La poesia cavalleresca e scritti vari/Scritti vari/II. Commemorazioni/Massimo d'Azeglio

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II. Commemorazioni - Massimo d'Azeglio

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MASSIMO D’AZEGLIO


Nel i8i5, quando s’instaurava dappertutto l’Europa feudale e dispotica sotto le baionette della Santa Alleanza e le benedizioni di Pio VII, i Principi, ritornando alle loro Reggie rimettendo tutto a vecchio, inviarono ambasciatori al venerabile Pio per rallegrarsi seco del suo ritorno. Partiva da Torino co’ figliuoli e con pomposo seguito Cesare d’Azeglio, appartenente a’ primi gradi dell’aristocrazia e della milizia, e andava a inchinarsi ai piedi del Sommo Pontefice prestandogli omaggio, e rallegrandosi con lui che oramai la porta delle rivoluzioni era chiusa e l’ordine regnava in Europa. La scena dovette essere commovente; il buon Pio dopo i dolori dell’esilio dovette accogliere con tenera espansione le regie felicitazioni; e il gentiluomo piemontese dovette con perfetta buona fede ritrargli il quadro della nuova èra che si apriva in Europa d’ordine e di pace, che si chiamava la ristorazione. La voce severa dell’avvenire non entrò a turbare que’ momenti di credulo obblio ne’ quali Pontefice e Ambasciatore dovettero sentirsi felici; altrimenti quella voce avrebbe potuto susurrare all’orecchio del gentiluomo piemontese: bada, Cesare d’Azeglio; mentre tu parli di ristorazione, la rivoluzione ti entra in casa; dove hai lasciato tuo figlio? Mentre il padre arringava Pio VII, Massimo, il figlio, di poco piú che 15 anni, andava per le vie di Roma contemplando i monumenti e ricevea le prime impressioni della grandezza italiana. Invano il padre avea fatto di lui una guardia urbana della ristorazione; ché il giovinetto, sotto a quella divisa, segno di tempi andati, sentia svegliarsi giá nell’animo l’uomo nuovo alla [p. 230 modifica]vista di que’ monumenti che dicevano patria, libertá, gloria, grandezza nazionale, Roma, Italia. Il buon Cesare d’Azeglio non tenea conto della nuova generazione, e promettea troppo al Pontefice della sua Torino; non sapeva che di mezzo ai teologi sarebbe sorto Vincenzo Gioberti, di mezzo ai cattolici sarebbe sorto Cesare Balbo, di mezzo all’aristocrazia sarebbe sorto Cavour, e gli sarebbe sorto in casa Massimo d’Azeglio.

Questo grande italiano ha vissuto abbastanza per veder quasi compiuto il lavoro della nuova generazione, della quale è stato si gran parte. Egli ha fatto il suo dovere, e noi oggi adempiamo il nostro onorando con pubblico lutto la sua memoria e commemorando la sua vita.

Nella storia di Massimo d’Azeglio c’è un po’ la storia di tutti; ogni uomo di qualche valore ha dovuto, come lui, prima subire una cattiva istruzione, poi ristudiare, rifarsi una educazione, aprirsi lui la propria via; e quando giunse l’ora dell’opera ha dovuto gittarsi dietro gli studii e divenire soldato d’Italia.

Massimo d’Azeglio ha dovuto lottare sino a venti anni contro i maestri, contro la famiglia, contro la sua classe, contro quello spirito redivivo del medio evo che si chiamava la ristorazione. Il suo maestro, un ecclesiastico, lo tribolava col suo latino, e con la storia antica, co’ medi, gli assiri, i persiani, gli egiziani. Al padre dovea parere un capriccioso. E il suo capriccio era che volea andare a Roma, e farsi artista. Roma gli ha guasto il capo, dicea il padre. Come cadetto di nobil famiglia. Massimo non potea essere un artista; dovea essere o prete o soldato. A sedici anni fu dunque fatto ufficiale di cavalleria. Era un bello ufficiale, di alta statura, svelto nella persona, destro nel maneggio del cavallo, capo scarico, da cui erano fuggiti medi, assiri, persiani, egiziani e il latino. Il cadetto era salvato, ma l’uomo era perduto. Tutto quell’ardore giovanile, quel soverchio di vita egli lo riversò ne’ piaceri, a’ quali si diede abbandonatamente, e dove se qualche cosa dava ancor segno della sua non volgare natura, era il brio, la grazia che ci mettea in certo amabile folleggiare pieno di spirito e di buon umore che rivelava l’ingegno. Cosi alcuni nobili giovani furono educati e cosí furono [p. 231 modifica]perduti: scosso appena il giogo del maestro, acquistato il dritto di non studiare, logori dai piaceri e dall’ozio, stranieri alla storia del loro paese, oggi non sono neppur capaci di comprender 1 ’ Italia e maledicono quello che non comprendono. In questa folla ignota sarebbe rimasto confuso Massimo d’Azeglio, se non gli fosse stato accanto un uomo di core e di buon senso, il professore Bidone, non suo maestro, ma suo amico, che parte motteggiando, parte ammonendo, dell’ignobile vita gli fe’ vergogna. Tornò allora a Massimo in mente il capriccio di andare a Roma e farsi artista; il capriccio del fanciullo divenne la volontá di un uomo. Invano i suoi compagni di piacere lo chiamarono un matto; egli senti che allora appunto cominciava a divenire un uomo savio. Il padre volle far prova della sua fermezza, e gli tolse ogni sussidio, lasciatogli appena il bisognevole; Massimo si ostinò, parti per Roma, come un antico pellegrino, e vinse; vinse in questa lunga lotta contro la sua educazione e i pregiudizii della classe. Partiva ufficiale di cavalleria; tornava artista, scrittore e cittadino.

Sentiamo lui stesso, come si dipinge a quel tempo. Avevo, egli dice, da’ venti a’ venticinque anni, buona fibra, pochi pensieri e meno quattrini. Nessuno sapeva che fossi al mondo, ed io volevo farlo sapere. Diventerò pittore, dissi, e farò parlare di me.

Dal maggio all’ottobre ne’ paesi circostanti della campagna romana si vedea passare un giovane, dalla fronte spaziosa, dallo sguardo velato, dalla fisonomia dolce e benevola, a cui faceva strano contrasto la veste di contadino, con quella camiciuola di velluto bleu in sulla spalla, con quello schioppo ad armacollo, con quel coltello nella tasca dritta dei calzoni. Quel giovine era Massimo d’Azeglio, e visse cosí dieci anni, correndo tutt’i paesi intorno a studiar la natura, ad imparar l’arte e ritirandosi la sera in casa di un contadino, dove pagava dozzina e vivea con la famiglia. Certo quella vita dovea parergli dura, lui, nato gentiluomo ed agiato; pure era cosí contento, e lavorava con tanto buono umore; sentiva di esser libero, di esser divenuto un uomo, e diceva fra sé: un giorno saprá il mondo che io ci sono. [p. 232 modifica]

Questa vita menava D’Azeglio dal maggio all’ottobre. L’inverno si levava col lume e rifaceva i suoi studii. Si dié ad imparare l’italiano e le lingue moderne, la storia d’Italia, la nostra letteratura e la nostra vita. Allora era molto in voga lo studio del medio evo. Era una specie di reazione a quella storia greca e romana alla quale si attribuivano quelle ubbie rivoluzionarie che avevano guasti i cervelli. E per racconciarli si raccomandava il medio evo, che rappresentava la grandezza del Papato e il diritto divino, e se n’era cavato non so qual sistema fra il mistico e il feudale, che dovea essere il catechismo della nuova generazione, il medio evo della ristorazione.

Ma non ci è sistema, né storia che possa fermare il sole, voglio dire il corso fatale delle cose. L’Italia vivea oramai in tutte le intelligenze e l’intelligenza è quella che fa la storia. D’Azeglio studiò il medio evo a modo suo e s’incontrò con altri scrittori italiani. Costoro foggiarono un medio evo della rivoluzione italiana, dove scrittori, principi e guerrieri, parlano il nostro linguaggio ed operano e vogliono secondo i nostri desiderii. Cosi lo cercò e lo scoperse Massimo d’Azeglio; cosí lo rappresentò ne’ suoi quadri e ne’ suoi romanzi.

E che cosa erano i suoi quadri? Erano una storia del medie evo ad uso degl’italiani del suo tempo. Erano la disfida di Barletta. Erano la battaglia di Legnano. Erano i brindisi del Ferruccio innanzi alla battaglia di Gavinana. Erano la battaglia di Gavinana. Piú tardi furono le piú amene fantasie dell’Ariosto, l’Ombra dell’Argalia, il Duello tra Ferraú e Orlando, Astolfo che insegue le Arpie, Sacripante ed Angelica, Bradamante. Piú tardi, la difesa di Nizza contro Barbarossa e contro i Francesi, la battaglia di Torino, la battaglia dell’Assietta. Milano accorreva ogni anno all’Esposizione di Brera, e vi trovava un nuovo quadro dell’Azeglio, e vi trovava sotto gli occhi dell’Austria un nuova frammento della grandezza nazionale, una nuova protesta contro la dominazione straniera.

Un giorno l’artista disegnava la Disfida di Barletta, e giunto al gruppo di mezzo si arrestò pensoso, come mal contento: e se io vi scrivessi su un romanzo! disse a se stesso. Questa [p. 233 modifica]dimanda era una rivelazione; l’artista si sentiva incompleto: e dietro al pittore inappagato apparve il romanziero.

Era il i833. Le speranze nella Monarchia di Luglio erano svanite: lo straniero avea soffocato nel sangue i moti di pochi generosi; ogni via pareva chiusa di migliore avvenire. Eppure non si era mai parlato tanto d’Italia, mai le speranze non erano salite sí alto. Gli è che spesso ci veniva ima buona novella, un pezzo di questo medio evo ad uso nostro. Oggi era la poesia dello Stivali, dimane le Fantasie sulla Lega Lombarda. Ora ci giungea l’Arnaldo da Brescia; ora il Coro dell’Adelchi, ora l’Assedio di Firenze. E noi ci comunicavamo furtivamente la Buona Novella, e ci susurravamo all’orecchio i colpevoli versi e divoravamo il libro vietato. Un giorno correva di mano in mano l’Ettore Fieramosca. E bevevamo a larghi tratti l’orgoglio di quello che fummo e accompagnavamo palpitando alla pugna Ettore e Fanfulla. Ricordo con quanta indegnazione seguivamo i passi di colui, che italiano combatteva contro italiani accanto allo straniero. Ricordo con quale accento dell’anima accompagnavamo le parole di Ettore, quando, gittatolo giú del cavallo, gli diceva: Sii maledetto! o nemico del tuo paese. E noi aggiungevamo: Siate maledetti, voi che pregate per la vittoria dello straniero, voi che desiderate lo straniero a casa! Ne’ nostri animi c’era il ’48, c’era giá l’Italia, e noi ne dobbiamo esser grati a quella eletta schiera di cittadini che cospiravano alla faccia del sole col pennello e colla penna.

All’Ettore Fieramosca succedette il Niccolò de’ Lapi, la tragedia dell’Italia, che moriva intorno alle mura di Firenze. Moriva, ma lasciando di sé tale memoria, che prenunziava il risorgimento: moriva, ma raccogliendo nell’ora della morte intorno a Michelangelo e Ferruccio quanto di piú eroico si possa ricordare in tutta la sua vita. Quel libro è il codice dell’eroismo italiano: lá abbondano i grandi fatti e i grandi motti. Quando Niccolò vede partire pel campo i suoi figli, dice: O Firenze! o patria! Null’altro mi rimane, fuorché coteste vite! io te le dono! Questo motto prenunzia le parole di una madre, della madre di Cairoli. Caduto Ferruccio, ogni speranza era perduta; quale [p. 234 modifica]fu la risoluzione di Firenze? Difendersi e sempre difendersi, dice D’Azeglio. Questo motto prenunzia il difendersi ad ogni costo di Venezia, martire oggi ancora. La visita di Niccolò alla tomba del Ferruccio, la sua venerazione per Savonarola, di cui serbava divotamente le ceneri, il suo processo, il suo supplizio, sono come l’accompagnamento funebre dell’epoca dello scrittore, di quell’epoca di persecuzioni e di processi, nella quale la grandezza del martirio prenunziava la grandezza delle opere.

Questo fu il medio evo creato da Massimo d’Azeglio. Raccomandato, favorito dalla ristorazione, lo studio del medio evo si volse contro di lei, e divenne uno de’ piú efficaci fattori della nostra redenzione. Noi vi cercammo non dritti storici, non pergamene, non codici, non istituzioni, non pretese di Papi e Imperatori, ma le tradizioni e la carta della nostra nazionalitá, una piú chiara coscienza di noi stessi, le testimonianze e i documenti del nostro valore e della nostra grandezza. E i nostri scrittori ne fecero un Olimpo della rivoluzione italiana, i cui Dei maggiori si chiamavano Dante e Machiavelli, e in questo olimpo incontriamo i vestigi che vi ha lasciati il pennello e la penna di Massimo d’Azeglio. Italiani, non dimenticate che è l’ingegno che ha creata l’Italia, che le ha dato una coscienza ed una fede, che l’ha tratta dal sepolcro, e le ha detto: Sorgi e cammina! Il giorno che voi potreste essere ingrati verso l’ingegno, voi perdereste il dritto di avere una patria, e l’Italia sarebbe oscurata nel vostro cuore.

Nel i844 fini la vita artistica e letteraria di Massimo d’Azeglio, e, in quel torno, di tutti gli scrittori italiani. Ciò che era maturo negli animi, dovea prorompere nei fatti. Quegli scrittori diventano cospiratori, tribuni, oratori, soldati, comincia la Anta politica. D’Azeglio abbandona Milano, e prende il suo domicilio sulla strada maestra, com’egli dice, dappertutto dov’era a prender concerti, a preparare, ad ordire, a fare.

C’era confusione nelle menti. Si tentavano moti cosí a caso, dove ira o impazienza tirava; si volea troppo e perciò non si volea nulla. I popoli forti non vogliono se non quello che possono. Quelli che vogliono assai piú che non possono, hanno [p. 235 modifica]velleitá, non hanno volontá, e rassomigliano quei fanciulli, che conquistano in immaginazione regni ed imperi.

D’Azeglio con parecchi altri ebbe questo concetto, che a riuscire la rivoluzione dovea limitare sé stessa, voler una cosa alla volta, voler quello solo, ivi appuntare le forze. Negli animi c’era libertá, indipendenza, unitá. Separiamo, disse D’Azeglio, quello che negli animi è uno. L’indipendenza è la condizione di tutto il resto. Siamo indipendenti, cacciamo via lo straniero; appresso avremo libertá e unitá. E D’Azeglio pensava che a voler questo solo avremmo avuto compagni Papa e Principi; a’ quali dovea pesare non meno che a noi l’essere essi divenuti Prefetti dell’Austria. D’Azeglio dovè ricordare le parole del cardinale Bernetti, a lui ancor giovinetto in Roma: l’Austria ci obbliga, il Duca di Modena ci fa delle note, che fare! sono piú forti di noi! Riunire dunque principi e popoli nella guerra d’indipendenza era il concetto di D’Azeglio, fu il concetto che iniziò il ’48.

Il concetto fu buono a dare facile inizio al moto; non fu buono a regolarlo, né a compierlo. Non si può impunemente separare quello che nell’animo è uno. Invano si gridava: Viva l’Indipendenza! Nelle paure de’ principi e nelle speranze de’ popoli si affacciava un’altra idea: libertá e unitá. Il concetto ruppe a due scogli: alle paure de’ principi ed alle audacie de’ popoli. E il ’48 fini con una catastrofe.

Uno degli atti che piú conferí ad accelerare il moto italiano, fu uno scritto che comparve nel ’45, col titolo: Gli ultimi casi di Romagna. Sotto a quello scritto si leggeva il nome di Massimo d’Azeglio. È un atto d’accusa indirizzato all’Europa civile contro un governo debole, e nella sua debolezza feroce, che sotto nome di repressione avea preso vendetta de’ tumulti di Rimini. C’è li dentro un’aria di moderazione che cresce peso e credito all’accusa; un buon senso che guadagna gli animi non prevenuti; una cotal bonomia e schiettezza che ti dice che lo scrittore è un galantuomo e non ti può ingannare.

Questo libro fu il primo delitto di Massimo d’Azeglio. Cacciato da Roma, sbandito da Firenze, riparato in Genova, [p. 236 modifica]stimola con le lodi Pio IX, e, decretata l’amnistia, va a Roma. Voi sapete il resto. Dall’amnistia si andò alle riforme, dalle riforme alle franchigie, dalle franchigie allo statuto, dallo statuto alla guerra d’indipendenza; i fatti si succedevano com’erano giá scritti nella coscienza, come le parti fatali di un ragionamento. D’Azeglio gridava: una cosa alla volta; ma di cosa usciva cosa, e si andava col vapore. D’Azeglio si sentí oltrepassato. Temeva che questo rapido correre verso la libertá dovesse insospettire i principi e raffreddarli nell’impresa dell’indipendenza. Ma quando senti Ferrara occupata dagli Austriaci, e il popolo sciabolato a Milano, fu tutto lieto che l’Austria rompesse lei gl’indugi e provocasse la guerra, e colse a volo l’occasione. Scrisse il Lutto di Lombardia, pagine concitate, tutto collera, che furono il primo squillo a stormo delle cinque giornate di Milano. Si ricordò allora di essere stato ufficiale di cavalleria; l’artista si rifé soldato, e meritò l’invidiato onore di una palla austriaca a Vicenza. Sul suo letto di dolore gli giunsero le triste nuove. Il buon D’Azeglio se la prese con tutti, con le persone, co’ partiti, co’ principi, coi popoli; il suo umore s’inasprí, si fe’ giornalista e prese in mano il flagello. Spettacolo tristo che dié 1 ’ Italia di sé a quei giorni con le sue querule recriminazioni. Non seppe nella sventura serbare la dignitá di vinta, e con le discordie, quando piú importava essere uniti, giunse a Novara.

L’impresa alla quale D’Azeglio avea sacra la vita, era dunque mancata. In quell’impresa c’era i primi sogni della giovinezza, le ispirazioni dell’artista, i palpiti dello scrittore, il suo pensiero, il suo cuore, il suo sangue, ed era mancata, e bisognava cominciare da capo!

D’Azeglio non disperò e si rifece da capo. Pensò che, se la reazione fosse stata arrestata e vinta in Piemonte, se lo Statuto potea rimanere intatto sulle onde del comune naufragio, nel Piemonte sarebbe rimasta la leva dell’avvenire. Ebbe fede nel suo paese e nel suo Re, e il suo Re e il suo paese ebbe fede in lui. Ventura fu che s’incontrasse allora un Re galantuomo, ed un Ministro galantuomo. [p. 237 modifica]

I tempi volgevano al peggio. Sopravveniva il colpo di stato. La reazione infuriava in Italia. I nostri sguardi erano tesi con angoscia verso il Piemonte, parea impossibile vi potesse durar lo Statuto. D’Azeglio pensò che per vivere bisognava fare il morto. Abbassò la voce e dié sulla voce a quelli che l’alzavano troppo. Zitto, che non ci sentano, parea volesse dire. Questa politica rimessa, se è utile in qualche tempo, uccide sempre il suo autore. Non si dice impunemente a un popolo concitato: arrestati, fatti savio e modesto. D’Azeglio lo sapea, ed immolò la sua popolaritá alla salvezza pubblica. Egli perdette se stesso, ma salvò lo Statuto e la Patria.

Forse coloro che lo accusavano di politica troppo timida, e l’incalzavano con le calunnie e le contumelie, sarebbero stati piú indulgenti verso Massimo d’Azeglio, se avessero potuto spinger lo sguardo dietro le cortine e vedere quanto quel Ministro, che parea timido in pubblico, fosse coraggioso in segreto. Forse, se avessero potuto sapere con quanta tenacitá tenea fermo contro la irrompente reazione e ne guastasse i maneggi e gl’intrighi, avrebbero essi compreso, qual sublime sacrifizio di sé facea quell’uomo, che nell’interesse dello stato dovea in pubblico minacciare quella libertá che difendeva in segreto. E forse allora avrebbero sentito quanta grandezza è nel suo ultimo motto, quando presso a cadere e interpellato vivamente in Senato, cosa egli avea fatto, si contentò di rispondere: Ho vissuto.

E perché il Piemonte seppe vivere, potè poi operare. In quel riposo potè rifarsi d’animo e di forze, e domandare qualcos’altro piú che non fosse il vivere. D’Azeglio avea detto: per vivere bisogna fare il morto. E Cavour disse: no, per vivere bisogna farsi vivo. La missione D’Azeglio era compiuta; il paese fu con Cavour.

D’Azeglio disparve dalla vita politica, in silenzio, senza recriminazioni, cònscio di aver perduto per sempre il favor popolare, conscio di averlo voluto perdere lui, e di avere ben fatto. Ministri volgari, quando scendono dal potere, vanno nelle file dell’opposizione a suscitare difficoltá a’ loro successori, e a creare partiti personali e artificiali. D’Azeglio si diede una piú nobile [p. 238 modifica]missione. Quando non potè piú essere utile in Torino, andò a Londra a propagarvi le simpatie per l’Italia e a spianare la via a Cavour. Accettò gli uffizii commessigli, non domandando se erano eguali al suo merito, ma se potea farvi alcun bene. Quando gli parve utile dare un consiglio al paese, lo fece con semplicitá pari al coraggio, senza domandarsi dove spirava il vento, dove piegava l’aura popolare. Un giorno, quando tutti gridavano Roma capitale, egli disse: Firenze! e subí in silenzio i sarcasmi di Cavour e il disfavor popolare. Un altro giorno, tra l’incessante grido: Roma e Venezia! egli fé’ sentire questa voce severa al paese: Consolidiamo lo acquistato; a Roma e a Venezia si penserá poi. In questi tempi di mezzi caratteri e di mezze passioni, quando l’uomo politico pone la sua abilitá a rimanere in una luce equivoca, e serbarsi per molti programmi, D’Azeglio osò dire ad alta voce quello che è nell’animo di molti, e raccogliere sul suo capo tutta l’impopolaritá di una politica che giudicava utile al suo paese.

Negli ultimi tempi lo vedevi andar per le vie di Torino, co’ segni giá visibili di uomo stanco; incurvo il capo, cascante la persona, lente e abbandonate le mosse; quell’uomo vivea giá nel suo passato, pensava alle sue Memorie. Moriva scrivendo; le ultime pagine erano consacrate all’amicizia, furono un affettuoso ricordo di Tommaso Grossi. Giá si era fatto dimestico con la seconda vita, e scrisse alcune pagine sull’immortalitá dello Spirito. Presso al letto dell’infermitá stavano uomini di tutte le parti d’Italia, alle cui lacrime si mescolavano lacrime regie. Tra le ultime parole furono udite queste: non posso fare piú niente per l’Italia. Tutta la sua vita fu data all’Italia; l’Italia fu l’ultimo pensiero della sua vita.

Ed ora, addio! Massimo d’Azeglio. Comincia giá per te la seconda vita nella memoria di quell’Italia che tanto amasti. Le prime pagine le abbiamo scritte oggi: felici se potremo continuarle a Roma, quando vi fonderemo il Pantheon de’ grandi Italiani, e vi porremo la tua statua!