La scienza nuova seconda/Libro secondo/Sezione quinta/Capitolo primo

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Sezione quinta - Capitolo primo - Della politica poetica

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[CAPITOLO PRIMO]

della politica poetica, con la quale nacquero le prime
repubbliche al mondo di forma severissima aristocratica

582In cotal guisa si fondarono le famiglie di sí fatti famoli, ricevuti in fede o forza o protezione dagli eroi, che furon i primi soci del mondo, quali sopra abbiamo veduti. De’ quali le vite eran in balia de’ loro signori, e, ’n conseguenza delle vite, eran anco gli acquisti; quando essi eroi, con gl’imperi paterni ciclopici, sopra i loro propi figliuoli avevano il diritto della vita e della morte, e, ’n conseguenza di tal diritto sopra le persone, avevan anco il diritto dispotico sopra tutti i di lor acquisti. Lo che intese Aristotile ove diffiní i figliuoli di famiglia esser «animati strumenti de’ loro padri»; e la legge delle XII Tavole, fin dentro la piú prosciolta libertá popolare, serbò a’ padri di famiglia romani entrambe queste due parti monarchiche: e di potestá sopra le persone e di dominio sopra gli acquisti. E, finché vennero gl’imperadori, i figliuoli, come gli schiavi, ebbero una sola spezie di peculio, che fu il profettizio; e i padri, ne’ primi tempi, dovettero avere la potestá di vendere veramente i figliuoli fin a tre volte; che poi, invigorendo la mansuetudine de’ tempi umani, il fecero con tre vendite finte, quando volevano liberare i figliuoli dalla paterna potestá. Ma [p. 270 modifica] i Galli e i celti si conservarono un’egual potestá sopra i figliuoli e gli schiavi; e ’l costume di vendere con veritá i padri i loro figliuoli fu ritruovato nell’Indie occidentali, e nell’Europa si pratica infin a quattro volte da’ moscoviti e da’ tartari. Tanto è vero che l’altre nazioni barbare non hanno la paterna potestá «talem qualem habent cives romani»! La qual aperta falsitá esce dal comune volgar errore, con cui i dottori hanno ricevuto tal motto: ma ciò fu da’ giureconsulti detto in rapporto delle nazioni vinte dal popolo romano; alle quali, come piú a lungo appresso dimostreremo, tolto tutto il diritto civile con la ragione delle vittorie, non restarono che naturali paterne potestá e, ’n lor conseguenza, naturali vincoli di sangue, che si dicono «cognazioni», e, dall’altra parte, naturali domini, che son i bonitari, e, per tutto ciò, naturali obbligazioni, che si dicono «de iure naturali gentium», ch’Ulpiano ci specificò sopra con l’aggiunto «humanarum». Le quali ragioni tutte i popoli posti fuori dell’imperio dovettero avere civili, e appunto tali quali l’ebbero essi romani.

583Ma, ripigliando il ragionamento, con la morte de’ loro padri restando liberi i figliuoli di famiglia di tal monarchico imperio privato, anzi riassumendolo ciascun figliuolo intieramente per sé (onde ogni cittadino romano, libero dalla paterna potestá, in romana ragione egli è «padre di famiglia» appellato), e i famoli dovendo sempre vivere in tale stato servile, a capo di lunga etá naturalmente se ne dovettero attediare, per la degnitá da noi sopra posta: che «l’uomo soggetto naturalmente brama sottrarsi alla servitú». Talché costoro debbono essere stati Tantalo, che testé dicemmo plebeo, che non può addentare le poma (che devon essere le poma d’oro del frumento sopra spiegate, le quali s’alzano sulle terre de’ lor eroi), e (per ispiegarne l’ardente sete) non può prender un picciol sorso dell’acqua, che gli si appressa fin alle labbra e poi fugge; — Issione, che volta sempre la ruota; — e Sisifo, che spinge sú il sasso, che gittò Cadmo (la terra dura, che, giunta al colmo, rovescia giú, come restò a’ latini «vertere terram» per «coltivarla» e «saxum volvere» per «far con ardore lunga e aspra [p. 271 modifica] fatiga»). Per tutto ciò i famoli dovettero ammutinarsi contro essi eroi. E questa è la «necessiti», che generalmente si congetturò nelle Degnitá esser stata fatta da’ famoli ai padri eroi nello stato delle famiglie, onde nacquero le repubbliche.

584Perché quivi, al grand’uopo, dovettero per natura esser portati gli eroi ad unirsi in ordini, per resistere alle moltitudini de’ famoli sollevati, dovendo loro far capo alcun padre piú di tutti feroce e di spirito piú presente; e tali se ne dissero i «re» dal verbo «regere», ch’è propiamente «sostenere» e «dirizzare». In cotal guisa, per dirla con la frase troppo ben intesa di Pomponio giureconsulto, «rebus ipsis dictantibus, regna condita», detto convenevolmente alla dottrina della romana ragione, che stabilisce «ius naturale gentium divina providentia constitutum». Ed ecco la generazione de’ regni eroici. E, perché i padri erano sovrani re delle lor famiglie, nell’ugualitá di sí fatto stato e, per la feroce natura de’ polifemi, niuno di tutti naturalmente dovendo ceder all’altro, uscirono da se medesimi i senati regnanti, o sia di tanti re delle lor famiglie; i quali, senza umano scorgimento o consiglio, si truovaron aver uniti i loro privati interessi a ciascun loro comune, il quale si disse «patria», che, sottointesovi «res», vuol dir «interesse di padri», e i nobili se ne dissero «patricii»: onde dovettero i soli nobili esser i cittadini delle prime patrie. Cosí può esser vera la tradizione che ce n’è giunta: che ne’ primi tempi si eleggevano gli re per natura; della quale vi sono due luoghi d’oro appo Tacito, De moribus Germanorum, i quali ci danno luogo di congetturare essere stato lo stesso costume di tutti gli altri primi popoli barbari. Uno è quello: «Non casus, non fortuita conglobatio turmam aut cuneum facit, sed familiae et propinquitates». L’altro è: «Duces exemplo potius quam imperio; si prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione praesunt».

585Tali essere stati i primi re in terra ci si dimostra da ciò: che tal i poeti eroi immaginarono essere Giove in cielo re degli uomini e degli dèi, per quell’aureo luogo di Omero dove Giove si scusa con Teti ch’esso non può far nulla contro a ciò che gli dèi avevano una volta determinato nel gran consiglio [p. 272 modifica] celeste; ch’è parlare di vero re aristocratico. Dove poi gli stoici ficcarono il loro dogma di Giove soggetto al fato; ma Giove e gli altri dèi tennero consiglio d’intorno a tai cose degli uomini, e sí le determinarono con libera volontá. Il qual luogo qui riferito ne spiega due altri del medesimo Omero, ne’ quali con errore i politici fondano ch’Omero avesse inteso la monarchia. Uno è di Agamennone, che riprende la contumacia d’Achille; l’altro è di Ulisse, che i greci, ammutinati di ritornar alle loro case, persuade di continuare l’assedio incominciato di Troia: dicendo entrambi che «uno è ’l re», perché l’un e l’altro è detto in guerra, nella quale uno è ’l general capitano, per quella massima avvertita da Tacito ove dice: «eam esse imperandi conditionem, ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur». Del rimanente, lo stesso Omero in quanti luoghi de’ due poemi mentova eroi dá loro il perpetuo aggiunto di «re». Col quale si confá a maraviglia un luogo d’oro del Genesi, ove quanti Mosè narra discendenti d’Esaú tanti ne appella «re», o dir vogliamo capitani, che la Volgata legge «duces»; e gli ambasciadori di Pirro gli riferiscono d’aver veduto in Roma un senato di tanti re. Perché invero non si può affatto intendere in natura civile niuna cagione, per la qual i padri, in tal cangiamento di stati, avessero dovuto altro mutare, da quello ch’avevano avuto nello stato giá di natura, che di assoggettire le loro sovrane potestá famigliari ad essi ordini loro regnanti. Perché la natura de’ forti, come abbiamo nelle Degnitá sopra posto, è di rimettere, degli acquisti fatti con virtú, quanto meno essi possono, e tanto quanto bisogna perché loro si conservin gli acquisti; onde si legge si spesso sulla storia romana quell’eroico disdegno de’ forti, che mal soffre «virtute parta per fiagitium amittere». Nè, tra tutti i possibili umani, una volta che gli Stati civili non nacquero né da froda né da forza d’un solo (come abbiam sopra dimostro e si dimostrerá piú in appresso), come dalle potestá famigliari potè formarsi la civil potestá, e de’ domini naturali paterni (che noi sopra accennammo essere stati «ex iure optimo», in significato di «liberi d’ogni peso privato e pubblico») si [p. 273 modifica] fusse formato il dominio eminente di essi Stati civili, si può immaginare in altra guisa che questa.


586La quale, cosí meditata, ci si appruova a maraviglia con esse origini delle voci. Ché, perché sopra esso dominio ottimo ch’avevano i padri (detto da’ greci δίκαιον ἄριστον) si formarono, esse repubbliche, come altra volta si è detto sopra, da’ greci si dissero «aristocratiche», e da’ latini si chiamarono «repubbliche d’ottimati», dette da Opi, dea detta della potenza. Onde perciò forse Opi (dalla quale dev’essere stato detto «optimus», ch’è ἄριστος a’greci, e quindi «optimus» a’ latini) funne detta moglie di Giove, cioè dell’ordine regnante di quelli eroi, i quali, come sopra si è detto, s’avevano arrogato il nome di «dèi» (perché Giunone per la ragion degli auspíci era moglie di Giove, preso per lo cielo che fulmina); de’ quali dèi, come si è detto sopra, fu madre Cibele, detta «madre» ancor «de’ giganti», propiamente detti in significazione di «nobili», e la quale, come vedremo appresso nella Cosmografia poetica, fu appresa per la regina delle cittá. Da Opi adunque si dissero gli «ottimati», perché tali repubbliche sono tutte ordinate a conservare la potenza de’ nobili, e, per conservarla, ritengono per eterne propietá quelle due principali custodie, delle quali una è degli ordini e l’altra è de’ confini. E dalla custodia degli ordini venne prima la custodia de’ parentadi, per la qual i romani fin al CCCIX di Roma tennero chiusi i connubi alla plebe; dipoi, la custodia de’ maestrati, onde tanto i patrizi contrastarono alla plebe la pretenzione del consolato; appresso, la custodia de’ sacerdozi e, per questa, la custodia alfin delle leggi, che tutte le prime nazioni guardarono con aspetto di cose sagre. Onde fin alla legge delle XII Tavole i nobili governarono Roma con costumanze, come nelle Degnitá ce n’accertò Dionigi d’Alicarnasso, e fino a cento anni dopo essa legge ne tennero chiusa l’interpetrazione dentro il collegio de’ pontefici, al narrar di Pomponio giureconsulto, perché fin a quel tempo entrati v’erano i soli nobili. L’altra principal custodia ella è de’ confini; onde i romani, fin a quella che fecero di Corinto, avevan osservato una giustizia incomparabile nelle [p. 274 modifica] guerre, per non agguerrire, ed una somma clemenza nelle vittorie, per non arricchir i plebei, come sopra se ne sono proposte due degnitá.

587Tutto questo grande ed importante tratto di storia poetica è contenuto in questa favola: che Saturno si vuol divorare Giove bambino, e i sacerdoti di Cibele glielo nascondono e col romore dell’armi non gliene fanno udire i vagiti; ove Saturno dev’essere carattere de’ famoli, che da giornalieri coltivano i campi de’ padri signori e, con un’ardente brama di desiderio, vogliono da’ padri campi per sostentarvisi. E cosí questo Saturno è padre di Giove, perché da questo Saturno, come da occasione, nacque il regno civile de’ padri, che, come dianzi si è detto, si spiegò col carattere di quel Giove del quale fu moglie Opi. Perché Giove, preso per lo dio degli auspíci, de’ quali gli piú solenni erano il fulmine e l’aquila (del qual Giove era moglie Giunone), egli è «padre degli dèi», cioè degli eroi, che si credevano figliuoli di Giove, siccome quelli ch’erano generati con gli auspíci di Giove da nozze solenni (delle quali è nume Giunone), e si presero il nome di «dèi», de’ quali è madre la Terra, ovvero Opi moglie di questo Giove, come tutto si è detto sopra. E ’l medesimo fu detto «re degli uomini», cioè de’ famoli nello stato delle famiglie e de’ plebei in quello dell’eroiche cittá. I quali due divini titoli, per ignorazione di quest’istoria poetica, si sono tra lor confusi, quasi Giove fusse anco padre degli uomini. I quali fin dentro a’ tempi della repubblica romana antica «non poterant nomine ciere patrem», come narra Livio, perché nascevano da’ matrimoni naturali, non da nozze solenni; onde restò in giurisprudenza quella regola: «Nuptiae demonstrant patrem».

588Siegue la favola ch’i sacerdoti di Cibele, o sieno d’Opi (perché i primi regni furono dappertutto di sacerdoti, come alquanto se n’è detto sopra e pienamente appresso si mostrerá) nascondono Giove (dal qual nascondimento i filologi latini, indovinando, dissero essere stato appellato «Latium», e la lingua latina ne conservò la storia in questa sua frase: «condere regna» — lo che altra volta si è detto, — perché i padri [p. 275 modifica] si chiusero in ordine contro i famoli ammutinati, dal qual segreto incominciarono a venir quelli ch’i politici dicono «arcana imperii»), e, col romore dell’armi non faccendo a Saturno udire i vagiti di Giove (testé nato all’union di quell’ordine), in cotal guisa il salvarono. Con la qual guisa si narra distintamente ciò che ’n confuso Platone disse: «le repubbliche esser nate sulla pianta dell’armi»; a cui dev’unirsi ciò ch’Aristotile ci disse sopra nelle Degnitá: che nelle repubbliche eroiche i nobili giuravano d’esser eterni nimici alla plebe; e ne restò propietá eterna, per la quale ora diciamo i servidori esser nimici pagati de’ lor padroni. La qual istoria i greci ci conservarono in questa etimologia, per la quale, appo essi, da πόλις, «cittá», πόλεμος è appellata la «guerra».

589Quivi le nazioni greche immaginarono la decima divinitá delle genti dette maggiori, che fu Minerva. E la si finsero nascere con questa fantasia, fiera ugualmente e goffa: che Vulcano con una scure fendette il capo di Giove, onde nacque Minerva; volendo essi dire che la moltitudine de’ famoli ch’esercitavan arti servili, che, come si è detto, venivano sotto il genere poetico di Vulcano plebeo, essi ruppero (in sentimento d’«infievolirono» o «scemarono») il regno di Giove (come restò a’ latini «minuere caput» per «fiaccare la testa», perché, non sappiendo dir in astratto «regno», in concreto dissero «capo»), che stato era, nello stato delle famiglie, monarchico, e cangiarono in aristocratico, in quello delle cittá. Talché non è vana la congettura che da tal «minuere» fusse stata da’ latini detta Minerva; e da questa lontanissima poetica antichitá restasse a’ medesimi, in romana ragione, «capitis deminutio» per significare «mutazione di stato», come Minerva mutò lo stato delle famiglie in quello delle cittá.

590In cotal favola i filosofi poi ficcarono il piú sublime delle loro meditazioni metafisiche: che l’idea eterna in Dio è generata da esso Dio, ove l’idee criate sono in noi produtte da Dio. Ma i poeti teologi contemplarono Minerva con l’idea di ordine civile, come restò per eccellenza a’ latini «ordo» per lo «senato» (lo che forse diede motivo a’ filosofi di crederla [p. 276 modifica] idea eterna di Dio, ch’altro non è che ordine eterno); e ne restò propietá eterna: che l’ordine de’ migliori è la sapienza delle cittá. Ma Minerva appo Omero è sempre distinta con gli aggiunti perpetui di «guerriera» e di «predatrice», e due volte sole ci ricordiamo di averlavi letto con quello di «consigliera»: e la civetta e l’oliva le furono consagrate, non giá perch’ella mediti la notte e legga e scriva al lume della lucerna, ma per significare la notte de’ nascondigli, co’ quali si fondò, com’abbiamo sopra detto, l’umanitá, e forse per piú propiamente significare che i senati eroici, che componevano le cittá, concepivano in segreto le leggi, e ne restò certamente agli areopagiti di dir i voti al buio nel senato d’Atene, che fu la cittá di Minerva, la qual fu detta Ἁθηνᾱ. Dal qual eroico costume appo i latini fu detto «condere leges», talché «legum conditores» furono propiamente i senati che comandavan le leggi, siccome «legum latores» coloro che da’senati portavano le leggi alle plebi de’ popoli, come sopra, nell’accusa d’Orazio, si è detto. E tanto da’ poeti teologi fu considerata Minerva esser dea della sapienza, che nelle statue e nelle medaglie si osserva armata; e la stessa fu «Minerva» nella curia, «Pallade» nell’adunanze plebee (come, appo Omero, Pallade mena Telemaco nell’adunanza della plebe, ch’egli chiama «altro popolo», ove vuol partire per andar truovando Ulisse, suo padre), ed è «Bellona», per ultimo, nelle guerre.

591Talché è da dirsi che, con l’errore che Minerva fusse stata intesa da’ poeti teologi per la sapienza, vada di concerto quell’altro che «curia» fusse stata detta a «curanda republica», in que’ tempi che le nazioni erano stordite e stupide. La qual dovette a’ greci antichissimi venir detta κυρία da χέιρ, la «mano», e indi «curia» similmente a’ latini, per uno di questi due grandi rottami d’antichitá, che (come si è detto nella Tavola cronologica e nelle ivi scritte Annotazioni ) per buona nostra ventura Dionigi Petavio truova gittati dentro la storia greca innanzi l’etá degli eroi di Grecia, e ’n conseguenza in questa, da noi qui seguita, etá degli dèi degli egizi.

592Uno è che gli Eraclidi, ovvero discendenti d’Ercole, erano [p. 277 modifica] stati sparsi per tutta Grecia, anco nell’Attica, ove fu Atene, e che poi si ritirarono nel Peloponneso, ove fu Sparta, repubblica o regno aristocratico di due re della razza d’Ercole, detti Eraclidi, ovvero nobili, che amministravano le leggi e le guerre sotto la custodia degli efori. I quali erano custodi della libertá non giá popolare ma signorile, che fecero strozzare il re Agide, perché aveva attentato di portar al popolo una legge di conto nuovo, la quale Livio diffinisce «facem ad accendendum adversus optimates plebem», ed un’altra testamentaria, la quale divolgava i retaggi fuori dell’ordine de’ nobili, tra’ quali soli innanzi si erano conservati con le successioni legittime, perchè essi soli avevano dovuto avere suitá, agnazioni, gentilitá; della qual fatta erano state in Roma innanzi della legge delle XII Tavole, come appresso sará dimostro. Onde, come i Cassi, i Capitolini, i Gracchi ed altri principali cittadini, per volere, con qualche legge si fatta, d’un poco sollevare la povera oppressa plebe romana, furono dal senato dichiarati ed uccisi come rubelli; cosí Agide fu fatto strozzare dagli efori. Tanto gli efori di Sparta, per Polibio, furono custodi della libertá popolare di Lacedemone! Laonde Atene, cosí appellata da Minerva, la qual si disse Ἁθηνα, dovette essere, ne’ primi suoi tempi, di stato aristocratica; e la storia greca l’hacci narrato fedelmente piú sopra, ove ci disse che Dragone regnò in Atene nel tempo ch’era occupata dagli ottimati, e cel conferma Tucidide, narrando che, finch’ella fu governata da’ severissimi areopagiti, che Giovenale traduce «giudici di Marte», in senso di «giudici armati» (che, da Ἄρης, «Marte», e πηγή, ond’è «pagus» a’ latini, meglio arebbe trasportato «popolo di Marte», come fu detto il romano; perché, nel loro nascimento, i popoli si composero di soli nobili, che soli avevano il diritto dell’armi), ella sfolgorò delle piú belle eroiche virtú e fece dell’eccellentissime imprese (appunto come Roma, nel tempo nel quale, come appresso vedremo, ella fu repubblica aristocratica); dal quale stato Pericle ed Aristide (appunto come Sestio e Canuleo, tribuni della plebe, incominciarono a fare di Roma) la rovesciarono nella libertá popolare. [p. 278 modifica]

593L’altro gran rottame egli è ch’i greci, usciti di Grecia, osservaron i cureti, ovvero sacerdoti di Cibele, sparsi in Saturnia (o sia l’antica Italia), in Creta ed in Asia; talché dovettero dappertutto nelle prime nazioni barbare celebrarsi regni di cureti, corrispondenti a’ regni degli Eraclidi, sparsi per l’antichissima Grecia. I quali cureti furon que’ sacerdoti armati, che col battere dell’armi attutarono i vagiti di Giove bambino, che Saturno volevasi divorare; la qual favola è stata testé spiegata.

594Per tutto lo che ragionato, da questo antichissimo punto di tempo e con questa guisa nacquero i primi comizi curiati, che sono gli piú antichi che si leggono sulla storia romana; i quali si dovettero tener sotto l’armi, e restarono poi per trattare le cose sagre, perché con tal aspetto ne’ primi tempi si guardarono tutte le cose profane. Delle quali adunanze si maraviglia Livio ch’a’ tempi d’Annibale, che vi passa per mezzo, si tenevano nelle Gallie. Ma Tacito ne’ Costumi de’ Germani ci narra quello: che si tenevano anco da’ sacerdoti, ove comandavano le pene in mezzo dell’armi, come se ivi fussero presenti i lor dèi (e con giusto senso: si armavano le adunanze eroiche per comandare le pene, perché il sommo imperio delle leggi va di séguito al sommo imperio dell’armi); e generalmente narra che armati trattavano tutti i loro pubblici affari e presiedendovi i sacerdoti, com’or si è detto. Laonde tra gli antichi Germani, i quali ci danno luogo d’intendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari, si rincontra il regno de’ sacerdoti egizi; si rincontrano i regni de’ cureti ovvero de’ sacerdoti armati, che, come abbiam veduto, i greci osservarono in Saturnia (o sia l’antica Italia), in Creta ed in Asia; si rincontrano i quiriti dell’antichissimo Lazio.

595Per le quali cose ragionate, il «diritto de’ quiriti» dee essere stato il diritto naturale delle genti eroiche d’Italia, che, per distinguersi da quello degli altri popoli, si disse «ius quiritium romanorum»; non giá per patto convenuto tra’ sabini e romani, che si fussero detti «quiriti» da Cure, capital cittá de’ sabini, perché, cosí, dovrebbon essere stati detti «cureti», [p. 279 modifica] che osservarono i greci in Saturnia. Ma, se tal cittá de’ sabini si disse Cere (lo che vogliono i latini gramatici), deono (qui vedasi che contorcimento d’idee!) piú tosto esser i «ceriti», ch’erano cittadini romani condennati da’ censori a portar i pesi senza aver alcuna parte degli onori civili; appunto come furono le plebi, che poi si composero de’ famoli nel nascere, come or or vedremo, dell’eroiche cittá. Nel corpo delle quali dovettero venir i sabini, in que’ tempi barbari che le cittá vinte si smantellavano (lo che i romani non risparmiarono ad essa Alba, lor madre), e gli arresi si disperdevano per le pianure, obbligati a coltivar i campi per gli popoli vincitori: che furono le prime provincie, cosí dette quasi «prope victae» (onde Marcio, da Corioli ch’aveva vinto, fu detto Coriolano); per l’opposto onde furon dette le «provincie ultime», perché fussero «procul victae». Ed in tali campagne si menarono le prime colonie mediterranee, che con tutta propietá si dissero «coloniae deductae», cioè drappelli di contadini giornalieri menati, da su, giú; che poi nelle colonie ultime significarono tutto il contrario, ché, da’ luoghi bassi e gravi di Roma, ove dovevan abitar i plebei poveri, erano questi menati in luoghi alti e forti delle provincie, per tenerle in dovere, a far essi i signori e cangiarvi i signori de’campi in poveri giornalieri. In cotal guisa, al riferire di Livio, che ne vide solamente gli effetti, cresce Roma con le rovine di Alba, e i sabini portano in Roma a’ generi, in dote delle loro rapite figliuole, le ricchezze di Cere, come sopra ciò vanamente riflette Floro. E queste sono le colonie innanzi a quelle che vennero dopo l’agrarie de’ Gracchi, le quali lo stesso Livio riferisce che la plebe romana, nelle contese eroiche che esercita con la nobiltá, o sdegna o piú con esse si aizza, perché non erano della fatta dell’ultime; e perché di nulla sollevavano la plebe romana, e Livio truova pure con quelle seguir le contese, vi fa tali sue vane riflessioni.

596Finalmente che Minerva significato avesse ordini aristocratici armati, ci si appruova da Omero ove, nella contesa, narra che Minerva con un colpo di sasso ferisce Marte, che noi sopra [p. 280 modifica] vedemmo carattere de’ plebei che servivano agli eroi nelle guerre; e ove riferisce che Minerva vuol congiurare contro Giove: che può convenir all’aristocrazie, ove i signori con occulti consigli opprimono i loro principi, ove n’affettano la tirannide. Del qual tempo e non d’altro si legge agli uccisori de’ tiranni essersi alzate le statue; ché, se gli supponiamo re monarchi, essi sarebbono stati rubelli.

597Cosí si composero le prime cittá di soli nobili, che vi comandavano. Ma però, bisognandovi che vi fussero anche color che servissero, gli eroi furono da un senso comune d’utilitá costretti di far contenta la moltitudine de’ sollevati clienti, e mandarono loro le prime ambasciarie, che per diritto delle genti si mandano da’ sovrani. E le mandarono con la prima legge agraria che nacque al mondo, con la quale, da forti, rillasciarono a’ clienti il men che potevano, che fu il dominio bonitario de’ campi ch’arebbon assegnato loro gli eroi; e cosí può esser vero che Cerere ritruovò e le biade e le leggi. Cotal legge fu dettata da questo diritto natural delle genti: ch’andando il dominio di séguito alla potestá, ed avendo i famoli la vita precaria da essi eroi, i quali l’avevano loro salvata ne’ lor asili, diritto era e ragione ch’avessero un dominio similmente precario, il qual essi godessero fintanto ch’agli eroi fusse piaciuto di mantenergli nel possesso de’ campi ch’avevano lor assegnati. Cosí convennero i famoli a comporre le prime plebi dell’eroiche cittá, senza avervi niuno privilegio di cittadini; appunto come un de’ quali dice Achille essere stato trattato da Agamennone, il quale gli aveva tolto a torto la sua Briseide, ove dice avergli fatto un oltraggio che non si sarebbe fatto ad un giornaliere che non ha niuno diritto di cittadino.

598Tali furon i plebei romani fin alla contesa de’ connubi. Imperciocché essi — per la seconda agraria, accordata loro da’ nobili con la legge delle XII Tavole, avendo riportato il dominio quiritario de’ campi, come si è dimostrato da molti anni fa ne’ Principi del Diritto universale (il qual è uno de’ due luoghi per gli quali non c’incresce d’esser uscita alla luce quell’opera), e per diritto delle genti [non] essendo gli stranieri capaci [p. 281 modifica] di dominio civile, e cosí i plebei non essendo ancor cittadini, — come ivan morendo, non potevano lasciare i campi ab intestato a’ congionti, perché non avevano suitá, agnazioni, gentilitá, ch’erano dipendenze tutte delle nozze solenni; nemmeno disponerne in testamento, perché non erano cittadini: talché i campi lor assegnati ne ritornavano ai nobili, da’ quali avevan essi la cagion del dominio. Avvertiti di ciò, subito fra tre anni fecero la pretension de’ connubi, nella quale non pretesero, in quello stato di miseri schiavi quale la storia romana apertamente ci narra, d’imparentare co’ nobili, ch’in latino arebbe dovuto dirsi «pretendere connubio cum patribus»; ma domandarono di contrarre nozze solenni, quali contraevano i padri, e si pretesero «connubia patrum», la solennitá maggior delle quali erano gli auspíci pubblici, che Varrone e Messala dissero «auspíci maggiori», quali i padri dicevano «auspicia esse sua». Talché i plebei con tal pretensione domandarono la cittadinanza romana, di cui erano natural principio le nozze, le quali perciò da Modestino giureconsulto son diffinite «omnis divini et humani iuris communicatio», che definizione piú propia non può assegnarsi di essa cittadinanza.