La freccia del parto ed altre novelle/La freccia del parto

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La freccia del parto

La freccia del parto ed altre novelle ../Le tre rose IncludiIntestazione 1 luglio 2023 100% Da definire

La freccia del parto ed altre novelle Le tre rose

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7 e 45.

Costanza rileggeva per la cinquantesima volta l’ora della corsa. Ella era sempre un po’ distratta; ma fatta finalmente persuasa che il diretto per Calolzio non partiva che alle 7 e 45, e consultato il suo cronometro che segnava le 6, capì che aveva un’oretta abbondante di aspettativa.

Si sdrajò nella sua poltroncina americana e fece coll’occhio l’inventario [p. 6 modifica] del bagaglio: un grosso baule, una cassa, una borsa, una scatola di cartone, lo scialle e il parasole, — c’era tutto. Incrociò allora le mani sul grembo e si pose a guardar fuori dalla finestra.

Era una bella mattina di giugno, fresca, con un cielo spazzato, limpidissimo. Era piovuto durante la notte, e si sentiva nell’aria l’odore della terra bagnata; Costanza l’aspirò deliziosamente, dilatando le narici, socchiudendo gli occhi.

— Oh il bel tempo per andare in campagna!

Stette ferma un istante su questa esclamazione, vedendosi passare nel cervello un panorama di prati verdi, di cespugli fioriti, di colline, di [p. 7 modifica] ruscelli, d’alberi ombrosi; di brevi soste sotto la tenda della veranda con un ricamo in mano; di lunghe passeggiate sulla strada maestra al lume della luna.

A poco a poco i suoi pensieri cambiarono; si confusero con mille reminiscenze del passato, vagarono incerti da ondate improvvise di luce a tenebre profonde; fermandosi su certe cadenze di musiche lontane, su fruscii indistinti, su una frase interrotta, su una parola senza senso. Profili diversi le si aggrupparono intorno, faccie bieche, occhi ridenti, sorrisi maliziosi, fronti nobili e pure, — e poi scene intere che le passavano davanti come un baleno nei loro più minuti particolari; il tal giorno, la tal ora, con quella luce, quella camera, quel profumo, quel colore, — [p. 8 modifica] e subito sparivano per dar luogo ad altre visioni tristi o serene, maledette o care, tutte perdute nel gran mistero del tempo. — Si alzò con un movimento vivace e appoggiò i gomiti alla finestra. Presso a lei, sul davanzale, c’era un vaso di gerani bianchi; ne strappò una foglia e si pose a morsicarla, cantarellando a mezza voce la romanza prediletta delle donne che hanno amato:

Quando il tuo labbro sul labbro mio....

Nella voce di Costanza non c’era ombra di rammarico. Ella aveva amato ed era stata amata molto, — ciò le bastava. — Quando giunse al verso

Io rispondeva che non credeva,

vi mise bensì una leggiera tinta [p. 9 modifica] malinconica, ma di quella malinconia dolce che ha perdonato. Sapeva che in amore ci inganniamo tutti reciprocamente e che le lagrime che noi versiamo non sono che il giusto compenso di quelle che facciamo spargere.

L’amore è come un balzello che si paga nelle mani dell’esattore, ma che va allo stato; l’amante è la forma esterna, momentanea e mortale di quel grande Iddio che vive da secoli e che non morrà mai. Che importa che si chiami Romeo, Paolo o Torquato? Che importa la veste? L’anima è una sola. Giulietta, Francesca ed Eleonora hanno amato tutte ad un modo, hanno amato sotto diverse forme il medesimo uomo.

E perchè dovrà lagnarsi il pellegrino che è giunto in fine della sua strada? [p. 10 modifica] Non è quello il momento più dolce, il momento di riposare guardando il cammino percorso? Dopo l’ebbrezza dell’amare c’è la soavità del non amar più.

Costanza si era fabbricata una felicità colle sue memorie; aveva il vantaggio del calore senza il fuoco. I pericoli, gli affanni, le lotte, i sacrifici erano tutti passati; le restava ora la dolcezza dei ricordi, idealizzata, come quelle immagini di santi che alcuni pittori dipingevano, su fondo d’oro o su fondo azzurro, nei messali antichi.

Ella si sentiva calma e forte; nè avrebbe voluto tornare indietro, nè l’avvenire la spaventava. Il mondo allettava la sua anima intelligente, e il suo cuore amoroso ne comprendeva i dolori. Dove c’era da entusiasmarsi, dove [p. 11 modifica] c’era da commuoversi, Costanza era sempre là. Aveva tanta vita in sè stessa che non ne chiedeva ad alcuno; dava la sua agli altri. E poichè l’era toccata la somma ventura di conservare intatte le sue forze anche dopo le battaglie; poichè cadute le illusioni le restava ancora la fede, ella percorreva serena il resto del cammino, guardando in alto!

In questo momento, mentre stava masticando la foglia di geranio, Costanza pensava al suo ultimo amore; se ci fosse stato il bisogno ella si sarebbe felicitata con sè stessa della quiete che era subentrata a quella tempesta. Non doveva essere un gusto a trovarsi innamorata nel tempo ch’ella doveva partire per una lunga campagna, in casa [p. 12 modifica] di parenti maliziosi, fra una piccola società pettegola e maldicente. Costanza era felice di potersi presentare armata fino ai denti, inaccessibile a qualunque attacco.

Tale riflessione la pose di buon umore. Guardò un’altra volta il suo bagaglio se era legato bene e tutto chiuso perfettamente; levò il guanto della mano destra per girare le chiavi, poi tornò alla finestra.

L’aria del mattino s’intiepidiva sotto i raggi del sole; dalle case, dalle strade vicine salivano i rumori confusi di una città che si sveglia: sui tetti svolazzavano le rondinelle, e dalle vicine e dalle lontane chiese l’onda sonora delle campane si fondeva in un concerto solo per salutare il giorno. [p. 13 modifica]

— Addio, Milano, addio! La più libera e la più lieta delle tue cittadine se ne va.

Sette ore: lesse Costanza sul piccolo quadrante del suo orologio.

Era finalmente tempo di muoversi.

«Al gentilissimo signor Rizzio

(Villa Paolina)

«Gentilissimo amico. Se ieri sera non m’aveste tanto perseguitata colle vostre opposizioni, mi sarei ricordata d’invitarvi a pranzo per tenere un po’ di [p. 14 modifica] compagnia a mia cugina arrivata stamane: ma sono abbastanza buona da rimediare alla dimenticanza. Vi aspetto senza fallo. Sapete che ci mettiamo a tavola alle cinque.

«Godo annunciarvi che i turaccioli preparati col cerchio e colla catenella, costano una lira e cinquanta centesimi cadauno; avete perduto la vostra scommessa e siete in mio potere. Non ho ancora pensato il genere di discrezione che devo infliggervi. Ma sarà certamente molto indiscreta.

«Vi stringo la mano,

Vostra affezionata
«Olimpia Matazzi


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«Alla gentilissima signora Matazzi»

(Villa Olimpi)

«Gentilissima signora. Accetto l’invito e la ringrazio anticipatamente. Mi dispiace che i turaccioli costino tanto; avrei giurato di poterli pagare settantacinque centesimi. Eccomi invece obbligato a giurare che pagherò la qualsiasi indiscrezione che a lei piacerà d’infliggermi.

«Sono con tutto il rispetto, di lei gentilissima signora,

Devotissimo
«A. Rizzio


«P S. Il latore della presente le recherà un saggio del mio giardino. Metto Flora e Pomona a’ suoi piedi, in aspettativa di mettermici io stesso.

«R.»

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— Oh! è un matto! — disse Olimpia leggendo forte il poscritto, e dissimulando così poco la sua gioia che Costanza domandò ridendo:

— È forse un tuo adoratore?

— Quasi. Figurati, è il solo uomo interessante in dieci chilometri di circuito, ed io non per vantarmi, sono l’unica donna possibile della nostra società. Vedrai che bell’assortimento di tipi esotici! Povero Rizzio, se non avesse la risorsa di farmi un po’ la corte.... È parente di mio marito. Oh siamo intimi. La sua casa è a quattro passi di quì.

— Hai sempre una conversazione numerosa?

— Non troppo. C’è la moglie del dottore, una meggiona dal placido viso, [p. 17 modifica] che non fa altro che calze e figliuoli tutto l’anno, che non porta mai il busto; e ad onta di questo s’impanca a discorrere qualche volta di eleganza; segno particolare: è grassa e fa una guerra atroce alle donne magre. Per gli uomini è più corriva.... gli accetta anche magri.

— Il tuo spirito è sempre quello d’una volta, Olimpia, e la tua lingua, anche.

— Che vuoi? — (Olimpia si strinse nelle spalle). — La mia non è maldicenza, è pura verità. Capita qualche volta, di rado per fortuna, madama la sindachessa colle sue due figlie; tre tegoli! In fatto di uomini, ho il dottore, Salviati, Puccini.... li conosci tutti mi pare.

— Salviati non era una tua vittima? [p. 18 modifica]

— Siii, lo è sempre un poco.

— E tuo marito?

— Va a caccia tutto il giorno. La casa è piena de’ suoi fucili e de’ suoi stivali; ti assicuro che ci vuole tutta la mia pazienza. Si portano a Milano i vestiti a pieghe nel dorso? Vorrei farmene uno.

— A Milano poco. Sono abiti da viaggio e da campagna, per te forse andrebbe bene....

— Ne parleremo poi. E, dimmi, gli affari di cuore come vanno?

— Sai bene che ci ho messo sopra un sasso coll’iscrizione: qui giace.

— Come lo dici seriamente! Si direbbe che vuoi farmelo credere.

— Io lo credo di sicuro.

— Baje, alla tua età! [p. 19 modifica]

— Non ho mica detto di voler farmi monaca. Solamente mi piace la mia indipendenza e la difendo per terra e per mare.

— Fino al giorno che si scoprirà la navigazione aerea.

Le due cugine risero insieme di gran cuore, e prendendosi sotto braccio s’avviarono in giardino: Olimpia ciarlando sempre: Costanza ascoltandola un po’ distratta, com’era suo costume.

Non si somigliavano in nulla, quantunque fossero della medesima età, alte e snelle entrambe, e tutte e due coi capelli neri.

Un osservatore superficiale avrebbe esitato nella scelta: un osservatore fino no, chè la bellezza di Costanza era di quelle dove l’anima ha la maggior [p. 20 modifica] parte. Gli occhi splendenti d’intelligenza, larghi, sereni riflettevano come in uno specchio i nobili sentimenti di lei, che un dolce e buon sorriso confermava; mentre lo sguardo obliquo e sospettoso d’Olimpia tradiva il suo freddo cuore incapace d’amore. Costanza inoltre aveva quel non so che di distinto che è come il profumo del pensiero, la forma visibile di una bellezza ideale; quel non so che che fa riconoscere in mezzo a mille la donna superiore e che nessun’arte insegna perchè è una squisita educazione del sentimento.

Si amavano per abitudine, per convenienza, perchè erano cresciute insieme, e perchè le loro menti egualmente coltivate potevano incontrarsi nei sog[p. 21 modifica]getti di conversazione; simpatia sincera non poteva esistere fra loro ma si scambiavano quell’affetto convenzionale che basta nei rapporti semplici della vita. Ora poi l’interesse le riuniva. Olimpia aveva pensato che potevano ben vivere insieme, e Costanza tentava la prova.

— Vedrai come si fa aspettare, — disse Olimpia entrando nel tinello e levando il coperchio alla zuppiera.

— Chi? domandò il marito affacendato in un angolo della tavola a preparare la zuppa al suo cane. [p. 22 modifica]

— Rizzio.

— Può darsi; non è l’uomo della fretta.

— Dovrebbe però essere quello della galanteria, e quando due signore....

Un’ombra passò dietro la tenda della finestra bassa che dava sul giardino.

— Eccolo!

— Buon giorno; ho io tardato troppo? Ne domando mille perdoni.

— Benignamente concessi. Vi presento a mia cugina.

Rizzio s’inchinò. Era un uomo di poca apparenza, giovane ancora e un po’ sofferente all’aspetto; aveva una voce simpaticissima, dalle cadenze smorzate, qualche volta ironiche.

È da mia cugina che ho saputo il prezzo dei turaccioli. Eh, signor ostinato, è una bella sconfitta la vostra. [p. 23 modifica]

— Finchè sono sconfitto nei turaccioli....

— Non dubitate, vi batteremo su tutta la linea.

— Pazienza. Dirò allora, parodiando il saggio antico: Batti, ma....

— Ma che cosa?

— Ve lo dirò al momento che mi batterete.

— Sempre prudente. Ma voglio essere prudente anch’io, e per questo tengo in serbo la discrezione. Quando il corno suonerà.... Tosto Rizzio accorrerà!

— Ah! badate, le discrezioni si pagano subito.

— E se subito non mi occorre?

— Peggio per voi; ve ne dimenticherete.

Questo dialogo seguì rapidamente, [p. 24 modifica] accompagnato da gesti vivaci, nel vano della finestra; finchè Olimpia, sospendendosi al braccio del suo cavaliere, indicò i posti a mensa e sedette anche lei.

— Giù, giù; là la zuppa, là, da bravo. Olà!

Era il marito di Olimpia che parlava al suo cane.

— Bella giornata oggi! — disse Rizzio stirandosi i polsini.

Costanza osservava e taceva. Due o trè volte i suoi occhi s’incontrarono con quelli di Rizzio. Singolare! Gli occhi di questo personaggio non andavano d’accordo col sorriso, e il sorriso smentiva le parole; c’era in lui un partito preso di mascherare i propri pensieri e mentre il labbro [p. 25 modifica]pronunciava motti leggeri, scherzosi, in fondo alla pupilla aveva un’ombra grave. Quando le volgeva questo sguardo pieno di serietà, Costanza provava un senso di malessere, un’impressione penosa e opprimente.

Andarono a prendere il caffè in giardino, dove capitò quasi subito la compagnia solita; il dottore colla moglie, Salviati, — uno sguaiato, — Puccini, un imbecille. Tutto ciò a detta di Olimpia, che sorrise gentilmente a ciascuno e non mancò di stringere con forza la mano a tutti gli uomini.

Più tardi venne anche la sindachessa colle due figlie, — i tre tegoli! — vestite color spigo ed ornate di spilloni rossi.

Salviati si sbracciava a fare il [p. 26 modifica] galante, Puccini raccoglieva le briciole, il dottore chiudeva la marcia.

— Se aveste fatto quindici chilometri come me.... — incominciò il padrone di casa.

Ma non lo lasciarono finire; nessuno volle udire le sue avventure di caccia; avevano voglia di ridere e di ciarlare colle signore.

Salviati andò a mettersi in ginocchio davanti a Olimpia.

— Qui, — disse piano Rizzio a Costanza — si dà sempre un po’ di ragione al celebre verso: Rien n’est beau que le vrai.

— E di qual vero intendono? rispose Costanza, sorridendo e appoggiandosi alla spalliera della sedia per udire meglio quello che diceva Rizzio, [p. 27 modifica] seduto dietro a lei. — Il bello è uno solo, ma i veri, pare, sono molti.

Egli non rispose direttamente; la domanda era stata un po’ troppo precisa, disse:

— La signora è nemica della scuola moderna?

— Chiederò ancora quale delle scuole moderne?

— Oh! oh! vedo che non si può discorrere a caso. Zola ci ha creati molti nemici.

— No. Io non sono eccessivamente puritana, forse non lo sono affatto; non ho che la pretesa di essere educata, e, mi dirà, si leggono di quelle cose che fanno pensare con terrore al dove si andrà a finire. Poche sono le voci che si alzano contro questa lebbra invadente.... [p. 28 modifica]

— Pochi e inutili, — interruppe Rizzio, fissando negli occhi di Costanza il suo sguardo severo.

— Perchè inutili?

— Perchè nessuna voce, nessun scritto, nessuna legge, nessuna forza, nulla al mondo può trattenere una società sul pendio dove si è posta. In letteratura come in politica i popoli seguono una specie di parabola e devono compierla a qualunque costo. Dunque andremo fino in fine. Ma consoliamoci, bisognerà poi tornare al principio. Non abbiamo avuto l’Aretino prima di Manzoni? Eccoci di nuovo all’Aretino e poi avremo Manzoni ancora. Tutte queste guerricciole ci sono sempre state e ci saranno sempre; ma che valore hanno per il pensatore che [p. 29 modifica] guarda il mondo dall’alto? Che valore hanno per il mondo medesimo, immane colosso, che vede morire tutti i giorni a centinaja, a migliaja, a milioni i rappresentanti di quella razza presuntuosa che si chiama uomo? Noi siamo tutti egoisti e vani. Vorremmo che la società si occupasse delle nostre piccole idee, ascoltasse i nostri piccoli consigli e si commovesse alle nostre piccole indegnazioni; siamo la mosca che pretende di condurre il carro, e il carro ci passa sopra e ci schiaccia; e nessuno si accorge che quella macchietta nera sulla superfice del globo è il cadavere di una mosca.

— Ma pure....

Si erano riscaldati. Rizzio aveva tirato avanti la sua sedia; intanto la [p. 30 modifica] compagnia si era dispersa un po’ qui, un po’ là, e loro due che non si conoscevano nemmeno stavano a discorrere con tanto interesse come se fossero soli al mondo.

— Ma pure....

La replica di Costanza fu interrotta da sua cugina. Olimpia arrivava a tutta corsa dal fondo del viale gridando:

— Che fate qui? siamo tutti in salotto. Il tegolo numero due sta per suonare la Mandolinata o la Stella confidente o qualche altra novità del genere. Andiamo a battere le mani. Ma che diamine ti diceva Rizzio?

Queste ultime parole furono pronunciate a bassa voce, e con un leggero accento dispettoso. [p. 31 modifica]

— Non so, — rispose Costanza, meravigliata anch’essa dell’accaduto, — ci siamo ingolfati sensa accorgercene in una discussione.

— Oh! sono il suo forte. Ti avrà contraddetta, m’immagino?

— Non troppo. Anzi, a pensarci, credo che fossimo della stessa opinione.

A Costanza piaceva moltissimo il soggiorno di villa Olimpia, non per Olimpia sicuramente, perchè le carrezze di costei, come quelle del gatto, mostravano sempre l’unghia; [p. 32 modifica] neppure per Matazzi, un buon pastricciano di quelli che lasciano il tempo che trovano, ma infine la vita vi era aggradevole e variata.

Costanza che non è un’eroina da romanzo apprezzava anche il lato materiale delle cose; quando si trovava comodamente seduta nel vano della finestra, col giardino davanti agli occhi, circondata da quei tanti oggetti che l’abitudine del lusso rende indispensabili, ella si abbandonava volontieri a’ suoi pensieri e non desiderava gran fatto di più. Un fatto però che le faceva molto piacere era l’uscio che si apriva per lasciar passare Rizzio.

Dopo quel primo colloquio improvvisato, ella discorreva spesso con lui [p. 33 modifica] e sempre con un vivo interesse. Sembrava che avessero tutti e due delle grandi cose da dirsi, perchè si cercavano reciprocamente, e a poco a poco presero l’abitudine di palesarsi ogni loro impressione. Faceva caldo, faceva freddo? Erano lieti, erano tristi? Quando se l’erano detto si sentivano sollevati. Il senso penoso che Costanza aveva provato una volta in presenza di questo uomo lo sentiva ancora, a intervalli, specialmente quando non poteva parlargli; ma svaniva subito e si mutava in una sensazione di pace e di benessere infinite se egli le si faceva accanto e le parlava con quella sua voce dolcissima, che pur sapeva all’occasione assumere note stridenti d’ironia.

Di sera, in mezzo al solito circolo, [p. 34 modifica] Costanza incontrava spesso lo sguardo di Rizzio fisso su di lei con una curiosità seria e benevola che non aveva nulla di importuno: la guardava in un modo speciale, come non guardava nessun’altra donna, e Costanza si persuadeva sempre più che egli non si mostrava tutto qual era.

Ma che cosa mentiva in Rizzio? Erano i suoi occhi, la sua voce o il suo sorriso? Costanza credette accorgersi qualche volta, quando si trovavano per caso soli, che quella specie di maschera affaticante cadeva dal volto di Rizzio: i suoi sguardi, la sua voce, il suo sorriso sembravano allora riposarsi e cedere a un desiderio intenso di quiete. Anche le parole non erano più quelle. Facile oratore in pubblico, [p. 35 modifica] egli teneva nella loro piccola società la supremazia della conversazione, ma vicino a lei taceva lungamente o parlava a monosillabi interrotti. Non si credeva obbligato, con lei, a recitare la solita parte galante: non le aveva mai fatto neppure un complimento. E quando la grazia e l’eleganza della giovane donna suscitavano nel crocchio degli amici una generale acclamazione, egli solo non univa la sua voce, prontissimo invece alle più esagerate esclamazioni se si trattava di un’altra.

— Insomma, dite qualche cosa.

Da mezz’ora Rizzio stava seduto presso a Costanza senza aprire bocca, giuocando col suo ventaglio.

— Par facile: dite qualche cosa; ma io non so che cosa dire. [p. 36 modifica]

— Ho io sola il triste privilegio di rendervi muto; per il solito non fate così.

— È vero, capisco anch’io che è una stranezza, perdo vicino a voi tutto il mio spirito, e sa il cielo se ne avrei bisogno.

— Davvero?

— Sì. Mi apparite così diversa dalle altre donne che vado chiedendo a me stesso se per caso foste un fenomeno.

— Mi studiate dunque?

— Vi studio.

— Eppure credo di essere così schietta!

— Non mi fido io alla schiettezza.

— Ne avrete certamente dei buoni motivi.

L’accento di Costanza era leggiermente malizioso, ma egli non vi badò; stette zitto un momento e poi chiese: [p. 37 modifica]

— E voi che opinione avete di me?

— L’opinione che vi piacciono le donne.

— È vero. Questo però non è che un lato del carattere. Credete che non m’occupi d’altro?

— Non so.

In quel momento Costanza si sovvenne che la sera prima egli era stato molto assiduo con Olimpia, e soggiunse:

— Credo che le signore vi guastino.

Rizzio era fino come una volpe; comprese subito l’allusione, più che dalle parole, dallo sguardo di Costanza.

— Non c’è pericolo, — rispose, — io fo come il cacciatore: prendo tutto e poi scelgo.

— Cattivo sistema. La vostra caccia deve imbarazzarvi molte volte. [p. 38 modifica]

— Ma!! Non ho ancora trovato un mezzo migliore. Sapete quelle belle farfalle che si presentano con smaglianti colori all’occhio avido di novità?...

Costanza capì che egli intendeva parlare di Olimpia.

— Allettano, seducono, ma che senso di tristezza quando non si trova altro che un po’ di polvere sulle loro ali dorate! Ignoro se tutti gli uomini sieno come me. Io mi sento trascinato potentemente verso un ideale sublime, e tutti i giorni calpesto un fantasma che mi era sembrato l’ideale: mi ubbriaco e ho sempre sete: afferro cento farfalle e non trovo mai Psiche!

— Mai?

— Una volta sola fui amato.

— Basta una volta nella vita. [p. 39 modifica]

— Avete ragione.

Egli le prese la mano, e cadde in uno de’ suoi interminabili silenzi. Vedendolo così assorto, Costanza ritirò la sua mano.

Olimpia e gli altri stavano aggrupati intorno al pianoforte, su cui Salviati suonava delle variazioni del Ballo in Maschera. Costanza e Rizzio restavano quasi isolati, tutti e due sul divano e vicino tanto che l’abito di lei toccava i ginocchi di Rizzio; era un abito di seta nera tutto coperto sul davanti da piccole balze.

Cullati dolcemente dalla musica, ma più ancora dai loro pensieri, essi si staccavano a poco a poco dal mondo reale e sentivano confusamente il piacere di volar insieme nel mondo delle [p. 40 modifica] fantasie. Senza dirsi nulla si comprendevano in modo maraviglioso. Quel lembo di vestito che li riuniva portava dall’uno all’altro un fluido magnetico deliziosissimo.

Le variazioni accennarono brevemente il coro del primo atto, si fermarono prolungate sul duetto d’amore, gemettero piene di tristezza sull’aria del baritono e si fusero alla fine in un’armonia flebile, sentimentale che pareva il grido di un’anima appassionata.

A quel punto la mano di Rizzio cercò di nuovo la mano di Costanza, e trovatala fra le piccole balze del vestito, la tenne soavemente stretta nella sua. A intervalli ella tentava ancora di ritirarla, ma una tenera pressione ne la impediva sempre. La dolcezza di [p. 41 modifica] quegli istanti era infinita: l’abbandono era stato così spontaneo e completo che tutti e due si sentirono presi da un leggiero fumo d’ebbrezza. Costanza fu la prima a scuotersi; si alzò e si allontanò senza guardarlo in volto.

Rizzio rimase sul divano, immobile come una statua.

Nella sua lunga esperienza della vita, Costanza aveva trovato che il mezzo migliore per liberarsi da un pensiero fisso, è quello di soffocarlo sotto una [p. 42 modifica] valanga di altri pensieri. È per questo che, mentre dava un punto a una delle balze del suo vestito nero, ella pensava, primo: se per fare lo spezzatino di pollo alla genovese occorre la cipolla sì o no; s’era impegnata di dirlo a Matazzi; secondo: perchè Fantasio, il simpatico Fantasio di Fanfulla, non scriveva più nulla o quasi; terzo: quanti metri occorrono per fare una spolverina da viaggio, ammesso che la stoffa abbia l’altezza di novanta centimetri. E non sembrandole ancora che questi pensieri fossero sufficienti a scacciare il suo unico pensiero, si pose a cantarellare la Marcia del Re; ma per una inesplicabile analogia, si accorse di scivolare nei motivi del Ballo in Maschera.

Allora Costanza scosse delicatamente [p. 43 modifica] il suo vestito nero, ne accarezzò con amore le balze, e disse a sè stessa risolutamente:

— Sì, non vi è stato più bello della libertà; una donna di spirito non dovrebbe mai cercar altro, molto più quando si sono già conosciute le astuzie dell’amore e che si sa per prova essere tutto illusione.

Alzarsi alla mattina lieta e serena dopo avere dormito sonni tranquilli; far colazione con appetito; non avere nessun sospetto, nessun desiderio, nessuna puntura di gelosia, nessun’ansia di aspettativa, nessuna angoscia di distacco, nulla, nulla, il beato nulla!

E poter starsene serena, in veste da camera tutto il giorno, colle farfalle di carta ai capelli, senza la paura di [p. 44 modifica] essere sorpresa, senza il terribile peso di comparire sempre bella; starsene calma, a leggere versi d’amore e dire: Passò quel tempo, Enea! Così va fatto.

A buon conto Costanza, dopo aver recitato coscienziosamente a sè stessa questo fervorino, indossò il suo vestito nero e si pose al collo una collana turca che le stava a maraviglia.

Non udì certo uno scoppio di risa argentine e non vide nell’angolo più remoto della camera il tristarello Amore che ripiegava l’arco.

(Tali cose per solito non le vedono che i poeti, ed io fui lì lì per sopprimere tutto il periodo, ma poi ho pensato che hanno diritto a qualche licenza anche i romanzieri, e d’altronde me ne rimetto al titolo di questo racconto.) [p. 45 modifica]

Costanza era decisa a mostrarsi un po’ fredda con Rizzio. Gli era immensamente simpatico, questo è vero, e sentiva di avere per lui una sincera amicizia; ma bisognava stare attenti a non trascendere per non far supporre quello che non doveva essere nemmeno supponibile. Alla loro età certe scappatelle ingenue non sono più permesse; grazie al cielo avevano abbastanza giudizio tutti e due.

Quando fu l’ora del circolo ella preparò dunque un sorriso disinvolto, e per esercitarsi incominciò a sorridere al dottore, a Salviati, a Puccini; se non che il sorriso le morì convulso sulle labbra, vedendo Rizzio che, in piedi dietro a Olimpia, le voltava le pagine della musica e le parlava piano [p. 46 modifica] nell’orecchio con aria di confidenza somma. A un tratto Olimpia smesse di suonare perchè era troppo eccitata e sbagliava i tasti. Aveva in seno una bellissima gardenia: Rizzio si chinò a fiutarla, e le disse ancora qualche cosa che la fece ridere ed arrossire insieme. Costanza si sentiva uno spillo in mezzo al cuore.

— Vede, — le disse Puccini, al quale ella aveva sorriso per ultimo e che si credette in obbligo di cortesia, — io la guardo tanto volontieri perchè assomiglia a una mia sorella.

— Sì?

— Morta però. E morta di tifo a ventidue anni: era più alta di me, ed io sono discretamente alto, nevvero?

— Altissimo. [p. 47 modifica]

— Ebbene; mi oltrepassava di due dita; forse due dita no... mettiamo uno e mezzo; oh! ma erano due. Vedere che bella giovane! Dal naso in su era precisamente come lei; gli occhi un po’ più chiari.... non molto; e aveva le sopracciglia così ben disegnate, fine, distanti l’una dall’altra; identiche, identiche.

— Che combinazione!

(Olimpia e Rizzio si erano seduti sul divano, — su quel divano: — e ciarlavano sempre.)

— Ho poi una cugina, meno bella, ma che ha il medesimo tipo. Nella mia famiglia vi sono due tipi ben distinti. I Puccini grassi, rossi, biondi come me, e i Puccini pallidi, magri, bruni. Pare incredibile, ma questi due tipi si [p. 48 modifica] alternano senza fondersi mai; non c’è un solo Puccini castagno. Eh! che caso singolare!

— Singolarissimo.

Rizzio aveva allungato un braccio, sul divano, intorno alle spalle di Olimpia.

— Il più bello è che tutti i maschi Puccini hanno un segno particolare...

— Scusi; vuol farmi il favore di andarmi a prendere un bicchier d’acqua?

Rizzio si era alzato; Costanza gli mosse incontro.

Egli le volse uno sguardo rapidissimo, profondo, e passò oltre.

— Che demonio! — (Era Olimpia che si gettava sul braccio di sua cugina tutta commossa, fremente, coll’occhio animato di gioja e di malignità). — Bisogna sentirlo. Io non gli credo veh?... [p. 49 modifica] è tale un furbacchione che gonza chi ci casca, ma parla che è un incanto. Ti immagini che egli si dice innamorato morto di me?

— È una confidenza che dovresti fare a tuo marito. — rispose Costanza con un filo di voce.

— Oh come tu pigli le cose sul serio. Forse che Rizzio....

Stava per continuare, ma un lampo le attraversò il cervello; guardò sua cugina fissamente in fondo alle pupille e sorrise del suo brutto sorriso di donna senza cuore.

Puccini intanto arrivava col bicchiere di acqua.

— Mia cugina, quella che assomiglia a lei più in brutto, ha avuto un bambino... [p. 50 modifica]

Olimpia lo interruppe attaccandosi a lui per dirgli che all’indomani c’era baldoria in casa del dottore. Tutti gli anni ai tre di luglio, — San Foca, — il dottore festeggiava con una cena l’anniversario della sua cara metà. Erano tutti eccitati pensando alla gazzarra che li aspettava; Costanza sola se ne stava muta e malinconica assai, sfrondando un ramo di cedrina che pendeva fuori da un vaso.

— Volete un consiglio da amico?

Ella si voltò vivamente e incontrò gli occhi di Rizzio.

— Non andate domani dal dottore. Non è posto per voi; finiscono sempre coll’ubbriacarsi.

— Voi però ci andate?

— Oh! dove non vanno gli uomini? [p. 51 modifica]

— E Olimpia anche?

Appena pronunciato questo nome, Costanza avrebbe voluto sprofondarsi sotterra, ma: «voce dal sen fuggita...»

— Vi prego, — disse Rizzio, — non fate dei confronti assurdi; io vi ho messa su un piedestallo troppo elevato per abbassarvi alla misura degli altri.

La sua voce era grave e affettuosa. Tolse dalle mani di Costanza una foglia di cedrina e se la pose tra le labbra. Egli era perfettamente padrone di sè, calmo, disinvolto come sempre; soltanto Costanza poteva accorgersi del leggiero movimento delle sue labbra e soltanto lei poteva comprenderne la eloquenza. [p. 52 modifica]

Coi guanti in una mano, allungando coll’altra lo scollo del vestito, Olimpia si fermò davanti a sua cugina che, in bianco accappatojo, annaffiava le ajuole del giardino.

— Sei proprio decisa a rimanere?

— Sì. Non ho voglia di muovermi.

— Ti duole ancora la testa?

— Un poco.

— Dovresti applicare sui polsi delle fettoline di limone, oppure del prezzemolo tagliuzzato nelle orecchie, se però non hai la polvere Magnus da fiutare. [p. 53 modifica] Questa è veramente efficace per i mali di testa nervosi. Suppongo che il tuo è un mal di testa nervoso.

— Tutto me lo fa credere.

— Peccato! Perdi una bella festicciuola. Rideremo come matti. Per la circostanza la moglie del dottore mette il busto e vale la pena di vederla. Oggi è la sua kermesse; scommetterei un occhio se fra nove mesi non regala a suo marito il settimo figlio, e ce li regala, pover’uomo, ce li regala senza interesse! Ti sembro troppo scollata?

— Secondo il punto di vista.

— Giustissimo. Se c’è colpa, la colpa sarà di chi non sceglie il punto. Quand’è così ti saluto.

— Divertiti bene.

— E tu non annojarti troppo; la [p. 54 modifica] noja infossa le guance. Porto i tuoi saluti alla compagnia?

— Sì. Salutali tutti.

Salutali tutti, — disse Costanza, — ma in quei tutti ella non vedeva che uno solo. E perchè quell’uno?

Partita sua cugina, Costanza terminò di inaffiare le ajuole, lentamente, volendo ad ogni costo conservarsi tranquilla. Non aveva neppure l’ombra di mal di testa; aveva deciso di passare la sera leggendo le poesie di Musset, ma era un po’ presto per accendere il lume. Sedette su una panchina a godersi la bella notte.

Le ortiche d’America coi loro fiorellini gialli e rossi imbalsamavano l’aria; le lucciole mettevano dei punti luminosi sui cespugli; si sentivano cantare [p. 55 modifica] i grilli nell’erba. Dal cancello del giardino la strada maestra appariva bianca bianca sotto i raggi della luna; i rari viandanti battendo il piede sulla terra secca vi destavano un’eco misteriosa come di luoghi disabitati.

Costanza cadde nella malinconia.

Domandava a sè stessa perchè aveva ceduto al desiderio di Rizzio, e se la prospettiva di veder delle persone un po’ brille era proprio così terribile da farle rinunciare ad un divertimento. Rizzio si prendeva giuoco di lei; in quello stesso momento egli corteggiava forse Olimpia. Per reagire contro questo pensiero insopportabile, volle persuadersi che non era rimasta in casa per far piacere a lui, ma perchè le accomodava di fare così. Le si presentò [p. 56 modifica] allora davanti agli occhi la nudità della sua esistenza. Che cosa faceva? Dove andava? Perchè viveva? Levarsi, passeggiare, mangiare, coricarsi e levarsi ancora, è vita questa? Valeva la pena di avere tanto amato e tanto sofferto, tanto combattuto e tanto vinto, per adagiarsi nell’indifferenza passiva di quelle serpi che i ciarlatani mostrano ravvolte in coperte di lana? Perchè aveva essa ancora de’ bei denti e de’ bei capelli? Perchè i suoi occhi mandavano scintille? Perchè chiudeva il suo piedino in stivaletti eleganti e il suo corpo in busti di raso? Era stata seria la sua risoluzione di rinunciare per sempre all’amore? e che cosa sperava di trovare in cambio?

Costanza si voltava ne’ suoi affanni [p. 57 modifica] come un infermo nel suo letto. Le vennero in mente tutte le ore più tristi del passato. Non osando piangere per Rizzio, pianse per sua madre morta già da dieci anni e per il suo primo amore morto da quindici. Si sentiva così mesta, così scoraggiata, che si sarebbe distesa volontieri, là, vicino alle ortiche d’America senza darsi nemmeno la fatica di andare nella sua camera, si sarebbe distesa e addormentata in un sonno profondo, interminabile.

Attraverso l’aria pura della notte le campane del villaggio le portarono il suono delle dieci ore. Si rizzò in piedi e sbadigliò; era dominata da un vero malessere.

Nel salotto terreno ardeva la lucerna che i domestici avevano accesa prima [p. 58 modifica] di ritirarsi. Costanza si diresse verso quel punto luminoso e si fermò nel mezzo della camera come una sonnambula, collo sguardo fisso, colle braccia cadenti. Guardò a lungo un parafuoco ricamato al punto in croce, dove una donna colla faccia di seta mostrava di suonare l’arpa sotto un salice piangente. Costanza avrebbe forse finito per commoversi alla malinconia di quella donna ricamata. Il canarino d’Olimpia che fece due o tre salti nella gabbia la distrasse per un momento. Dopo prese la calza dal panierino da lavoro, infilò quattro maglie e la depose.

Pensò se doveva andare a letto, ma non aveva sonno. C’era lì sul tavolino il volume delle poesie di Musset; lo aperse e lesse La nuit d’octobre: [p. 59 modifica]

Le mal dont j’ai souffert s’est enfui comme un rêve.
Je n’en puis comparer le lontain souvenir
Qu’à ces brouillards légers que l’aurore soulève
Et qu’avec la rosée on voit s’évanouir.

Un’amarezza straordinaria le impedì di continuare, la fronte le cadde sulle pagine aperte e....

— Eccomi qui.... — disse una voce accanto alla finestra del giardino.

— Rizzio!

Fu un’estasi: ella non si curava neppur di nasconderlo. Si strinsero le mani con una gioja infinita, sedettero sul divano guardandosi negli occhi, tremando; per alcuni minuti nessuno dei due parlò, finalmente Costanza gli chiese da qual parte era entrato.

— Potrei dirvi che ho adoperato una scala di seta come Romeo, ma il fatto [p. 60 modifica] è che avevo la chiave del cancello; m’è rimasta in tasca dall’altra mattina quando sono venuto a prendere Matazzi per andare a caccia.

La realtà si sostituiva all’ideale; Costanza si calmava a poco a poco.

— Avete abbandonata la compagnia?

— Sì, per venire a trovare la mia bella prigioniera.

C’era il trionfo di un orgoglio smodato nella parola mia prigioniera. Rizzio aveva molte delle qualità virili, ma ne aveva eziandio tutti i difetti; era aspro, fiero, orgoglioso; la sua voce modulava qualche volta la nota tenera della tortorella, ma la sua mano non sapeva nascondere l’artiglio. Costanza sentì che quell’artiglio le lacerava un velo nel cuore, ma era immensamente [p. 61 modifica] donna, e le ferite per le donne hanno sempre qualche attrattiva.

— Grazie, siete molto gentile. E si divertono laggiù?

— Come pazzi. Prima di mezzanotte non si muoverà nessuno. Vostra cugina ha già perduto un monile e il fazzoletto; non garantisco che vi ritorni intera. La moglie del dottore beve come un cocchiere, suo marito soffia il naso ai bambini. La sindachessa e le sue figlie sono vestite di verde con degli stivaletti gialli. Gli uomini fumano. Siete contenta?

Rizzio fece per prenderle una mano, ella se ne schermì, e soggiunse prontamente, con disinvoltura:

— Fa molto caldo questa sera!

— Che importa a me del caldo? Io [p. 62 modifica] non lo sento, non lo ascolto; può il caldo scemare il piacere che provo a trovarmi con voi? Vi guardo e non so altro.

Stettero ancora in silenzio, uno di quei silenzi eloquenti che inebbriano. Fu ancora Costanza che disse:

— Sono stata due ore in giardino a contemplare la luna; oggi si è fatto il primo quarto ed è così graziosa a vederla falciata! Mi piace più assai della luna intera.

Si fermò, aspettando che Rizzio pronunciasse lui pure la sua opinione sulla luna, ma Rizzio non parlò.

— Le ortiche americane hanno un profumo delizioso; lo preferisco a quello delle magnolie; la magnolia è comune. Olimpia vorrebbe piantarne un boschetto [p. 63 modifica] e io tento dissuaderla. Che significato hanno quei fiori bianchi e chiusi come tante ova sospese per aria? L’odore è poi così acuto che a molte persone nuoce. Vi pare?

— Ma io non vi ascolto, sapete? Credete che abbia seguìto il vostro discorso, che abbia capito una parola di quello che avete detto? So che vorreste farmi parlare di luna e di fiori, ma io preferisco tacere e guardarvi.

— È un metodo nuovo di far visita a una signora.

— Non vi piace? — esclamò Rizzio preso da uno de’ suoi accessi di bruscherìa; — ebbene, vi lascio subito. È naturale che le signore preferiscano le paroline galanti, la loro vanità ne resta più soddisfatta. Vorreste che io [p. 64 modifica] vi dicessi che siete bella, che siete amabile, che quel fiocco amaranto vi sta bene, non è vero?

Si era alzato e si metteva i guanti.

— Avete immaginato di poter fare di me un adoratore numero cento da mettere in coda agli altri novantanove.

— Questo è troppo! — esclamò Costanza con una indignazione mista a dolore profondo. — Non vi ho dato il diritto di insultarmi.

Egli non disse nulla, non le chiese perdono: terminò di mettere i guanti, pallido, agitato. Finalmente:

— Andiamo, vedo che siete nervosa questa sera.

— Non è vero.

— Ma è come se lo foste. Mi dispiace [p. 65 modifica] di avervi disturbata nella vostra contemplazione della luna e delle ortiche, me ne dispiace davvero. Volete darmi la mano?

— No.

— Pazienza, allora felice notte.

Costanza si sentiva schiantare il cuore.

— Così ve ne partite?... senza dirmi una parola gentile?

— Come! Non vi ho detto felice notte?

— Oh! siete cattivo!

— Via, datemi la mano.

— No.

— Datemi la mano.

— Ditemi una parola gentile.

— Prima la mano....

— No, no, no.

— Addio. [p. 66 modifica]

Rizzio fece due o tre passi verso la porta. Costanza in piedi, colle spalle appoggiate al muro lo guardava. Egli si voltò indietro.

— Ah! siete troppo cara! — esclamò improvvisamente; — questi occhi, questi occhi neri la meritano la parola gentile.

Le cinse la vita con un braccio e le mormorò all’orecchio, pianissimo: Ti amo.

Costanza sollevò la faccia; e gli sorrise dolcissimamente.

— Grazie! — disse Rizzio.

E s’avviarono, muti, sul sentiero del giardino fino al cancello; si tenevano per mano come due bambini; ci vedevano appena quel tanto da non urtarsi contro gli alberi. [p. 67 modifica]

— Addio!

— Addio!

Non avevano più nulla da dirsi.

Costanza stette ad osservarlo mentre si allontanava, fino a che la sua ombra si disegnò sulla via, fino a che il suo passo risuonò nel silenzio della notte.

Tutti quelli che vantano le dolcezze del primo amore non hanno forse provato l’ultimo. È certo che nell’ultimo si raccoglie il frutto dell’esperienza del [p. 68 modifica] primo; si apprezzano maggiormente le gioje, anche piccole, perchè se ne conosce il valore, e i disinganni ci affliggono meno perchè si sa che tutto passa a questo mondo. Costanza trovava ancora una goccia di miele in fondo al calice, proprio quando credeva di averlo esaurito; ma quella goccia non voleva trangugiarla in un colpo solo, era diventata economa, non aveva più le impazienze dei quindici anni. La sua gioja se la centellinava con avarizia sapiente.

All’indomani della festa, Olimpia ricuciva i suoi guanti, sdrajata sul divano e di pessimo umore.

— Non ti sei divertita? — le domandò Costanza.

— Ma sì, mi sono divertita tutto quello che si poteva divertirsi a vedere [p. 69 modifica] degli imbecilli che si divertivano. Ho cercato di stordirmi anch’io gettandomi nella baraonda, e non raccolsi altro che un abbraccio del dottore e due pestate di piede da Puccini. E tu come hai passata la sera?

— Magnificamente!

— Col mal di testa?

— Svanì subito.

— Sola?

— Soletta. — (Che piacere a mentire!)

— Quell’originale di Rizzio non si è fermato che sino alle dieci.

— Ah sì?

— Aveva un impegno. Non si può mai fidarsi di lui; sguscia fuori di mano come un’anguilla. Oggi è di un colore e domani di un altro; incomincia a diventarmi antipatico. Che te ne pare? [p. 70 modifica]

— Che cosa?

— Di Rizzio.

— Non mi pare nulla.

Le due cugine si fissarono negli occhi, ma erano troppo abili entrambe per far conoscere quello che pensavano.

Alla sera però quando venne Rizzio, Costanza si tradì un poco, e lui stesso, ad onta del suo sangue freddo, non seppe frenarsi interamente.

Nelle sere successive invece, Rizzio tornò a fare l’assiduo presso Olimpia, ridendo, scherzando come uomo che ha il cuore leggiero e la mente disoccupata. Costanza ne soffriva, troppo orgogliosa tuttavia per dimostrarlo, e convinta forse che egli non poteva interessarsi sul serio a quella femmina volgare. Ma allora avrebbe voluto [p. 71 modifica] anche lei sentirsi leggiera, disinvolta, ridere e scherzare cogli altri, e subiva eroicamente i dialoghi di Puccini e le dichiarazioni di Salviati colla morte nell’anima.

In uno di quei momenti, Rizzio che le leggeva negli occhi come in un libro aperto, la prese per mano e prese pure Olimpia dicendo:

— Udite, o mie signore, voi che amate i bei versi; udite come sono carini:

— Perchè fra tutte d’una stella il raggio
Il cupid’occhio ricercando va?
— Perchè è la sola che nel suo linguaggio
Ridir le cose del suo ciel mi sa.

Costanza sentiva la mano di Rizzio stringere la sua tenerissimamente.

— Li conosco, li conosco, — disse [p. 72 modifica] Olimpia svincolandosi senza lasciarlo finire; — sono versi per nozze.

— Siamo osservati, — mormorò Rizzio a Costanza.

— Ebbene?

— Volete farvi dei nemici?

— Chi?

— Vostra cugina.

— La temete tanto?

— Per voi.

— Non ho paura.

— Vi odia.

— Lo so.

— E odia me pure.

— Oh! avrei creduto il contrario.

(La voce di Costanza era questa volta un po’ ironica; Rizzio sorrise).

— Sapete che l’odio tocca tanto da vicino.... [p. 73 modifica]

— L’amore?

— Non profaniamo questo bel nome; diciamo il capriccio.

— Ne convenite dunque?

— Non posso negarlo.

— E per parte vostra?

— Me lo domandate?

Parlavano a bassa voce, curvi sul tavolino, fingendo di sfogliare un album.

— Me lo domandate? — ripetè Rizzio guardandola come egli sapeva guardare colle sue pupille serie e profonde.

— Le fate la corte.

— Questo non prova nulla; un po’ di corte io la faccio a tutte le donne, è un’abitudine; vedete che sono sincero.

— Anche troppo.

— Se volete informarvi, l’ho fatta [p. 74 modifica] successivamente, ed anche contemporaneamente, alla moglie del dottore, alla sindachessa, alle sue figlie e ad una signorina gobba che c’era qui l’anno passato. È questione d’esercizio, per non arrugginirmi.

Costanza dovette ridere.

— Si vede che siete parente di Matazzi; cacciatore nel sangue. Ciò non molto lusinghiero per chi avesse l’intenzione di amarvi.

— Perchè? Sono appunto i cacciatori di professione che raggiungono le aquile. Credete che la regina degli uccelli si troverebbe più lusingata a cadere nelle mani del primo idiota che capita?

— Ah! dopo tutto credo che la regina degli uccelli, a domandarlo a lei, preferirebbe non cadere affatto. [p. 75 modifica]

E Costanza tornò a ridere saporitamente.

Puccini, che passava in quel momento, si fermò per dirle:

— Ora somiglia proprio tutta alla mia povera sorella.

All’estremità del giardino, verso la strada maestra, c’era un boschetto di convolvoli e di rose del Bengala, dove Costanza si recava spesso a leggere e a lavorare. Rizzio pure vi fece qualche apparizione nelle ore in cui Olimpia [p. 76 modifica] doveva accudire a’ suoi impegni di casa, ed erano ore beate per i due amici.

Costanza si rifiutava ad ammettere la parola: amanti.

Secondo lei, questa parola implicava l’idea della caducità; non si è amanti per tutta la vita, ed ella voleva essere sempre l’amica di Rizzio.

Ritrovavano tutti e due la freschezza delle loro impressioni giovanili; s’incontravano con un palpito, si lasciavano con un sospiro. Erano maravigliati di sentirsi ancora così ingenui e di trovare ancora qualche cosa da raccogliere, qualche spica lasciata indietro su quel campo che credevano di aver mietuto così bene. Andavano d’accordo per non sprecare il loro tesoro, gli avari sapienti, poichè il [p. 77 modifica] disinganno aveva loro insegnato tante e tante volte che, se c’è una fine a tutto, essa non è mai terribilmente sicura come in amore.

Si accontentavano di guardarsi a lungo, di stringersi la mano, di morsicare il medesimo fiore, di sedere vicini, vicini. Quando si parlavano in società, fingevano sostenutezza; ma l’aria era più calda intorno a loro, la luce più intensa, tutti capivano che lì c’era un segreto. Ad onta della molta esperienza, non erano abbastanza prudenti, e l’amore divulgato è amore in pericolo.

Una sera, prima che arrivassero gli amici, trovandosi soli, Olimpia pregò Rizzio di accompagnarla al piano; ella era distinta dilettante e Rizzio [p. 78 modifica] appassionato per la musica. Suonarono due o tre pezzi del Faust con un accordo meraviglioso.

— Mi pare che la mia anima passi nella vostra; — disse Olimpia con voce velata, piegandosi mollemente sulla tastiera, come se un fascino la dominasse.

Rizzio non rispose; le sue mani correvano veloci sfiorando spesso quelle d’Olimpia, i loro ginocchi si toccavano.

— Siete stanco? — chiese Olimpia dopo pochi momenti.

— No. Ripigliamo il duetto d’amore.

— Soffro.... non so di che.

— Perchè non dirlo prima?

— No, terminiamo.

— Vi prego.... [p. 79 modifica]

— Lo voglio!

E continuarono, nervosi, trasportati dall’ebbrezza della musica, palpitando insieme, commossi, parlandosi a rari monosillabi.

— Bravissima! — sclamò Rizzio facendo premere le ultime note.

Olimpia sembrava cedere a un languore arcano, indefinibile; non aveva nulla del brio e del sarcasmo soliti. I suoi occhi lasciavano sfuggire pallidi raggi.

— Che avete?

— Nulla.

— Soffrite ancora?

Per risposta ella pose nella mano di Rizzio la sua mano sottile e bianca.

Egli la guardò.

— Qualche cosa dovete avere [p. 80 modifica] sicuramente, perchè suonaste come un angelo. Meritate un premio.

— Datemelo.

— Se sapessi....

Olimpia fece scorrete i diti sulla tastiera.

— Volete i più bei fiori del mio giardino?

Olimpia scosse il capo negativamente.

— Volete un sonetto?

— Nemmeno.

— Volete....

— Datemi la discrezione che non mi avete mai pagata; ve ne ricordate?

Olimpia aveva ripreso il suo accento scherzoso; guardava Rizzio, sorridente, leggiadra, sotto una pioggia di ricci un po’ scomposti, col seno agitato, le belle braccia candide abbandonate in grembo. [p. 81 modifica]

Rizzio era uomo in tutta l’estensione del termine, e questo formava in certi casi il suo miglior elogio; ma in certi altri era pur troppo il suo difetto. Gli uomini hanno la specialità di poter dimenticare completamente, in dati istanti, qualunque più cara affezione. — Sono brevi istanti, — è la loro scusa.

Egli non udiva in giardino la voce di Costanza che dava alcuni ordini alla cameriera. Rispose:

— Eccomi pronto. Devo andare per voi alla conquista del vello d’oro?

— La meta che vi propongo è più vicina.

— Francamente, lo desidero e lo spero.

— Che cosa desiderate e sperate?

— Che la meta sia vicina.... con questo caldo. [p. 82 modifica]

Le ultime tre parole le aggiunse per celia, affinché il discorso non prendesse una piega sentimentale.

— Là, — disse Olimpia coi denti stretti, colle gote accese; — fatemi un bacio. Sono discreta?

Ella aveva visto sua cugina che entrava in quel punto. Rizzio, a capo chino, allungò le labbra e fece due o tre baci rapidi, leggieri, sul braccio di Olimpia. Quando sollevò gli occhi, incontrò gli occhi di Costanza, larghi, sbarrati, pieni d’angoscia e di disperazione.

— Vile, — gli mormorò ella passandogli accanto.

Rizzio impallidì come se lo avessero sferzato, ma non disse una sola parola.

Di lì a poco, Costanza, accusandosi [p. 83 modifica] indisposta, si ritirò nella sua camera, e Olimpia fu di un’allegria smodata per tutto il resto della sera.

Non si guardavano più. S’erano feriti reciprocamente nell’orgoglio, e l’orgoglio, passati i vent’anni, occupa una metà buona del cuore.

Rizzio principalmente, perchè aveva torto, si mostrava il più fiero.

Costanza non nascondeva il suo dolore, solamente sdegnava di scendere a spiegazioni. Mettevano tanta cura [p. 84 modifica] nell’evitarsi come nel ricercarsi prima; Rizzio stette anche cinque o sei giorni senza farsi vedere alla villa.

Olimpia trionfava. Ella divertivasi a punzecchiare Costanza in tutti i modi possibili; ora tessendo lodi sperticate di Rizzio, ora parlandone male e narrando tutte le sue imprese galanti; possedeva l’arte infernale di mettere la febbre addosso con una parola; aveva della reticenze che strozzavano.

Costanza pensò un momento a tornare a Milano, ma ella non era di quelle che fuggono; la lotta non la impauriva; forse non aveva il coraggio di separarsi da Rizzio; preferiva soffrire vicino a lui, anzi che cercare la pace dimenticandolo. Ad ogni modo decise di rimanere dov’era. [p. 85 modifica]

In quei giorni Olimpia contraccambiò con un pranzo la cena del dottore. Le due cugine, Rizzio, Salviati, Puccini, stavano in giardino aspettando gli altri invitati; Olimpia, raggiante, con un abito di tela color avorio a risvolti rosa, non poteva stare seduta; andava dall’uno all’altro ridendo, motteggiando, provocandoli tutti. Rizzio aveva un po’ di sussiego, non sembrava certo del contegno che doveva prendere, e fingeva d’interessarsi a sgranare le bacche dei convolvoli.

Un po’ in disparte Costanza, volendo anche lei mostrare d’interessarsi a qualche cosa, osservava la cacciagione di Matazzi giunto allora.

— Vedete che bella cardellina? Oh! non dubitate, è una cardellina. Se fosse [p. 86 modifica] un cardellino avrebbe il dorso più nero e la testa più lunga.

Costanza prese la cardellina e l’esaminò in tutta coscienza. Colla coda dell’occhio vide lontano Rizzio che ascoltava e più che mai si credette obbligata a giuocare d’indifferenza. Cacciò la manina nel carniere di Matazzi, e tirando fuori un piccolo uccello grazioso, domandò:

— Che è questo? un passero?

— Ah! veramente, un passero! Cugina mia, vivete a Milano e non conoscete i passeri? Questo è un reattino. Non faccio per vantarmi, ma ci tengo al mio reattino; non tutti i cacciatori possono pigliarli.

— Perchè? — tornò a domandare Costanza, come se la cosa le stesse immensamente a cuore. [p. 87 modifica]

— Perchè hanno il volo rapidissimo, — rispose Matazzi, felice di trovare qualcuno che s’interessasse alla sua caccia. — E questo, mia cara, sapete come si chiama questo?

— Io no, davvero.

— Provate a dire qualche cosa!

— Proprio non saprei.

— Ebbene, è un tordo. Chi non lo piglierebbe per un merlo? La somiglianza fra le due specie è grandissima, ma il tordo ha le penne sparse di piccole macchiette regolari; vedete? il merlo no. Vi ripeto che è un tordo, di quelli che si chiamano comunemente calandre; l’ho preso su un pioppo, che non m’è parso vero. Immaginate che il primo colpo lo aveva fatto fuggire, ma io dissi: tornerai, amico! ed è [p. 88 modifica] tornato e panf! Ecco che ha finito di fare la calandra cruda.

— Pare impossibile! — gridò Olimpia, tendendo la testa verso Rizzio per farsi puntare uno spillo nei capelli, — come Costanza si accanisce nei discorsi di caccia. Costanza mia bella, perchè non ti lasci fare un po’ la corte da questi signori?

Costanza si morse le labbra senza degnarsi di rispondere, ma una viva contrarietà le si dipinse sul volto. Salviati le si precipitò ai ginocchi e forse le avrebbe fatta una dichiarazione, se non entravano il dottore e sua moglie.

A pranzo, Olimpia sedè vicino a Rizzio, e Costanza dirimpetto. La tavola era piccola, stavano un po’ pigiati; Costanza vedeva ad ogni movimento il [p. 89 modifica] braccio di Olimpia che urtava quello del suo cavaliere.

Non erano ancora alla seconda portata, e già Costanza si sentiva male. I piatti, i bicchieri, le bottiglie, danzavano davanti a’ suoi occhi una ridda fantastica; Olimpia, moltiplicata per cento, le riempiva le pupille. Se avesse qualche volta guardato Rizzio si sarebbe accorta che egli la osservava intensamente, ma al posto di Rizzio Costanza non vedeva che un bujo orribile.

— Che cos’ha quella povera signora? — domandò la moglie del dottore intanto che si slacciava accortamente il busto; e lo domandava a Puccini.

— La signora Costanza? Ma nulla, credo. Avrà mangiato troppo in fretta e in questo caso il ventricolo si [p. 90 modifica] gonfia, si prova un senso di stanchezza e di sazietà. Passa però subito. Dopo, magari, avrà fame meglio di prima.

La dottoressa, che era riuscita a slacciare il suo busto, si accontentò di fare:

— Aaah!

Venne il caffè. Olimpia prese colle dita una zolletta di zucchero e la gettò nella tazza di Rizzio; Rizzio, per non parere un orso, dovette ringraziare sorridendo.

Si bevette del rhum. Olimpia dichiarò di non ne volere, ma al momento ne assaggiò una goccia nel bicchiere di Rizzio.

Quando tutti lasciarono la mensa, Costanza, pallida come un morto, si sentì quasi venir meno. Un braccio robusto la sostenne e una voce a lei ben [p. 91 modifica] nota le susurrò all’orecchio bruscamente:

— Che fate? Tutti vi guardano.

Ella sentì che le lagrime le gonfiavano gli occhi, e approfittando di un po’ di confusione si allontanò inosservata; Rizzio la seguì.

In un piccolo sottoscala quasi bujo, tutto ingombro di travi e di canestri, Costanza si fermò; avrebbe voluto nascondersi, nonchè agli occhi di tutti, a’ suoi propri occhi. [p. 92 modifica]

— Perchè fate così? — le disse Rizzio. — È la vera maniera di renderci ridicoli; credevo aveste maggior pratica del mondo e delle sue esigenze. Non capite che Olimpia gode del vostro dispetto? Perchè darle questa soddisfazione? Siete pur bambina!

Al nome di Olimpia, Costanza non potè più frenare il pianto; scoppiò in singhiozzi.

Egli taceva.

— Così mi consolate! — esclamò lei. — Non avete più nulla a dirmi?...

La ritenne con una forte stretta, e prendendole la testa colle due mani la baciò sui capelli e sulla fronte.

Il cuore di Costanza batteva a precipizio, ella tremava tutta e piangeva ancora. [p. 93 modifica]

— Io godo a vedervi soffrire, — mormorò Rizzio, — perchè fin che soffrite siete mia; vedo le vostre lagrime, ascolto i vostri singhiozzi, e dico a me stesso che tutto ciò è amore. Soffrite, angelo mio, ma soffrite così; soffrite per me che vi amo!

Costanza provò un istante di fascino sovrumano. Ella era ben fatta per comprendere un simile amore; ma l’immagine di Olimpia le guizzò davanti come un lampo sinistro.

— No, — disse, voltando la testa per sottrarsi a Rizzio; — voi non mi amate. Se fosse vero terreste un contegno diverso colla donna che mi odia, non le offrireste l’occasione di avvelenarmi ad ogni ora, ad ogni momento. No, Rizzio, voi non mi amate, non mi amate! [p. 94 modifica]

Egli indugiò prima di rispondere, poi disse lentamente, con voce grave:

— Era meglio che le cose camminassero nel modo da me stabilito. Vostra cugina è una donna pericolosa, una donna che non perdona.... Non obbligatemi a farvi delle confidenze che in bocca mia sembrerebbero fatuità. Vi basti sapere che quel po’ di incenso che le tributavo, era l’offerta che me la teneva amica. Credevo aveste maggior fiducia in me. Ora, sia come volete. Prima d’oggi io non vi avevo promesso nulla, nevvero? Ebbene, vi prometto che d’ora in avanti vostra cugina troverà in me un macigno. Le conseguenze poi le vedremo.

— Che ci importa! — esclamò Costanza, felice. — Ah! ripetetemi che sarete tutto mio. [p. 95 modifica]

— Sì, avete la mia parola e basta. Ed ora andate ad asciugarvi gli occhi prima di comparire in sala.

Costanza si meravigliò che Rizzio, in tali momenti, avesse la testa a segno da accorgersi ch’ella aveva gli occhi rossi. Quanto a lei, avrebbe voluto che il piccolo bujo sottoscala, fosse il primo teatro del mondo, che centomila indifferenti vedessero la sua gioja; gioja profonda, perchè il dolore l’aveva preceduta.

Si volse a Rizzio e gli disse:

— «Ho consumato tre vestiti di ferro tre paja di scarpe di ferro, tre bastoni di ferro per trovarti, amor mio, ed ora non ti lascio più!» Ve la ricordate la principessa della favola? Rizzio, io sono la vostra principessa, e voi siete il mio re. [p. 96 modifica]

— Cara!

Egli non disse altro che: cara; stringendosi sul petto quella bruna testina.

Ma convenne separarsi. Rizzio era sempre il più forte; entrò in sala per il primo e non trovò nessuno. La compagnia si era dispersa nel giardino; egli andò a raggiungerla, sostenendo imperterrito lo sguardo indagatore di Olimpia.

Poco dopo apparve Costanza, lieta, sorridente, col suo trionfo scritto in fronte.

L’amore ha questo di male, ed anche di bene, che non si può mai nascondere interamente, come interamente non si può fingere quando non c’è. Gli occhi di Rizzio cercavano quelli di Costanza; starebbe il paragone, se non [p. 97 modifica] fosse troppo vecchio, dell’eliotropio che si volge al sole — e come il sole lo contraccambiava!

Dalla parte di Rizzio, questo freddo schermidore avvezzo a tutte le tattiche della galanteria, il caso sorprendeva. Invano, appoggiandosi sul suo sterminato orgoglio, egli tentava resistere alla passione che li aveva allacciati, si può dire, fin dal loro primo colloquio. Mascherato dall’asprezza, trincerato nella civetteria, tenuto in freno da una volontà dispotica, il suo affetto per Costanza continuava nondimeno la parabola ascendente. Egli apparteneva alla classe ormai tanto numerosa degli uomini positivi; il suo sistema era quello di far prevalere in ogni circostanza la ragione; ma o fragilissima [p. 98 modifica] umanità, accanto all’inflessibile dea, batte pur sempre il tuo cuore!

Appena Rizzio si mostrò in giardino, disinvolto, con uno stecchino in bocca (l’aveva preso passando nella sala da pranzo; perchè, quantunque verista, non lo era al punto da uscire da un colloquio amoroso con uno stecchino tra le labbra). Olimpia eseguì una mossa felina e gli si trovò accanto in un attimo, sospesa al suo braccio. Lo guardò dritto in fondo agli occhi e gli disse:

— Avete una faccia strana.

— Che faccia? — domandò Rizzio svogliato.

— La faccia di un uomo che ha commessa una sciocchezza.

Sotto la sua mano ella sentì fremere il braccio di Rizzio, e soggiunse perfidamente: [p. 99 modifica]

— Scommettiamo?

Egli si era già ricomposto.

— Ah! no, — disse colla sua voce ironica, — non faccio più scommesse con voi.

— Avete paura di perdere.

— Già, e di pagare la discrezione.

Questa impertinenza ferì Olimpia sul vivo: il rossore della collera le salì al volto:

— Badate, Rizzio, badate!

La moglie del dottore si gettò in mezzo a loro per proporre una passeggiata; Olimpia non potè terminare la sua minaccia, ma la completò con uno sguardo che era una sfida. [p. 100 modifica]

Il Dio degli innamorati (poichè nella disfatta generale degli dei questo ci fu lasciato) preparò a Rizzio e a Costanza una lunga, intera giornata di felicità.

Olimpia doveva andare a Milano per alcune spesucce; essi erano liberi; ora la libertà in amore equivale alla libertà moltiplicata per cento.

Sotto il boschetto di convolvoli e di rose del Bengala, essi s’incontrarono fin dal mattino, e si regalarono la gioja [p. 101 modifica] innocente di bere una goccia di rugiada nel calice azzurro di un convolvolo. Tornavano all’idilio questi due epicurei; avendo percorsa da soli tutta la gamma del piacere, la rifacevano insieme in senso inverso, sdegnando le note del finale per i soavi preludii, dove l’ideale batte ancora le ali candide.

Se Costanza fosse stata più giovane avrebbe interrogato Rizzio sulle sue intenzioni: le fanciulle sono impazienti. Ma Costanza invece gustava le dolcezze del desiderio immateriale.

Guardarsi, stringersi la mano, dirsi tutto nell’ebrezza del silenzio, scambiarsi le anime in un bacio, ella sapeva che non si può andare più in là.

«Non dirmi che sono la tua vita, [p. 102 modifica] dimmi che sono l’anima tua; l’anima è immortale e la vita ha un giorno.»

Non parlavano di nulla; tacevano per ascoltare la loro felicità.

Gli splendori di quel mattino di settembre, il cielo, il sole, l’aria mite, rappresentavano una seconda parte, la cornice del quadro. Un raggio di meno in cielo, un profumo di meno sulla terra, non avrebbero scemata l’armonia di quei due cuori che si amavano.

Rizzio volle provare il ditale di Costanza, e poi volle fare un punto nella trina che ella stava ricamando. Costanza pensò che, quando la trina sarebbe cucita a foggia di guernizione sul suo vestito nuovo, ella avrebbe sul cuore il punto di Rizzio. Questo [p. 103 modifica] pensiero glie ne suggerì un altro. In un momento ch’egli aveva tra le mani il portafogli per notare dei versi, ella prese le matita e scrisse in un angolo Costanza.

— Quando non mi amerete più, questo nome vi rammenterà che mi avete amata, — disse sorridendo tra lo scherzoso e il mesto.

Egli se la strinse contro il cuore.

— Come sono felice! Oh! chi li paga questi dolci istanti?

— Noi li paghiamo! — esclamò Costanza con fuoco.

— Sì, avete ragione; li paghiamo noi!... e per questo godiamoli, o tenerezza mia.

— Un presentimento crudele mi tormenta, — diss’ella staccandosi, presa [p. 104 modifica] da un subitaneo terrore. — Vedete quell’albero verde che ci sembra sorridere e scuotere davanti a noi le sue foglie facendoci festa?

— Lo vedo, è un pioppo.

— Mio amore, fra pochi mesi quel pioppo perderà le sue foglie, e voi....

— Non continuate, io vi amerò sempre; ma se il destino volesse disgiungerci, perchè avvelenare queste brevi ore di gioia? Perchè non lasciare dietro a noi una striscia pura, immacolata, un raggio che ci illumini, un calore che ci conforti? Amica mia, la foglia inverdisce e cade, l’uomo ama e muore, ma che perciò? Il futuro distrugge forse il passato? Qualunque cosa possa avvenire farà sì che le nostre labbra non si sieno congiunte e i [p. 105 modifica] nostri cuori non abbiano palpitato insieme?

Costanza gli strinse la mano in silenzio. Egli intanto spiccò una rosa e gliela pose nei capelli.

— Voi non sapete come questi capelli mi piacciono. Quando vi lascio ne porto il profumo con me; quando non vi vedo più, li sento ancora.

Venne il momento di separarsi, ma si trovarono più tardi per caso sulla strada maestra, dove Costanza faceva una passeggiata prima di pranzo, e stettero fermi un quarto d’ora in mezzo alla polvere, mettendo la mano davanti agli occhi ogni volta che passava un carro, almeno Costanza la metteva; Rizzio no, perchè non era effeminato, si piccava al contrario di spregiare i comodi materiali. [p. 106 modifica]

Costanza pranzò sola con suo cugino Matazzi. S’era fatta promettere da Rizzio ch’egli avrebbe desinato quel giorno con delle costolette fritte e dell’arrosto di montone, perchè quello era appunto il pranzo che ella aveva ordinato e che mangiò di buonissimo appetito, riflettendo ad ogni boccone che Rizzio provava le medesime sensazioni.

Alla sera vide Rizzio per la terza volta, insieme a Puccini ed a Salviati. In mancanza di Olimpia, toccò a lei a fare gli onori di casa. Era lieta, serena, gentile, con una lieve tinta di distrazione, parlava con Puccini e pensava a Rizzio, parlava con Salviati e pensava a Rizzio. (Egli aveva un bel nome, di quelli che piacciono alle donne, ma ognuno lo chiamava Rizzio ed ella pure). [p. 107 modifica]

Li congedò verso le dieci, dicendo che voleva andare a letto a fare dei sogni d’oro. Sorrideva, strinse la mano a tutti; a lui diresse uno sguardo di paradiso.

Andò a letto, ma non dormì, era troppo felice. I sogni d’oro li fece ad occhi aperti.

Sentì tutte le ore, sentì i grilli che cantavano nelle siepi, il cane che abbajava, Matazzi che puliva il suo fucile, il camparo nella vigna che sparava in aria per spaventare i ladri notturni, le ruote che trascinavano le bare pesanti e i passi dei muli aizzati dalle voci dei carrettieri.

Si levò alla mattina per tempo con una voglia matta di correre nei campi, di abbracciare tutti i bambini e di [p. 108 modifica] versare denari a manate nei grembiuli di tutte le povere donne.

Una carrozza che si fermò davanti al cancello, annunziando il ritorno di Olimpia, pose una nota scordata nell’inno di Costanza. Ella scese tuttavia facendo il buon viso e pensando che nessuno oramai poteva toglierle il suo amore.

Anche Olimpia era lieta. Balzò lesta dalla carrozza e abbracciò sua cugina.

— Come stai, cara? [p. 109 modifica]

— Io sto bene, e tu?

— Divinamente.

I suoi occhi obliqui scintillavano in modo strano. Costanza era buona, era sopratutto generosa, la gioja di Olimpia non poteva recarle dispiacere; eppure quella gioja la inquietò. Le sembrava che avesse un’espressione maligna.

— La tua gita non ebbe inconvenienti?

— Di sorta, — rispose Olimpia infilando il braccio in quello di sua cugina. — Ho fatta la tua commissione; la modista non aveva fiori rossi, e sono andata a ordinarli io stessa; tre rose del Bengala stupende. Ti piacciono le rose del Bengala?

— Sì, grazie. [p. 110 modifica]

— Per me invece le comperai gialle; ritengo che il giallo mi sta meglio. Ha piovuto qui ieri sera?

— No, e a Milano?

— Abbiamo avuto una spruzzatina. Io era fuori e l’ho presa tutta. Mio marito è andato a caccia?

— Credo.

— Bene; noi intanto faremo colazione; ho un appetito da collegiale. Sai? ho visto Malagutti, il tuo spasimante fedele; mi ha chiesto di te, e gli dissi che sei ancora disponibile. Non è vero?

— Verissimo: — fece Costanza sorridendo, non senza arrossire alquanto.

— Ho però soggiunto che sei agguerrita per terra e per mare. Eh?

— Difatti. [p. 111 modifica]

— E che nemmeno il pallone areostatico avrebbe molta probabilità di successo.

Olimpia parlava con una disinvoltura forzata, un tono più alto del naturale. A Costanza faceva l’effetto di udir fischiare un serpente. Dopo colazione, mentre erano sedute nelle loro poltroncine accanto alla finestra, col lavoruccio in mano, entrò Rizzio.

— Vedete, — diss’egli a Olimpia con una cortesia cerimoniosa, sottolineata di sarcasmo, — vengo subito a offrirvi i miei omaggi.

— Fate il vostro dovere! — rispose lei lanciandogli un’occhiata che ghermiva al pari di un uncino. — Per riconoscenza io vi darò le notizie milanesi. [p. 112 modifica]

— Benissimo. Il duomo è ancora in piedi? La compagnia della Teppa è sciolta? Federico Barbarossa si è ritirato?...

Celiando con Olimpia, Rizzio non aveva trascurato di guardare Costanza, e i loro occhi stavano appunto ripetendosi una infinità di dolcissime cose, quando Olimpia, rispondendo a Rizzio, disse:

— Devo darvi una notizia più importante e più seria.

Si arrestò, facendo un movimento di spalle, stringendo le sue labbra sottili.

Senza rendersi conto del perchè, Rizzio e Costanza attendevano ansiosi.

— Non vi dispiacerà ch’io parli davanti a mia cugina, — continuò Olimpia, — è un’altra me stessa; d’altronde [p. 113 modifica] l’amicizia che voi le dimostrate è una prova della stima che vi ispira.

Nuova pausa leggerissima, piena di perfidie sottintese.

— Alle corte, Rizzio, sono andata a trovare la vostra povera moglie.

L’immobilità assoluta di Rizzio e di Costanza le permise di soggiungere:

— Sta molto meglio; mi ha riconosciuta, mi ha detto di salutarvi. Il direttore non dispera di potervela rimandare quanto prima. È tranquillissima, povera donna!

Che cosa si deve provare ricevendo una martellata sul cranio? Costanza lo seppe. La camera girò intorno a’ suoi occhi, un rumore confuso come un brulichìo d’insetti le ferì il timpano. Non smesse di lavorare, ma il ricamo le [p. 114 modifica] sembrava doppio, triplo, tagliato da grandi strisce nere; la mano irrigidita trascinava l’ago a stento per uno sforzo supremo della volontà. Se il mondo fosse crollato in quel punto le sarebbe parsa una cosa naturalissima. E a guardarla, tranne un pallore di statua, nulla trapelava dell’interno spasimo.

Non vi sono che le donne per sostenere simili colpi.

Rizzio avrebbe fatto compassione ai sassi. La sua faccia era stravolta, l’occhio smarrito, balbettava come un bambino côlto in fallo. Il suo orgoglio, la sua fierezza, la sua lunga pratica della società, il dominio di sè stesso, che possedeva tanto bene, tutto gli mancò in quel momento. È permesso credere che un desiderio solo galleggiasse nella [p. 115 modifica] confusione de’ suoi pensieri; il desiderio che Olimpia fosse un uomo per poterla schiaffeggiare.

Alle parole inintelligibili pronunciate da Rizzio, Olimpia rispose, per metà rovesciata sulla poltrona, odorando un fiore:

— Non vi ho avvertito prima che volevo andare a trovarla per lasciarvi il piacere della sorpresa. E poi, se l’avessi trovata male, ero decisa a non dirvi nulla. Mi piace a fare da colomba e non da corvo. Assicuratevi che sta proprio benino, cara creatura! Invece di cambiare il nome alla villa, come era vostra intenzione, potete prepararla a festa per inaugurare la guarigione della vostra Paolina.

Rizzio finalmente si era ricomposto. [p. 116 modifica]

— Grazie, — disse, levandosi in piedi, — la mia riconoscenza sarà pari alla vostra bontà. Siccome però questo avvertimento mi terrà molto occupato, permettete ch’io prenda congedo.

Si inchinò, rigido, e uscì.

Passando davanti a Costanza cercò invano il suo sguardo; ella salutò senza guardare, continuando il suo ricamo, come una macchina montata che a fermarla improvvisamente si spezzerebbe.

Cessato lo sbigottimento che accompagna il primo stadio del dolore, [p. 117 modifica] Costanza sentì crudelmente l’offesa fatta al suo cuore e alla sua dignità.

Che pensare di un uomo che le aveva detto d’amarla tacendo di essere ammogliato? Si poteva scusarlo in qualche modo? Si poteva difenderlo? No, non si poteva. Egli le appariva così ignobile, così indegno di stima e di affezione che il suo maggior dispiacere era quello di averlo amato.

Avrebbe voluto distruggere ogni memoria del passato.

Oh! se si potesse dimenticare.

Perchè non esiste veramente quel fiume dalle acque pietose che tutto cancellano? La memoria in certi istanti è il più caro, ma in certi altri è il più doloroso dei doni.

Costanza ricordava con profonda angoscia [p. 118 modifica] angoscia le parole pronunciate da Rizzio nel loro ultimo colloquio d’amore: «qualunque cosa accada non potrà fare che i nostri cuori non abbiano palpitato insieme.» Profetiche parole!

E come presto si realizzavano i suoi malinconici presentimenti! Era ancor verde il pioppo in fondo al giardino, vicino al boschetto dei convolvoli, ma il loro amore non era più.

Care dolcezze della pace, ore tranquille, sonni beati, indipendenza del cuore, per chi aveva ella sacrificato tutto ciò? A chi aveva dato l’ultimo raggio della sua giovinezza, l’ultima fiamma della sua anima? Veder morire la persona amata è un piccolo dolore in confronto al dolore di non poter stimarla più. [p. 119 modifica]

Per una reazione naturalissima, per quello spirito di partito che accomuna sempre le donne contro gli uomini, Costanza non provava per Olimpia tutto l’odio che sentiva di avere per Rizzio; infine le aveva aperto gli occhi, e se il modo era stato sleale, ella non le aveva mai detto e giurato di amarla per sempre; ella non le aveva rubato l’amore per calpestarlo poi sotto i piedi; ella era stata crudele, null’altro che crudele. Ma che parola trovare per Rizzio? Come poterlo disprezzare abbastanza da cancellare tutto il bene che gli aveva dato? Ah! ella lo sentiva, fino all’ultimo giorno della sua vita l’avrebbe seguita il rimorso di aver amato quell’uomo.

Tra le due cugine non ebbe luogo [p. 120 modifica] nessuna spiegazione. Costanza dissimulava maestrevolmente la vipera che le rodeva il seno. Olimpia, sazia della sua vendetta, la lasciava in pace; la sua attività morbosa si rivolgeva ora ad un altro scopo: trovare un uomo che surrogasse Rizzio, che potesse occupare la sua mente annojata di donna isterica e maligna. Lì per lì non trovava che Salviati; Salviati le era antipatico, ma per comparsa poteva bastare; tanto da far vedere a Rizzio che non aveva bisogno di lui.

Questa volgare rappresaglia non si presentò neppure alla mente di Costanza; ella l’avrebbe respinta con sdegno. Se un pensiero la consolava, era il pensiero di mostrarsi tanto grande quanto lui era stato vile. In alto, era la sua fede. [p. 121 modifica]

Ma nei ritrovi della sera, quanta forza doveva fare a sè stessa per non prorompere in pianto, su quel divano dove si erano per la prima volta strette le mani, vicino alla finestra del giardino da cui egli era entrato quella sera che disse d’amarla, e nel piccolo sottoscala e nel boschetto, e dovunque ella avrebbe pianto amarissime lagrime, perchè dovunque egli l’aveva ingannata.

Subito dopo la scena fatale, Rizzio le scrisse una lettera; Costanza la rimandò senza leggerla; sperando forse segretamente ch’egli avrebbe cercato di parlarle. Ma Rizzio non si fece vedere. Una sera la trovò in casa del dottore; Olimpia non c’era. Sostennero entrambi dignitosamente l’urto del primo [p. 122 modifica] sguardo, poi evitarono di parlarsi. La fierezza dava loro un coraggio straordinario.

Il dottore si sentiva poco bene, e nel ritorno Costanza dovette accettare la compagnia di Rizzio. Quando egli fece per offrirle il braccio:

— Non mi toccate! — esclamò con una violenza maggiore di quella che ella stessa avrebbe voluto.

Egli le camminò al fianco, in apparenza calmo:

— Dovete essere molto in collera con me? — disse dopo qualche momento.

— In collera? No. La collera è un sentimento che nasce tra pari e pari.

Rizzio si morse le labbra:

— È come dire che non mi stimate degno nemmeno di essere odiato. [p. 123 modifica]

— Che ve ne importa?

Dalla casa del dottore a villa Olimpia il tratto era breve. Rizzio capì che non c’era tempo di entrare in una lunga spiegazione, d’altronde il contegno gelato di Costanza lo paralizzava.

— Non volete lasciarmi la speranza di giustificarmi?

L’indignazione di Costanza non le permise di rispondere questa volta; ella affrettò il passo stringendosi nel suo scialetto di lana bianca, quasi fosse una barriera di più fra lei e Rizzio.

— Non volete? — mormorò ancora lui con voce strozzata.

— Giustificarvi? E come lo potreste? Non dite una parola di più; ogni vostra parola sarebbe una menzogna od un insulto. [p. 124 modifica]

Erano giunti davanti alla griglia del giardino. Costanza afferrò con mano febbrile il bottone del campanello.

— Lasciatemi dire allora, — disse Rizzio prendendola per un braccio e scuotendola col suo solito misto di passione e di dispotismo selvaggio, — lasciatemi dire che io credevo che voi lo sapeste. Olimpia stessa mi lasciò in questo inganno fin dal principio della nostra relazione, ed ora ne capisco il perchè. Vidi il tranello quando era già aperto sotto i miei piedi....

— Ma che volevate dunque da me? — interruppe Costanza con alterezza.

— Che volevo? Nulla. Io vi amava; vi ho mai chiesto altro? Il mio contegno non fu sempre quello del massimo rispetto? Quando lessi nei vostri [p. 125 modifica] occhi un lampo di amore potevo forse frenare il mio? Pensate ch’io sia un eroe? Ho mai voluto farmi credere migliore degli altri uomini? Ah! Costanza, siete ingiusta aggravandomi di una colpa che è tutta del destino.

Egli parlava rapidamente, vedendo con angoscia avanzarsi il lume del domestico che veniva ad aprire.

— Non sapete quanto soffro?... Costanza, ditemi che mi perdonate.

Si avvicinò in atto di abbracciarla. Ella retrocesse con terrore, quantunque un sentimento di pietà combattesse nel suo cuore l’orgoglio.

— Perdonatemi, Costanza! — tornò a supplicare Rizzio quasi ai suoi ginocchi.

Si fissarono un istante nelle pupille [p. 126 modifica] con uno sguardo lungo, scintillante; egli la teneva per le vesti e sentiva il corpo di lei che tremava.

— No, — disse Costanza sciogliendosi, — non posso perdonarvi.

La sua agitazione era immensa.

Il domestico aperse il cancello e si tirò da parte per lasciarla passare.

— La vostra ultima parola? — mormorò Rizzio, pallido, colle labbra che fremevano.

— Mai!

Il cancello si chiuse. Se Rizzio avesse potuto seguire l’ombra bianca che fuggiva sotto gli alberi, non per sè stesso avrebbe chiesto pietà. [p. 127 modifica]

Era stato sincero il mai di Costanza? Poteva ella ignorare l’infinita dolcezza del perdono? No, ella non l’ignorava; sapeva, al contrario, che nessuna vendetta soddisfa tanto un nobile cuore come lo soddisfa il perdono.

Perdonare vuol dire sentirsi superiori. Fu Dio stesso che parlò per il primo di perdono; chi perdona si avvicina alla grandezza di Dio.

Costanza aveva mentito per deliberato proposito. Ella non voleva lasciare [p. 128 modifica] alcuna speranza a Rizzio. Poichè tutto era finito, irremissibilmente finito, meglio era non parlarne più; una parola dolce poteva far credere a Rizzio che ella lo amava ancora; ciò non doveva essere a qualunque costo.

S’era anche proposta di dimenticarlo, ma qui la cosa si mostrava un po’ più difficile; alcuni momenti le sembrava impossibile addirittura, ed era quando pensava alla serietà profonda degli occhi di Rizzio, alle sue carezze talvolta così tenere che escludevano ogni idea materiale e davano quasi l’immagine di un amore paterno.

Costanza ricordava con ebbrezza il modo che aveva Rizzio di prenderle la testa colle due mani per baciare i capelli, e certe strette di mano le [p. 129 modifica] ricordava più ancora, e la sua voce più che tutto.

Il progetto di ritornare a Milano le era ripassato per la mente, ma la dignità di sè stessa la consigliò a rimanere almeno per un certo tempo.

Però non aveva il coraggio di restare molte ore sola con Olimpia; un imbarazzo penoso l’assaliva in presenza di sua cugina. Usciva allora e faceva lunghe passeggiate o sulla strada maestra o nei campi e prati che si stendevano dietro il giardino, alcuni dei quali appartenevano ai Matazzi, altri alle ville circonvicine.

In una di queste passeggiate ella scoperse un sentieruzzo ombroso che fiancheggiava un campo di trifoglio, e le parve così romantico e deserto [p. 130 modifica] che vi si inoltrò recitando ad alta voce i versi delle Rimembranze:

E questa è l’ora; mormorar io sento
Co’ miei sospiri in suon pietoso e basso
Tra fronda e fronda il solitario vento.

Ottobre pingeva la campagna di una tinta malinconica; il giallo dominava sul verde. Le colline sfumavano dentro un velo di nebbia rotta qua e là dalla freccia acuta di un campanile. La natura era fredda e silenziosa, il cielo grave; si sentiva l’inverno attraverso le folate di vento che facevano cadere le foglie e stridere i rami.

Costanza non era sola. Davanti a lei, fra gli steli del trifoglio, camminava una giovane signora molto piccola di statura e colla faccia sprofondata nelle [p. 131 modifica] larghe tese di un cappello color oliva. Ella sembrava affaccendata a cercare qualche cosa per terra, così affaccendata che Costanza si fermò e le disse:

— Ha perduto qualche cosa?

L’incognita sollevò due occhi smarriti, chiari, privi affatto d’espressione, e rispose con dolcezza, quasi con una vergognosa titubanza.

— Sì. Ho perduto i miei pesciolini.

Macchinalmente, Costanza si chinò a cercare in mezzo all’erba, ma poi chiese rialzandosi:

— Scusi, che pesciolini?

Un gran turbamento si manifestò in viso all’incognita; ella chinò gli occhi e fregando rapidamente le mani una contro l’altra, balbettò:

— I miei pesciolini, i miei pesciolini. [p. 132 modifica]

Quasi nel medesimo istante una contadina apparve in fondo al campo gridando:

— Signora! signora!

La signora del cappello color oliva, visibilmente contrariata dalla presenza della contadina, si avvicinò a Costanza e ponendole sul braccio una manina diafana, disse con accento supplichevole:

— Ho perduto anche la luna.

Costanza capì che la povera donna aveva smarrito il senno; le venne una compassione immensa, e insieme alla compassione uno strano sospetto.

Intanto la contadina continuava a gridare:

Perchè è fuggita? Sa bene che il padrone non vuole che ella esca sola. [p. 133 modifica] Andiamo, venga a casa. Io sentirò a sgridarmi per colpa sua.

A Costanza batteva il cuore in modo singolare. Strinse con amorevolezza la mano della sconosciuta, e domandò alla contadina:

— Chi è questa signora?

— È la signora di villa Paolina. Era a Milano in un ospizio di.... mi capisce (qui un gesto eloquente): ma siccome ora è tranquilla, sperano che in casa sua possa rimettersi più facilmente. Hum?... quando il cervello è fuori di posto!

— Non parlate così in sua presenza. Ella potrebbe comprendervi e soffrirne, poverina!

Costanza si sentiva le lacrime agli occhi. Mille sentimenti combattevano [p. 134 modifica] in lei, e fra gli altri un desiderio di abbracciare quella disgraziata, di consolarla di farle del bene. Era la moglie di Rizzio!

— Li cercherete i miei pesciolini? — tornò a dire l’infelice volgendo tutto verso Costanza il suo povero volto scolorito.

— Sì, cara, non dubitate; li cercherò e ve li porterò.

— Ah! come fa a dire di queste cose? — esclamò ridendo la contadina.

— Non capite, — ripetè Costanza, — che a secondare la sua idea ella è contenta? Vedetela come mi guarda! Non avete voi dei bambini, ai quali fate credere che in paradiso c’è il pan d’oro? Figuratevi che queste povere creature sono come i bambini. Abbiate [p. 135 modifica] pazienza con lei, usatele bei modi e buone parole. Pensate, se foste voi nel suo stato!

— Madonna santa! preferisco essere quella stracciona che sono!

La piccola signora del cappello oliva si accorgeva benissimo che Costanza perorava la sua causa. Quando la contadina la prese sotto il braccio per condurla a casa, ella guardò Costanza in modo pietoso.

— A rivederci. Penserò a voi, non dubitate.

Così disse Costanza salutandola, e stette ferma a guardarla mentre si allontanava lungo il campo di trifoglio. Una voluttà celeste le era scesa nel cuore, la voluttà di contraccambiare con tanto bene tutto il male che Rizzio le aveva fatto. [p. 136 modifica]

— Non credete che ella possa guarire?

— Tutto quello che era possibile si è già ottenuto. Non ha più accessi furiosi; non attenta più alla sua vita; la sua è adesso una follia innocente ed innocua.

— Si trova da molto tempo in questo stato?

— Saranno quasi cinque anni; ciò le accadde dopo il parto, ma nella sua famiglia si ebbero altri casi di pazzia. [p. 137 modifica] Gli uomini dovrebbero essere un poco più cauti quando scelgono una moglie.

Questo dialogo correva fra il dottore e Costanza. Costanza soggiunse, con un lieve tremito nella voce:

— Egli era forse molto innamorato?

— La bella ragione! Ma no, non mi pare che fosse innamorato. È stato un matrimonio di convenienza; certo due esseri opposti non si potevano unire in peggio, — e pensare che è per tutta la vita!

Un brivido agitò Costanza, che non rispose.

Nei giorni seguenti, grosse pioggie le impedirono di uscire; i sentieri dei campi erano impraticabili, la strada maestra sembrava una pozzanghera.

Salviati veniva tutti i giorni a fare [p. 138 modifica] la corte a Olimpia. Costanza incominciava a stabilire sul serio la sua partenza; per la fine di ottobre contava essere a Milano.

Ma come tornava cambiata alla sua casa! Come vi tornava cambiata da quel bel giorno di primavera in cui erane partita così gaja e serena! Anche ora, mordendo pensierosa una foglia di geranio, le accadeva di cantare a mezza voce:

quando il tuo labbro sul labbro mio;

ma calde lagrime accompagnavano la romanza. Costanza non poteva dimenticare.

Per santa Teresa venne fuori un bellissimo sole. Si doveva ballare alla sera in casa della sindachessa, che [p. 139 modifica] aveva ordinato per sè e per le sue figlie degli abiti color sangue di drago; Olimpia si riprometteva tutte le gioje della maldicenza; Costanza era più malinconica che mai. I divertimenti non svagano che le anime plebee; un nobile dolore nobilmente sopportato desidera la solitudine.

Ella uscì nel pomeriggio, per trovarsi sola co’ suoi pensieri, e prese senza accorgersene, il sentiero che conduceva al campo di trifoglio.

Passeggiò un poco e poi sedette sotto a un albero, godendo la delizia di quella giornata di tardo autunno, così placida e così severa, così fatta per mettere la calma in un cuore agitato.

«Poichè l’uccelletto del bosco svolazza e canta ancora su quel ramo dove le sue uova si ruppero nel nido. [p. 140 modifica]

«Poichè il fiore del campo dischiuso fin dal mattino, vedendo un altro fiore sorgergli accanto, s’inchina senza mormorare e cade prima di sera.

«Poichè in fondo alla foresta, sotto gli archi di foglie, il legno morto scricchiola sui sentieri; e perchè l’uomo attraversando la natura immortale non ha saputo trovare nessuna scienza che duri, fuorchè quella di andare sempre avanti.

«O musa, che m’importa vivere o morire?

«Amo, e voglio che la mia guancia diventi pallida; amo e voglio soffrire; amo, e per un bacio do il mio ingegno.

«Amo, e voglio sentire sulla mia guancia dimagrata scorrere una fonte che non inaridisca mai.» [p. 141 modifica]

I pensieri di Costanza erano forse eguali a questi pensieri di un grande poeta! poichè la nota del dolore è la specialità del genio, e quando il poeta crede di parlare al proprio cuore, parla al cuore dell’umanità.

Una voce riscosse Costanza. Ella levò gli occhi e vide la piccola signora dal cappello oliva che le correva incontro, seguìta dalla solita contadina.

— Come state? Ho molto piacere di incontrarvi, — disse la piccola signora. — Sapete che sono rimasta in casa tutti questi giorni in causa della pioggia?

— Certamente, io lo supponevo, — rispose Costanza maravigliata di sentirla discorrere così a proposito. — E voi state bene? [p. 142 modifica]

— Sì, sì, non c’è malaccio. Ho sempre qualche cosa qui — (si toccò la fronte) — come un chiodo. Non avete mai provato voi ad avere un chiodo? Una volta ne ebbi fin mille, facevano tic tac, tic tac, e poi li ho perduti. Ah! ho perduti i miei chiodi. Dove sono? Dove sono?

— Ci siamo, — disse la contadina.

Costanza offrì il suo braccio alla povera demente, e con somma dolcezza la intrattenne ascoltando pazientemente le stramberie che andava dicendo.

Una curiosità affettuosa la spingeva a leggere la vita di quella donna attraverso le incoerenze del suo linguaggio. Sperava e paventava sempre di udir pronunciare il nome di Rizzio; ma la piccola signora non vi faceva [p. 143 modifica] neppure allusione; non nominava nessuno; parlava di sè e degli oggetti inanimati. Il sole, la luna, i pesciolini la occupavano sempre.

Al momento di separarsi, ella si aggrappò alla mano di Costanza, come un fanciullo viziato:

— Venite con me! — esclamò tirandola. — Venite!

— Non posso, carina, — rispose Costanza commossa. — Io abito laggiù, vedete? Laggiù dove c’è un pioppo che oltrepassa il tetto.

— Conosco quella casa, — disse la pazza corrugando la fronte quasi per richiamare idee lontane. — Ci sono stata quando, quando...

Non si ricordava più.

— Presto vado via però; forse è [p. 144 modifica] l’ultima volta che ci vediamo. Volete darmi un bacio?

Un bacio?

Sulla sua faccia smunta passò il raggio di un sorriso. Costanza la prese per le spalle e la baciò due volte. Una tenerezza malinconica le stringeva il cuore; sentiva di non essere più padrona di sè. La salutò ancora colla mano e si allontanò rapidamente.

Rizzio non era più comparso a villa Olimpia. Si dubitava anche assai che dovesse accettare l’invito del sindaco [p. 145 modifica] per quella sera. La presenza in casa sua della povera demente giustificava fino a un certo punto tale eclissi.

— Tuttavia, — diceva la moglie del dottore, che non si consolava tanto facilmente della perdita di un uomo simpatico, — se è lecito supporre che sua moglie gli resti pazza per trenta o quarant’anni ancora, vorrà egli restare tappato in casa fino al secolo venturo?

— È buon marito!

Questa frase la gettò là Olimpia, passando con indifferenza per andare da Salviati a farsi allacciare un guanto.

— Sì, — mormorò la moglie del dottore, — ve ne sono molti di buoni mariti!

(E appoggiò l’accento sull’aggettivo qualificativo). [p. 146 modifica]

Puccini sorrise. Le figlie della sindachessa sorrisero anche loro senza sapere il perchè.

— Io sono d’opinione, — intervenne Matazzi, — ch’egli avrebbe fatto bene a lasciarla dov’era.

Costanza si era indotta a malincuore a venire in quella riunione che mancava per lei d’ogni attrattiva; ne l’aveva decisa il pensiero di fare i suoi saluti a tutti in una volta sola.

Seduta vicino al vecchio sindaco che dormiva, le restava se non altro la libertà della sua tristezza. Vedeva svolazzarsi davanti nel turbinio del ballo le gonne grosse delle padroncine di casa e il lungo strascico di Olimpia ravvolto intorno ai piedi di Salviati; li vedeva come in sogno. [p. 147 modifica]

Improvvisamente trasalì. Aveva udito la voce di Rizzio; egli diceva: vuol piovere o fa freddo, o qualche cosa di altrettanto comune e insignificante; ma era la voce di Rizzio!

Costanza si sentì presa dal bisogno di fuggire, di sottrarsi agli sguardi di lui, almeno finchè avesse preparata una maschera di freddezza conveniente.

Accanto alla sala del ballo c’era un corritojo che serviva per il giro delle coppie, e in fondo al corritojo la camera della sindachessa.

Costanza vi si rifugiò e sedette accanto al letto tutto coperto dei mantelli e dei cappucci delle signore.

Una pallida lucerna la rischiarava. I ritratti del sindaco e di sua moglie stavano appesi alle pareti, il sindaco in [p. 148 modifica] giubba, cravatta bianca, guanti in mano appoggiato a un tavolino dove c’era un calamajo e una penna; madama in velluto celeste con delle fettuccie rosa. I due onesti coniugi guardavano Costanza e sembravano maravigliarsi, nelle loro cornici di legno, ch’ella potesse soffrire tanto; le loro ciglia immobili e dipinte esprimevano lo stupore; sulla bocca della sindachessa, atteggiata in forma di cuore, un sorriso bonario voleva dire: «C’è qualche cosa al mondo che valga la pena di essere presa sul serio?»

Costanza appoggiò la testa sui guanciali: in sala suonavano un valzer; si sentiva lo stropiccìo dei piedi, le risa soffocate, le parole interrotte; quegli uomini e quelle donne che si tenevano [p. 149 modifica] abbracciati mandavano fino a lei l’eco del loro tripudio; era come un’onda esuberante di vita che veniva a frangersi contro la sua solitudine.

Ma sognava o la voce di Rizzio la perseguitava ancora? No, non era un sogno.

Due persone, stando nel corritojo, si appoggiarono contro l’uscio della camera da letto. Rizzio diceva:

— È per voi che sono venuto qui.

— Per vendicarvi? — (Questa era la voce d’Olimpia).

— Appunto; per vendicarmi. — (Una amarezza singolare accentuò queste parole).

— Credevo vi bastasse il non venire più in casa mia.

— Non perdiamo tempo in ciarle [p. 150 modifica] inutili e sopratutto non torniamo sul passato. Badate piuttosto a scegliere meglio i vostri adoratori; non tutti sono discreti. Ecco una lettera che voi avete scritto a Salviati.

— Come l’aveste? — (La voce d’Olimpia strideva per la collera).

— Poco importa saperlo; Salviati è uno sguajato.... dicevate un tempo. Prendete la vostra lettera e siate più cauta.

— Grazie. Siete dunque ancora mio amico?

— No.

Vi fu un momento di silenzio. Olimpia soggiunse con inflessione carezzevole:

— Perchè volete essere generoso solamente a metà?... L’amate dunque assai mia cugina?

Rizzio interruppe: [p. 151 modifica]

— Non pronunciate il suo nome.

— L’amate? — insistè Olimpia con voce soffocata.

— Ebbene, sì, l’amo, l’amo. Se questo vi può tormentare come voi avete tormentato me, ve lo ripeto, l’amo! Vedete che è impossibile una riconciliazione fra noi due. Vi ho portata la vostra lettera, una lettera che vi poteva perdere; non chiedetemi altro.

Le voci si allontanarono. Costanza, in preda a un’agitazione vivissima, si levò in piedi; ma non poteva reggersi. Ci volle un po’ di tempo prima di ricomporsi per rientrare in sala.

Rizzio era già partito. [p. 152 modifica]

Il breve colloquio udito per caso da Costanza, era di natura a smuoverla da’ suoi propositi di oblìo. Ella perdette in un colpo solo i vantaggi ottenuti con tanti giorni di lotta.

Credere Rizzio totalmente indegno del suo amore era un ajuto per dimenticarlo; scoprire invece che egli è, ad onta di tutto, un nobile cuore e trovarsi ancora davanti il dovere inesorabile, fatale, e vedere sempre ritta la insuperabile barriera che li divide, e doversi dire che non sarebbe suo [p. 153 modifica] giammai, ecco il nuovo dolore che venne ad aggiungersi ai dolori di Costanza.

La sua partenza venne fissata per l’ultimo del mese, ma ora sì che le si attagliavano i versi di Bernardo Tasso:

Parte l’amante, ma non parte solo,
C’ha i suoi cari pensieri in compagnia,
I quali ad ora ad or s’alzano a volo
Tornando a lei per la più corta via.

E guardando sull’album d’Olimpia il ritratto di Rizzio non poteva ella soggiungere:

Nè per baciar le mille volte e mille
L’imagine cotanto amata e cara
Sol una spegne di tante faville.

O poeti, consolatori di quelli che soffrono, la vostra missione sulla terra è ben dolce! Raccogliete intorno a voi in [p. 154 modifica] un grido solo d’amore gli amori di tutti i secoli, voi siete l’arpa e la croce, il Parnaso e il Golgota, il cuore che canta e il cuore che geme.

Il trentuno di ottobre si levò splendido e sereno, ma dopo qualche ora di sole una fitta nebbia scese a coprire ogni cosa.

— La brutta giornataccia che avete per partire, cugina mia! — diceva Mattazzi intanto che attaccavano il cavallo alla carrozzella che doveva condurli alla stazione.

Costanza si preoccupava poco del tempo; non era eccessivamente nervosa. Si sentiva triste però. Abbracciò Olimpia quasi piangendo, con una voglia immensa di raccontarle tutto e di dirle che le perdonava. [p. 155 modifica]

Olimpia si mantenne impassibile; aveva la tosse e prendeva delle caramelle d’orzo; ne offerse anche a sua cugina, che rifiutò.

— Hai il vestito sulla ruota, — le disse, quando Costanza fu seduta nella carrozzella.

— Grazie.

— Buon viaggio e conservati sana.

— Anche te. Addio.

Il cavallo si mosse; non aveva fatto quattro passi che già era scomparso nella nebbia. Olimpia stava per ritirarsi dacchè era impossibile distinguere nulla.

A un tratto si odono acutissime grida. La voce di Matazzi dominava quella di Costanza e un’altra fievole e lamentosa come di persona ferita. Avanzandosi, [p. 156 modifica] Olimpia vide la carrozza ferma e suo marito che balzato a terra tentava ritirare di sotto alle zampe dei cavalli una piccola signora con un cappello oliva.

La causa prima della disgrazia era stata la nebbia. La povera donna, sfuggita alla sorveglianza veniva a salutare Costanza che aveva conosciuta tanto buona con lei; proprio al momento che entrava nella villa, il cavallo usciva, investendola e gettandola a terra.

La rialzarono; parlava, si lagnava molto; le usciva il sangue in abbondanza da una ferita alla mano, ma non sembrava fosse lì il male maggiore.

Due messi furono spediti in tutta fretta ad avvertire Rizzio e il dottore. [p. 157 modifica] Disgraziatamente Rizzio non c’era. Il dottore accorse subito, fece portare la poveretta su un letto, la spogliò e la esaminò coscienziosamente.

Tolta la ferita della mano, non c’erano lesioni visibili, ma siccome i suoi lamenti erano strazianti, si dubitò che avesse ricevuta una scossa interna.

Per la doppia considerazione di non aggravare il suo stato trasportandola e perchè Rizzio non era in casa, decisero di tenerla nel letto di Costanza. Alla partenza non ci si pensava più. Costanza, che si riteneva non affatto estranea alla disgrazia, perchè l’infelice si era mossa per venire a trovar lei, le sedeva piena d’angoscia al capezzale tenendole una mano stretta nelle sue ed applicandole sui polsi il [p. 158 modifica] ghiaccio che era stato ordinato dal medico.

— Purchè guarisca! Mio Dio! purchè guarisca! — esclamava di tratto in tratto, sollevando gli occhi al cielo.

— Lo spero, — disse il dottore, — e forse guarirà completamente. Non è la prima volta che una forte commozione ridà la salute a un pazzo. Curandola bene, chi sa che non ne esca a tutto suo vantaggio.

Udendo queste parole, Costanza rivolse una fervida preghiera a Chi regge i destini degli uomini. La sua anima, pronta sempre al sacrificio, si offriva in cambio di quella povera anima sofferente.

— Non l’abbandonerete? — domandò il medico, — almeno finchè viene suo [p. 159 modifica] marito. Olimpia non ha attitudine a fare la suora di carità.

— Vi prometto di non muovermi da questa camera. Ah! signore, quanto darei per salvarla!

Il medico le strinse la mano assicurandole che egli sperava molto.

— Questa camera è gelata; non so come tu puoi resistere a starvi.

Olimpia era venuta a visitare l’inferma e se ne stava ai piedi del letto nell’attitudine precaria di chi vuole andarsene presto. [p. 160 modifica]

— Vedi? ho tenuto lo scialle appositamente; non c’è mica male così.

— Già; tu non hai la tosse. E come va questa povera Paolina?

— Il dottore ha buone speranze. Parliamo adagio perchè dorme; infelice! chi sa quanto soffre!

— Mi dispiace che la cosa sia avvenuta, qui, colla mia carrozza e col mio cavallo; è seccante, capirai, quantunque ritengo che non vorranno accagionarmi anche questa disgrazia.

— Oh! ti pare!

— Non so che ne penserà Rizzio. Oggi per l’appunto è andato a Milano e non tornerà che stasera, o domattina. Ma decisamente a star qui la mia tosse cresce. Ti manderò la cameriera.

— Per far che? [p. 161 modifica]

— Per ajutarti, per sollevarti, che so io! Deve essere molto penoso il curare gli ammalati!

— No, non è penoso. La cameriera non mi gioverebbe affatto. Se mi occorre chiamerò.

— Come vuoi! Eccoti cinta di tutte le aureole!

Su questa frase discretamente sarcastica, Olimpia si allontanò tossicchiando.

Dopo pranzo venne ancora il dottore. L’ammalata giaceva in uno stato di letargo; non capiva quello che le si diceva, non conosceva nessuno, neppure Costanza; non si lagnava più.

Le rinnovarono la fasciatura della mano, e poi il dottore propose di chiedere un consulto al medico alienista che l’aveva curata nello stabilimento [p. 162 modifica] di Milano. Ma il marito era assente; come prendere una decisione di tale importanza senza di lui? Convenne aspettare. Intanto mandarono a chiamare la contadina che l’aveva in guardia. Essa e Costanza si prepararono a passare la notte vegliando: Matazzi si offerse a supplire una delle due quando sarebbero stanche. Tuttavia, la più grande tranquillità essendo prescritta di rigore, ognuno si ritirò lasciando la poveretta colle sue due infermiere.

Difficile sarebbe ridire le meditazioni che fece Costanza; le sfumature, leggierissime del suo pensiero, le ansie, i dubbi, le paure, i dolci riposi della sua coscienza, le ambascie del suo cuore battagliero. Tutta assorta com’era non [p. 163 modifica] si accorse che la camera si faceva buja e che la contadina dormiva.

Il suono di un pendolo collocato in un angolo della camera la riscosse.

Otto ore!

Si alzò e accese un lume. Nel salotto terreno si udiva il mormorio di diverse persone riunite. Lontano, attraverso la nebbia, attraverso gli alberi sfrondati, il fischio del vapore sibilò per l’aria. Era l’ultima corsa che arrivava da Milano.

Costanza prese da un cassetto alcuni pannolini usati e cominciò a farne delle filaccie per la mano di Paolina. L’immobilità della pazza la sgomentava; avrebbe preferito udirla sragionare piuttosto che vederla così impietrita, col volto che pareva di cera e l’occhio spento. [p. 164 modifica]

Portandosi coll’immaginazione nel passato di quella povera donna, se la figurava lieta e sorridente sotto il velo di sposa: pensava come doveva essere stato quel volto che, fosse pur poco, era piaciuto a Rizzio, e quegli occhi dove egli aveva fissato i suoi; quasi la prendeva un desiderio violento di essere al suo posto, solo per chiamarsi la moglie di Rizzio, per avere diritto alla sua compassione e morire nelle sue braccia e avere il nome di lui scritto sulla sua tomba.

Passi affrettati risuonarono su per le scale, Matazzi, il dottore e Rizzio entrarono, col cappello in mano, parlando a bassa voce.

Costanza si pose nell’ombra. I tre uomini circondarono il letto; Matazzi [p. 165 modifica] spiegava come era succeduta la disgrazia; il medico intanto teneva gli occhi fissi nell’ammalata, e sulla sua fronte corrugata si potevano leggere tristi pronostici.

Il contegno del marito era serio, afflitto senza affettazione. Prese la mano di Paolina. La chiamò dolcemente, ma non ottenne risposta. Sembrava affatto insensibile; aveva solo un respiro affannoso, rotto da lievi gemiti.

Si decise subito di telegrafare al medico dello stabilimento; Matazzi discese a dare gli ordini.

— Voi!...

Indietreggiando di alcuni passi, Rizzio aveva veduta Costanza; i loro occhi avvezzi a comprendersi s’intesero con un rapido sguardo. [p. 166 modifica]

Costanza pose un dito sulle labbra invitandolo al silenzio.

— Oh! permettete almeno che vi ringrazi.

Ella sorrise melanconicamente.

Di lì a pochi momenti il dottore prese commiato.

Costanza si mosse per accompagnarlo, ma volgendosi prima verso Rizzio, gli domandò:

— Restate?

— Certamente.

— Allora io vado a prendere qualche ora di riposo; ci scambieremo verso il mattino.

Rizzio non osò pregarla di rimanere: le stese la mano, che ella toccò leggiermente tremando. [p. 167 modifica]

Tutti erano accorsi quella sera a villa Olimpia per sentire le notizie dell’accaduto.

La moglie del dottore si dava un’aria importante di persona iniziata ai misteri della scienza; parlava di spina, di cerebro, e della sutura che congiunge le ossa del cranio; ma quando le domandavano l’opinione di suo marito sullo spiacevole caso, ella si ravvolgea in un velo di reticenze prudenti, come se fosse un confessore e non potesse palesare i segreti ricevuti. [p. 168 modifica]

La sindachessa pure era accorsa colle sue due figlie.

C’era stato prima un consiglio di famiglia per sapere se, in vista del disgraziato accidente, non era il caso di vestire abiti bruni. In seguito alla decisione affermativa, la sindachessa aveva indossato il suo abito nero; le figlie, che non avevano abito nero, tirarono fuori dal guardaroba il loro abito dell’inverno passato che era color sorcio, unica circostanza in cui non si videro vestite tutte e tre a un modo come le Grazie.

Salviati esclamava tratto tratto: «Che disgrazia! Che disgrazia!» ritto sui garretti e con una mano sul fianco, Puccini raccontava i casi analoghi che erano succeduti nella sua famiglia, dove [p. 169 modifica] pare gli accidenti di carrozze si moltiplicavano all’infinito.

La figlia maggiore del sindaco (una ingenua di trent’anni) ebbe la dabbenaggine di dire:

— Se la povera signora morisse, il signor Rizzio prenderebbe moglie ancora?...

Al che Olimpia rispose in modo sarcastico:

— Se è per qualche tua amica che parli, bimba, asciugati la bocca!

— Come! — domandò la moglie del dottore intanto che l’ingenua si confondeva in proteste. — Rizzio avrebbe egli un’innamorata?

Olimpia alzò le spalle sdegnosamente senza aggiunger altro.

La moglie del sindaco credette bene [p. 170 modifica] di avvicinarsi alla dottoressa e, forte della sua esperienza di mamma, susurrarle all’orecchio:

— Rizzio, mia cara signora, è uno di quegli uomini pericolosi.... voi m’intendete! (uno sguardo intelligente fu scambiato fra le due matrone). — Uno di quegli uomini che lusingano, che seducono, che adescano senza promettere mai nulla.... voi m’intendete! Uomini immorali, dissoluti, via!.... Non gli darei le mie figlie se me le pagasse un milione per capello.

— Rinuncia magnanima! — sibilò Olimpia.

In quel momento entrò Costanza. Veniva a dare la buona notte alla compagnia prima di ritirarsi. Poichè Rizzio vegliava la moglie, ella si era fatto [p. 171 modifica] apparecchiare un lettuccio nella camera accanto.

— In verità, mia cara, — le disse Olimpia, — ti dai troppa pena per quella gente.

— È una pena che mi darei per tutto il mondo, — rispose Costanza, che aveva le lagrime agli occhi, — per il primo che capita, se fosse uno che soffre e che avesse bisogno di me!

— Tu sei padrona di fare del tuo cuore quello che vuoi, anche gettarlo ai cani.

Costanza avrebbe potuto rispondere: «E l’ho pur gettato!» ma non disse nulla. Salutò tutti e se ne andò.

Durante la notte non potè chiuder occhio. Rizzio e Paolina erano a due passi da lei. La pietà e l’amore la [p. 172 modifica] tenevano desta; porgeva l’orecchio ad ogni minimo rumore, trasaliva ad ogni gemito dell’ammalata.

Verso le quattro la contadina venne a bussare al suo uscio.

— Che c’è? — chiese Costanza aprendo.

— La signora muore.

Non corse, volò. Rizzio la sosteneva sotto la testa; era disfatta in volto e già del colore di un cadavere.

— Il medico! Il medico! — gridò Costanza.

È inutile, — mormorò Rizzio crollando il capo, — non ha quasi più polso.

Tuttavia la donna andò a svegliare Olimpia e Matazzi; qualcuno mosse in cerca del dottore. [p. 173 modifica]

Intanto Costanza, ajutata da Rizzio, metteva dei guanciali dietro le spalle della moribonda.

Essi non si guardavano.

Costanza batteva i denti per il freddo. Rizzio prese il proprio mantello e glielo pose sui ginocchi in silenzio.

La pazza aperse gli occhi un istante; Costanza si curvò su di lei e la vide sorridere:

— Mi conoscete?...

Senza rispondere, l’infelice allungò le labbra e baciò Costanza sulla fronte. Anche Rizzio tentò di avvicinarsi, ma ella aveva già chiusi gli occhi.

L’alba, pallidissima, sorgeva in cielo: la camera si riempiva di una luce fredda, vaporosa, che dava a quei tre volti un solo aspetto di cera. [p. 174 modifica]

— Oh Dio! ella muore, — esclamò improvvisamente Costanza.

Entrava allora Olimpia seguìta da suo marito e dal dottore.

— È morta! — disse il dottore ponendole una mano sul cuore.

L’indomani Costanza era ammalata.

Si credette sul principio una semplice febbre dovuta allo strapazzo, ma poi subentrarono dei caratteri reumatici e nervosi che la obbligarono a una cura rigorosa. [p. 175 modifica]

Stando in letto, ella udì i becchini che venivano a prendere la povera morta, e le martellate che davano sui chiodi per conficcarli nella bara. Udì il buon Matazzi che diceva: «Dopo tutto, meglio così: che faceva al mondo quell’infelice?»

La voce di Rizzio l’udì una volta sola; non potè comprendere quello che disse.

Olimpia veniva spesso a trovarla; si metteva sotto alla finestra col lavoro in mano, ma parlava poco. La diffidenza era nata in mezzo loro. Un solo pensiero le dominava quando erano insieme e tutta la loro cura mirava a nasconderlo.

— Stanno tutti bene? — dimandava Costanza (ella pensava a Rizzio). [p. 176 modifica]

— Sì, benissimo tutti, — rispondeva Olimpia. — Sai bene: chi muore giace e chi vive si dà pace (ella pure pensava a Rizzio).

Costanza struggevasi che la sua malattia la ritenesse ancora in campagna. Già da quindici giorni avrebbe dovuto trovarsi a Milano, nel suo salottino, nella sua poltroncina americana, dove aveva imparato a dimenticare, e dove temeva, pur troppo, di non poter dimenticare più.

Appena cominciò a star meglio, ebbe fretta di annunciare a tutti la sua partenza; troppo fretta, perchè una ricaduta la obbligò a tornare in letto.

Venne così la fine di novembre. La campagna era uno squallore; la neve ricopriva tutto: alberi, prati, sentieri; [p. 177 modifica] pareva di essere in un deserto ai confini del polo.

Col freddo, le riunioni della sera erano più vive; ballavano sempre di qui e di là; la moglie del dottore, inaugurando la settima gravidanza, faceva dei renversé a tutta possa.

Costanza non si mostrava in nessuna casa; le sue premure erano volte a guarire in fretta; e poi avrebbe paventato troppo un incontro con Rizzio, quantunque sapesse che anche Rizzio non si faceva vedere più.

In una gelida sera di dicembre Olimpia doveva andare dal sindaco. Nessuna preghiera valse a smuovere Costanza dal suo proposito di restare in casa, onde Olimpia partì sola questa volta come tutte le altre. [p. 178 modifica]

Costanza si era avvezzata ad amare queste placide sere, che ella trasoorreva, libera, in compagnia delle sue memorie. Erano proprio le ultime perchè fra due o tre giorni sarebbe partita assolutamente.

Lavorava, accanto al fuoco, immersa nella dolce malinconia che l’era diventata abituale, quando le parve di sentire un rumore in giardino, e il dubbio divenne certezza poi che due o tre colpi picchiati sulla griglia l’avvertirono che qualcuno cercava di entrare.

Un leggiero e naturale senso di paura s’impadronì dell’animo suo pur così forte. I domestici dormivano al piano superiore. Ella non sapeva che fare, ma una voce la rassicurò subito:

— Aprite, sono io. [p. 179 modifica]

— Che fate? Che volete?

— Aprite, ve ne prego.

Era la sua voce grave, dolcissima, persuasiva. Costanza levò il saliscendi, e Rizzio, intirizzito, coperto di neve, entrò nel salotto. Egli avrebbe potuto dire che, al pari di Romeo, aveva scavalcato il muro di cinta questa volta; ma Costanza non glielo domandò. Disse invece, vedendo il suo pallore:

— Vi ho spaventata?.... Ma come dovevo fare? Ho saputo che volete partire senza vedermi, ed io.... — Si arrestò perchè Costanza rimaneva fredda, in piedi, appoggiata alla sedia, e non lo guardava. — Ecco, lo vedo; voi non mi avete ancora perdonato. E potevo io restare così? Dopo tutto quello che [p. 180 modifica] c’è stato fra noi due possiamo lasciarci in tal modo?

Costanza non seppe leggere attraverso queste parole ciò che vi metteva l’orgoglio e ciò che vi metteva l’amore; si ingannò, e rispose:

— Io vi ho perdonato, non parliamone più.

— Non è vero che mi avete perdonato! E se pur perdonaste, fu dimenticandomi.

Costanza lo guardò.

Oh! quella sera, quella bella sera d’estate che egli si trovava lì, al medesimo posto, giurando d’amarla, oh! quella bella sera in cui ella aveva creduto!...

Gli occhi di Costanza erano più sinceri del suo labbro, Rizzio vi leggeva [p. 181 modifica] chiaramente che ella non dimenticava.

— Credete che il mio cuore sia cambiato o credete che io mentissi allora? Vi amo, Costanza, lo sapete, lo sentite; non ho mai cessato un istante di amarvi, mai, e voi pure, oh! non dite di no, voi pure mi amate!

L’aveva presa attraverso la vita guardandola dentro alle pupille.

— Come potremmo non amarci se ci siamo scambiate le anime col primo sguardo? Costanza, che è questo tremito che ci invade, questo pallore che ci ricopre? Perchè il vostro cuore palpita sotto la mia mano? Perchè il mio vuole schiantarsi entro il mio petto?... perchè, se non per amore? Bussando alla vostra finestra sotto alla neve, io ardeva; la commozione mi stringeva [p. 182 modifica] alla gola; ma anche voi, anche voi avete sussultato al suono della mia voce; anche a voi la commozione rompeva la parola. Costanza, io sono vostro e voi siete mia!

Ella si sentiva morire, di una morte soavissima che le toglieva le sensazioni dolorose della vita per sprofondarla in un gaudio di paradiso.

Ella non poteva parlare.

— Oh! dimmi una parola sola. Mi perdoni?

— Sì.

— Mi ami?

— Sì.

— Sarai mia?

— Sì.

Costanza aveva perdonato.