne conosciamo: e s’altri, o demonio o anima che tra noi discenda, non ci apporta, vegnendo dell’altra vita, e di quella ci dica novelle,

Nulla sapem di vostro stato umano,

cioè di cosa che lassù si faccia. Però comprender puoi, da ciò ch’io ti dico, che tutta morta, [p. 28 modifica]

Fia nostra conoscenza da quel punto,
Che del futuro fia chiusa la porta,

cioè dal dì del giudicio innanzi; perciocchè allora saranno serrate tutte quelle arche con i loro coperchi, e non saranno più uomini, se non o dannati o beati, de’ quali niuno farà transito l’uno all’altro; nè si faranno sopra la terra alcune operazioni, le quali eziandio li spiriti dannati possano laggiù riportare; anzi secondo tengono i santi, gli spiriti maladetti, de’ quali tutto questo caliginoso aere è pieno, saranno tutti richiusi e serrati nel profondo dell’inferno. Allor, come di mia. Qui comincia la settima particula di questa terza parte principale, nella quale l’autore scrive quello che a messer Farinata dicesse, che dicesse a quello spirito caduto: e dice,

Allor, come di mia colpa compunto,

cioè pentuto di ciò che io non aveva prestamente risposto a messer Cavalcante, che il figliuolo vivea,

Diss’io: or dicerete a quel caduto,

cioè a messer Cavalcante, Che ’l suo nato, cioè Guido Cavalcanti, è tra’ vivi, di questa mortal vita, ancor congiunto, e perciò ancora vive; E s’io fu’ dianzi, quando me ne domandò, alla risposta muto, cioè in quanto tacendo non gli risposi, Fat’ei saper che ’l fei perchè pensava Già nell’error che m’avete soluto,

qui poco di sopra.

E già il maestro mio mi richiamava:

[p. 29 modifica]Perch’io pregai lo spirito, di messer Farinata, più avaccio, più tosto,

Che mi dicesse chi con lui si stava,

in quell’arca.

Dissemi: qui con più di mille giaccio,

quasi voglia dire con infiniti: Qua dentro, in quest’ arca, è il secondo Federigo, questo Federigo fu figliuolo d’Arrigo sesto imperadore, e nepoto di Federigo Barbarossa; il quale Arrigo per introdotto d’alcuni suoi amici, essendo senza donna, prese con dispensazion della chiesa per moglie Gostanza, figliuola che fu del buon re Guglielmo di Sicilia, la quale era monaca, e già d’età di cinquantasei anni; ed ebbene in dota il reame di Sicilia, il quale allora teneva Tancredi, il quale fu de’ discendenti del re Ruggieri, ed era male in concordia con la chiesa; e dopo lui rimase ad un suo figliuolo chiamato Guglielmo, contro al quale andò il detto Arrigo imperadore, e per tradimento il prese, e rimase libero signor del reame; e nella detta Gostanza generò un figliuolo, il quale fu quel Federigo del qual diciamo: e morendo la detta Gostanza, pochi anni appresso la natività del figliuolo, lui lasciò nelle braccia e nella guardia della chiesa, la quale con diligenza l’allevò: e come ad età perfetta divenne, gli diede la possessione del reame di Sicilia; e non passò guari di tempo, che fattolo eleggere, il coronò imperador di Roma. Divenne costui maraviglioso uomo, e in molte cose eccellente e virtuoso: ma non durò guari in concordia con la chiesa, per lo volere usurpare le ragioni di quella: poi [p. 30 modifica]venuto in concordia con lei, siccome ne’ patti della pace par che fosse, fece il passaggio oltre mare; nel quale essendo occupato, la chiesa gli fece tutto il reame di Sicilia ribellare: e oltre a ciò, scrisse il papa al soldano, la via la quel dovesse tenere a farlo di là morire: le quali lettere il soldano, non per amor che portasse all’imperadore, ma per seminar zizzania e malavoglienza tra lui e la chiesa, acciocchè esso potesse più sicuro vivere dello stato suo, mostrò allo imperadore: le quali come egli vide e conobbe, concordatosi col soldano, e sapendo ancora come la chiesa gli avea ribellato il reame, occultamente e con poca compagnia se ne tornò di qua, e fu ricevuto, secondochè alcuni raccontano, in Benevento; e brevemente in piccolissimo spazio di tempo recuperò tutto senza alcuna arme il reame suo; e per dispetto della chiesa mandò a Tunisi per una gran quantità di saracini, e diede loro per istanza una città stata lungamente disfatta, chiamata Lucera, come che i volgari la chiamino Nocera, nel mezzo quasi di Puglia piana; ed egli per sè dall’una delle parti, la quale è alquanto più rilevata che l’altra, vi fece un mirabile e bello e forte castello, il quale ancora è in piè: e’ saracini nel compreso della terra disfatta fecero le lor case, come ciascun potè meglio. Ed essendo il paese ubertoso, volentieri vi dimorarono, e multiplicarono in tanta quantità, che essi correvano tutta la Puglia quando voglia ne venia loro. Oltre a ciò in Lombardia e in Toscana indebolì forte i sudditi e la parte della chiesa, e gran guerra menò loro, e molti danni fece, non lasciando nel suo regno [p. 31 modifica]usare alcuna sua ragione alla chiesa. Fu gran letterato, e nella Magna fu reputato da molto, e gl’infedeli avevan gran paura di lui. Ebbe di diverse femmine più figliuoli, de’ quali così de’ non legittimi, come dei legittimi, fece da cinque o vero sei re: ed essendogli stato da un suo astrolago predetto che egli morrebbe in Fiorenza, sempre si guardò di venire in questa città: poi avvenendo che egli infermò in Puglia, da Manfredi allora prenze di Taranto, suo figliuolo naturale, e da altri suoi baroni, ne fu così infermo portato in una terra in Puglia la quale ha nome Fiorenza; e quivi crescendo la infermità, domandò dove egli fosse; ed essendogli risposto che egli era in Fiorenza, si dolse forte, e subitamente si giudicò morto, e cosi disse a’ suoi. Poi comechè la infermità l’aggravasse forte, vogliono alcuni, che l’ultima notte che fece in terra, che il prenze Manfredi, per desiderio d’avere il mobile suo, gli ponesse un primaccio in su la bocca, e facessel morire: e così scomunicato e in contumacia di santa chiesa fini in Fiorenza i giorni suoi: e perciocchè egli vivendo, in assai cose aveva mostrato tenere, che l’anima insieme col corpo morisse, il pone l’autore in questo luogo esser dannato con gli epicurii, chiamandolo Federigo secondo, perciocchè fu il secondo imperadore che avesse nome Federigo, E ’l Cardinale; par qui che tutti s’accordino che l’autore, il qual non nomina questo cardinale, voglia intendere del cardinale Ottaviano degli Ubaldini: e perciocchè egli fu uomo di singulare eccellenza, voglia che dicendo semplicemente cardinale s’intenda di lui, il quale, secondochè alcuni scrivono, tenne [p. 32 modifica]vita piuttosto signorile che chericale: nè fu alcuno altro che tanto fosse e si mostrasse ghibellino quanto egli, in tanto, che senza curarsi che papa o altri se ne avvedesse, fieramente favoreggiò i ghibellini nemici della chiesa; e avendo senza guardarsi innanzi aiutati in ciò che potuto avea sempre i ghibellini, e in un solo bisogno trovandosi da loro abbandonato, e di ciò dolendosi forte, tra l’altre parole del suo rammarichio disse: se anima è, perduta l’ho per i ghibellini: nella qual parola fu compreso per molti lui non aver creduto che anima fosse, la qual dopo il corpo vivesse: per la qual cosa l’autore dice, lui con gli altri eretici epicurii essere in questo luogo dannato: e degli altri mi taccio, quasi voglia dire, io te ne potrei molti altri contare. Indi s’ascose. Qui comincia la quarta parte principale del presente canto, nella quale l’autore dice, come tornato a Virgilio, dove con lui seguitandolo pervenisse; dice adunque, Indi, cioè poichè così ebbe detto, s’ascose, nella sua arca, riponendosi a giacere: ed io inver l’antico Poeta volsi i passi, tornandomi a lui, ripensando,

A quel parlar che mi parea nimico,

cioè a quel che messer Farinata gli avea detto,

Ma non cinquanta volte fia raccesa ec.

Egli, cioè Virgilio, si mosse, veggendo me tornare: e poi così andando,

Mi disse: perche se’ tu sì smarrito?

cioè sbigottito,

Ed io gli satisfeci al suo dimando

, [p. 33 modifica]dicendogli quello che del mio dovere esser cacciato di Firenze aveva udito da messer Farinata.

La mente tua conservi quel ch’udito
Hai contra te, mi comandò quel saggio,

Ed ora attendi qui, a quel ch’io ti vo’ dire, e drizzò l’dito, quasi disegnando, come fanno coloro che più vogliono le lor parole imprimere nell’intelletto dell’uditore,

Quando sarai dinanzi al dolce raggio,

cioè alla chiara luce, Di quella, cioè di Beatrice, il cui bell’occhio, cioè il santo e divino intelletto, tutto vede, cioè il preterito, il presente e il futuro,

Da lei saprai di tua vita il viaggio,

cioè come ella dee andare e a che riuscire; e vuole in queste parole Virgilio, per confortar l’autore, mostrare non sempre dire il vero l’anime dannate delle cose che sono avvenire; e per questo vuole si conforti, quasi dicendo esser possibile non dover cosi avvenire; ma che quando sarà in cielo da Beatrice, la quale in Dio vede la verità d’ogni cosa, saprà il vero di ciò che avvenir gli dee. Appresso volse a man sinistra, piegandosi, il piede: Lasciammo il muro, della terra, dilungandocene, e gimmo inver lo mezzo, della città dolente,

Per un sentier, ch’ad una valle fiede,

cioè riesce,

Che ’nfin lassù facea spiacer suo lezzo,

cioè suo puzzo. Questo canto non ha allegoria alcuna.

  1. Il codice ha: del tutto ritti.