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L'eredità - 21. Libertà del codice, della scienza e della cultura

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L'eredità - 21. Libertà del codice, della scienza e della cultura
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21. Libertà del codice, dela scienza e della cultura


In un momento importante della sua vita – più o meno a partire dai 14 anni – Aaron iniziò a interessarsi di libertà, sotto vari aspetti e accezioni.

Vi fu, innanzitutto, l’innegabile influenza, molto importante, di Richard Stallman e del movimento del software libero, con riferimento alla libertà del codice informatico; a ciò, si aggiunse la frequentazione di Tim Berners-Lee e il lavoro, pubblico e gratuito, effettuato dagli scienziati del consorzio per il web sugli standard che stavano elaborando. Lo affascinarono, poi, i nuovi limiti di libertà che cercava di stabilire Lawrence Lessig con il progetto Creative Commons, per liberare il più possibile le opere amatoriali dell’ingegno prodotte e scambiate in rete. Il passo successivo fu un vivo interesse per il mondo dell’open access e della diffusione libera degli articoli scientifici per, poi, approdare quasi naturalmente a una forte volontà di "liberazione" di tutto ciò di documentale che fosse prodotto dal comparto pubblico e finanziato con i soldi dei cittadini.

Al contempo, sin da ragazzino, nei suoi primi post sui blog, descriveva senza particolari problemi il suo costante uso di sistemi di file sharing e di peer-to-peer per scaricare musica e film e la sua opposizione al concetto di “pirateria” così come veicolato, in un’ottica negativa, dal governo e dal legislatore.

Infine, ci fu un momento di forte innamoramento per Wikipedia e per ciò che rappresentava, dal punto di vista della libertà e della condivisione, questa invenzione geniale che era apparsa nel mondo della nuova cultura digitale.

L’idea di libertà di Aaron era pienamente inserita nella tradizione nordamericana. Si legga, ad esempio, questo post nel suo blog, datato 12 gennaio 2004 e intitolato, significativamente, “Jefferson: Nature Wants Information to Be Free”. Il riferimento diretto a Thomas Jefferson è utilizzato per estendere le sue idee libertarie al mondo, a lui caro, della condivisione della conoscenza e dei contenuti.

Dal momento che in molti hanno affermato che la mia visione del diritto d’autore e dei brevetti è infantile, e che è dovuta solo al fatto che sono cresciuto con Napster e non scrivo per professione, ho pensato di indagare su alcuni punti di vista più rispettabili sull’argomento. E chi meglio di Thomas Jefferson, il nostro terzo presidente più riflessivo? A giudicare dalla sua lettera a Isaac McPherson, il pensiero di Jefferson è il seguente:
Nessuno mette seriamente in dubbio che la proprietà sia una buona idea, ma è bizzarro suggerire che le idee debbano essere proprietà. La natura vuole chiaramente che le idee siano libere! Sebbene si possa tenere un’idea per sé, non appena la si condivide, chiunque può averla. E una volta che l’ha avuta, è difficile che se ne liberi, anche se lo volesse. Come l’aria, le idee sono incapaci di essere rinchiuse e [p. 206 modifica] accumulate. E non importa quante persone la condividano, l’idea non diminuisce. Quando ascolto la tua idea, acquisisco conoscenza senza sminuire nulla della tua. Allo stesso modo, se usi la tua candela per accendere la mia, ottengo luce senza oscurare te. Come il fuoco, le idee possono abbracciare il mondo senza diminuire la loro densità. Pertanto, le invenzioni non possono essere proprietà. Certo, possiamo concedere agli inventori un diritto esclusivo al profitto, magari per incoraggiarli a inventare nuove cose utili, ma questa è una nostra scelta. Se decidiamo di non farlo, nessuno può opporsi. Di conseguenza, l’Inghilterra era l’unico Paese ad avere una legge del genere, finché gli Stati Uniti non l’hanno imitata. In altri Paesi, i monopoli possono essere concessi, occasionalmente, con un atto speciale, ma non esiste un sistema generale. E non sembra che questo li abbia danneggiati: quei Paesi sembrano essere altrettanto innovativi dei nostri.
(Non sto citando direttamente Jefferson, sto traducendo ciò che ha detto in inglese moderno e omettendo qualcosa, ma non gli ho messo in bocca parole non sue - Jefferson ha detto tutte queste cose).
La prima cosa da notare è che Jefferson potrebbe essere stato il primo a dire, in sostanza, «l’informazione vuole essere libera!». (Jefferson attribuì questa volontà alla natura, non all’informazione, ma il senso era lo stesso). Pertanto, tutte le persone che liquidano questa affermazione come assurda dovrebbero dare qualche spiegazione.
La seconda è che, sebbene Jefferson parli ripetutamente di “idea”, la sua logica si applica ugualmente, ad esempio, a una melodia o a un qualcosa di orecchiabile e quindi a quasi tutto ciò che comunemente chiamiamo “legge sulla proprietà intellettuale” (soprattutto copyright, marchi e brevetti).
La terza è che, sorprendentemente (soprattutto per me!), Jefferson è pazzo quanto me:

Per loro stessa natura, le idee non possono essere proprietà.
Il governo non ha il dovere di fare leggi su di esse.
Le leggi che facciamo non hanno molto successo.

Se Jefferson non era soddisfatto delle leggi relativamente modeste del 1813, qualcuno può seriamente suggerire che non sarebbe furioso con le leggi espansionistiche di oggi? Dimenticate la Free Software Foundation e le licenze Creative Commons, Jefferson sarebbe là fuori a sostenere la resistenza armata e l’impeachment dei giudici che hanno votato contro Eldred! (OK, forse no, ma di certo farebbe di più che scrivere licenze di copyright).
È vero che all’epoca di Jefferson non c’erano né film né reti televisive, ma c’erano sicuramente libri e invenzioni. Le persone si guadagnavano da vivere come scrittori o inventori. È difficile sostenere che Jefferson cambierebbe idea oggi per motivi economici - semmai sospetto che, vedendo la facilità di condivisione delle idee su Internet, sosterrebbe la necessità di leggi meno restrittive.
Jefferson pensava che queste leggi fossero contrarie alla natura umana quando riguardavano solo le persone con grandi officine o con macchine per la stampa - immaginate quanto si sarebbe arrabbiato vedendo che queste leggi limitano praticamente tutti, anche chi fa cose perfettamente inoppugnabili (come insegnare al proprio cane-robot AIBO a ballare o girare un documentario).
Ora forse la gente troverà Jefferson un facile argomento per un attacco ad [p. 207 modifica] hominem come lo ha trovato per me. E il fatto che Jefferson l’abbia detto non lo rende vero - ovviamente le sue opinioni erano anche oggetto di discussione all’epoca. Ma quando i suggerimenti del nostro terzo presidente vengono definiti “autogiustificazione”, “egoismo”, “superficiali”, o quelli di un “idiota”, “disgustosi”, un “fraintendimento” della legge(!), e “immorali”, allora ci si deve fermare e chiedersi: che cosa sta succedendo?

Il movimento alla base dell’idea di open access è uno di quelli che ha rivestito un ruolo tra più importanti nella storia, e nelle motivazioni, di Aaron. Alcuni commentatori, dopo la sua morte, arrivarono persino a definirlo come un attivista che per l’open access aveva dato letteralmente la vita.

Il giovane credeva tantissimo in molti dei principi sostenuti dai teorici di questo movimento, tanto da rischiare più volte sanzioni, in prima persona, superando i confini dei termini di servizio delle grandi banche dati – con conseguenti, inevitabili guai giudiziari – per metterli in pratica.

Ancora oggi, a dieci anni di distanza, le idee alla base dell’open access sono estremamente affascinanti, e centrali, per il mondo della ricerca.

All’origine delle idee che Aaron aveva assorbito vi erano, probabilmente, i contenuti di alcune dichiarazioni formali che risalivano ai primi anni Duemila.

Ci riferiamo, in particolare, alla Dichiarazione di Budapest, alla Dichiarazione di Bethesda sull’Open Access in editoria e alla Dichiarazione di Berlino. Erano tutti testi che cercavano di veicolare, in estrema sintesi, l’idea, e l’esigenza, che i risultati di una ricerca scientifica finanziata con denaro pubblico dovessero essere aperti, pubblici e fruibili da chiunque senza alcuna limitazione.

Un approccio simile sarebbe stato immediatamente benefico per la società tutta. I lavori scientifici sarebbero stati, in particolare, più visibili e non confinati in oscuri centri di ricerca e sperdute biblioteche periferiche o, se messi in rete, accessibili solo a individui e istituzioni in grado di pagare. Si sarebbe alimentato un dibattito sui lavori, più visibili e, quindi, conoscibili (qui entrava in gioco, anche, il metodo scientifico della contestabilità, tanto amato da Aaron). Il web avrebbe, poi, facilitato incredibilmente accesso e ricerca di quei prodotti, amplificandone l’influenza e permettendo, allo stesso tempo, una maggior citazione di quei contributi.


Aaron amava notoriamente i luoghi pubblici che racchiudevano scienza e cultura. Quando si presentò davanti alla Corte Suprema, invitato da Lessig, si ritagliò mezza giornata di tempo per andare a visitare la Libreria del Congresso.

Per Aaron, l’idea di open access, unita all’idea di istituzione o ente pubblico, era la formula ideale per consentire non solo di valutare efficienza, merito ed eccellenza dell’istituzione per quanto riguardava la produzione scientifica ma, anche, per ripensare completamente gli accordi contrattuali con tutti gli editori che, a suo avviso, “cannibalizzavano” il settore pubblico proprio per ottenere [p. 208 modifica] profitto da opere che, in realtà, già erano state in qualche modo finanziate dai cittadini e dalle loro tasse.

Il punto, nodale, dei rapporti con gli editori interessati a questi prodotti della scienza è stato il campo di battaglia di Aaron per gran parte della sua vita.

In realtà, il copyright non era, per lui, materiale di specifico studio e interesse, ma gli interessava, per così dire, indirettamente: Lessig era riuscito a fargli comprendere come la battaglia attorno al copyright fosse, in realtà, una battaglia legata alla civiltà stessa di una società e ai diritti costituzionali dei cittadini.

Per Aaron, impegnato in battaglie per cambiare il mondo, il tema del copyright in sé era una “piccola cosa”, molto specifica e per tecnici. Ma era diventata enorme, e meritava tutti i suoi sforzi, quando aveva intravisto i suoi legami con la libertà (a rischio) della rete.

Occupandosi di open access, Aaron iniziò quindi a interessarsi del rapporto che si genera tra istituzioni (ad esempio: un’università), autori ed editori, con riferimento alla cessione dei diritti agli editori stessi e alle possibilità, sempre molto limitate, di riutilizzo della ricerca o di ri-pubblicazione della stessa in altri ambiti più aperti.

Contemporaneamente, avviò dei progetti per cercare di scoprire, nelle note degli articoli, dei collegamenti a finanziamenti specifici da parte di sponsor, che avrebbero potuto condizionare, orientare o, addirittura, falsare gli esiti di una ricerca.

Nel frattempo, il movimento open access si diffondeva sempre di più e prendeva anche forme ibride, sempre votate alla libertà dei contenuti, ma non conformi, letteralmente, ai canoni e ai principi dell’open access, come teorizzati nelle carte che sono state citate; le università, allo stesso tempo, iniziavano a pensare a repository istituzionali per cercare di raccogliere il più possibile, e “liberare”, versioni precedenti dello scritto pubblicato (ad esempio: bozze, pre-print o versione originale dell’autore).

Il movimento open access riuniva, in sé, tutto ciò che avrebbe motivato le azioni di Aaron: l’idea che i lavori in open access fossero facilmente reperibili sul web, che vi fosse, per tutta l’umanità, un accesso libero al sapere scientifico, che il lavoro si potesse riutilizzare per costruire nuova cultura ma, sempre, citando e rispettando l’autore, che fosse connotato da gratuità e, al contempo, che garantisse la stessa qualità (ad esempio: nel processo di peer review) delle pubblicazioni scientifiche “tradizionali”.

Il successo di un simile progetto richiedeva, però, il completo ripensamento dell’intero processo produttivo, condizionato da forti interessi e, in alcuni casi, da veri e propri monopoli economici e di mercato.

Occorreva mettere al centro del sistema trasparenza e accessibilità, nonché quel dubbio che tanto appassionava Aaron e che avrebbe permesso di mettere alla prova sempre, in tempo reale e da qualsiasi computer, la scienza. [p. 209 modifica]

In questo quadro che non voleva cambiare, Aaron individuò, come primo suo nemico, il mondo dell’editoria accademica e i prodotti scientifici che uscivano dalle università con una chiara connotazione commerciale.

Non comprendeva il motivo per cui, a fronte di finanziamenti quasi esclusivamente pubblici, quel patrimonio di sapere collettivo non fosse reso libero per tutti i cittadini.

La cessione sistematica dei diritti d’autore ai grandi editori operava, diceva Aaron, una vera e propria privatizzazione della conoscenza e generava dei paywall – delle barriere di pedaggio– che avevano il solo fine di aumentare sempre di più i profitti di quelle società.

Aaron incolpava, in primis, gli accademici stessi. I professori, scriveva, sanno benissimo come questa privatizzazione di tutta l’attività di ricerca finanziata con fondi pubblici sia sbagliata in origine, ma sono, comunque, condizionati, nel loro futuro accademico, da un simile meccanismo e, soprattutto, dalla possibilità di pubblicare su riviste riconosciute come prestigiose e che sono offerte a pagamento. Per cui continuano ad alimentare questo mercato.

Questo il motivo per cui, nel suo Guerrilla Manifesto, inviterà a liberare tutta la letteratura scientifica mondiale e agirà di conseguenza almeno in due occasioni, con PACER e poi, più specificamente, con JSTOR.

Il governo, come si diceva, è intervenuto pesantemente nel caso JSTOR, anche perché era consapevole che si stava toccando un ambito commerciale particolarmente delicato: non vi era, soltanto, il timore degli hacker e delle loro azioni, ma era coinvolta, anche, la potentissima industria del copyright e degli editori commerciali, che chiedeva esplicitamente da tempo un intervento sempre più restrittivo del legislatore. La violazione dei diritti d’autore doveva, pertanto, essere considerata un crimine sempre più grave.

Ultimo, ma non ultimo, Aaron notò come in alcuni casi vi fosse un doppio pagamento: l’autore pagava per pubblicare su una rivista prestigiosa e, subito dopo, l’editore domandava all’università o al centro di ricerca di quell’autore un secondo pagamento per accedere ad altri articoli di quella rivista non open acess. Si era creato un circolo vizioso, insomma, dal quale era complicatissimo uscire.

La morte di Aaron, e la sua passione per l’open access, ispirarono altri attivisti e, in particolare, galvanizzarono il progetto alla base di un respository denominato Sci-Hub, che si prefissò di “raccogliere il testimone” e di liberare tutta la letteratura scientifica mondiale, mettendo in linea decine di milioni di articoli di riviste e utilizzando, anche, sistemi di archiviazione decentralizzata a causa delle pressioni legali.

Alexandra Elbakyan, studentessa in Kazakistan, si rese conto, a un certo punto, come l’università che stava frequentando non potesse permettersi di pagare l’abbonamento a molte delle riviste che lei aveva necessità di consultare. Decise, allora, di scaricare sistematicamente articoli – domandando, anche, credenziali ad altri studiosi stranieri – per poi raggrupparli nel suo archivio online. [p. 210 modifica]

Ancora oggi, sul sito di Sci-Hub, sono riportati in bella vista i tre principi che animano le attività di Alexandra: “knowledge to all”, “no copyright” e “open access”.

Con riferimento al primo aspetto, “conoscenza per tutti”, il pensiero della fondatrice è ben chiaro:

Combattiamo le disuguaglianze nell’accesso alla conoscenza in tutto il mondo. La conoscenza scientifica dovrebbe essere disponibile per ogni persona, indipendentemente dal reddito, dallo status sociale, dalla posizione geografica, e così via. La nostra missione è rimuovere ogni barriera che impedisca la più ampia distribuzione possibile della conoscenza nella società umana!

Vi è, poi, il punto della protezione dei contenuti in base alla normativa sul copyright e, anche in questo caso, il movimento alla base di Sci-Hub riprende la tipica ostilità verso il sistema di protezione del diritto d’autore, che già aveva caratterizzato le azioni di Aaron:

Sosteniamo la cancellazione della proprietà intellettuale, o delle leggi sul copyright, per le risorse scientifiche ed educative. Le leggi sul copyright rendono illegale il funzionamento della maggior parte delle biblioteche online. Di conseguenza, molte persone sono private della conoscenza, mentre allo stesso tempo permettono ai detentori dei diritti di trarne enormi benefici. Il diritto d’autore favorisce l’aumento delle disuguaglianze informative ed economiche.

Infine, vi è l’adesione esplicita ai principi di base dell’open access, soprattutto con riferimento ai contenuti scientifici e ai prodotti accademici:

Il progetto Sci-Hub sostiene il movimento Open Access nella scienza. La ricerca dovrebbe essere pubblicata ad accesso aperto, cioè essere di libera lettura. L’accesso aperto è una forma nuova e avanzata di comunicazione scientifica, che sostituirà i modelli di abbonamento ormai obsoleti. Ci opponiamo al guadagno ingiusto che gli editori ottengono creando limiti alla distribuzione della conoscenza.

Da un punto di vista giuridico, Sci-Hub è un sito che è in palese violazione di tante regole, comprese quelle relative al copyright in tutti i Paesi coinvolti. Prosegue, però, nelle sue attività – nonostante le numerose vertenze legali che vengono minacciate e portate avanti – sfruttando le ampie maglie della normativa locale e spostando, spesso, il sito tra vari portali e servizi.


Aaron, in questa sua strada verso la liberazione dei contenuti, si appassionò anche al mondo che ruotava attorno a Wikipedia, cui dedicò numerosi post – e riflessioni – sul suo blog.

Il suo rapporto fu, in realtà, un po’ tormentato. Diremmo, quasi, di amore-odio. Lui amava l’idea di enciclopedia aperta e collaborativa online e contribuì agli [p. 211 modifica] aggiornamenti delle pagine di Wikipedia. Si candidò, anche, per una posizione di responsabilità nel comitato alla base di Wikipedia. Al contempo, tuttavia, elaborò degli studi per cercare di comprenderne il reale funzionamento e, soprattutto, il numero di soggetti effettivamente coinvolti in questo incredibile progetto.

L’idea di enciclopedia sul web era stato l’oggetto del suo primo progetto in assoluto, da bambino. Era quindi inevitabile che la sua vita si incrociasse con il progetto di Jimmy Wales.

Aaron era convinto, in particolare, che Wikipedia, in quegli anni, fosse diventata troppo grande per essere gestita da poche persone e, in un modo in un altro, si sarebbe dovuta presto trasformare in un’organizzazione, ma non ne aveva chiaro il tipo.

Il suo timore era che una struttura organizzativa più evoluta non fosse più neutra, e che una visione al vertice potesse decidere tutto, anche i contenuti dei contributi.

Temo che Wikipedia, così come la conosciamo – scriveva, accorato, Aaron sul suo blog – possa non durare. Che la sua esuberante democrazia possa fossilizzarsi in una burocrazia stagnante, che la sua innovazione possa ristagnare nel conservatorismo, che la sua crescita possa rallentare fino alla stasi. Se queste cose dovessero accadere, so che non potrei restare a guardare la tragedia. Wikipedia è troppo importante – sia come risorsa, sia come modello – per vederla fallire.

A un certo punto, Aaron decise di cercare di comprendere in profondità come funzionasse il sistema di aggiornamento dei contenuti.

Iniziò, allora, ad analizzare il ruolo degli “estranei”, degli “interni”, degli “utenti abituali” e di quelli “occasionali” e anche le modifiche che venivano effettuate alle voci e la loro natura, nonché l’equilibrio tra “aiuto interno” e “aiuto esterno” nella creazione e modifica dei contenuti.

Terminata la sua analisi – nella quale contestò, anche, alcuni dati che erano stati fatti circolare da Jimmy Wales, con riferimento ai contributi nelle modifiche, e mantenne, in alcuni passaggi, dei toni un po’ polemici – Aaron individuò, però, nel senso di comunità l’aspetto secondo lui più affascinante di quel progetto. Anche l’idea di creazione di comunità online, e il senso di appartenenza di più utenti a un ambiente co-creato, erano concetti che Aaron si portava dietro sin dall’infanzia.

Perché Wikipedia ha funzionato lo stesso? – ragiona, Aaron, in un post – Non perché i programmatori fossero così lungimiranti da risolvere in anticipo tutti i problemi. E non è stato perché le persone che la gestiscono abbiano messo in atto regole chiare per prevenire comportamenti scorretti. Lo sappiamo, perché quando Wikipedia è nata non aveva programmatori (usava un software wiki standard) e non aveva regole chiare (una delle prime regole principali era, infatti, «Ignora tutte le regole»). No, il motivo per cui Wikipedia funziona è la comunità, un gruppo di persone che ha interpretato il progetto come proprio e si è impegnato [p. 212 modifica] per il suo successo. Le persone cercano costantemente di vandalizzare Wikipedia, sostituendo gli articoli con testo a caso. Non funziona: le loro modifiche vengono annullate nel giro di pochi minuti o, addirittura, secondi. Ma perché? Non si tratta di magia, ma di un gruppo di persone incredibilmente impegnate, che siedono al computer per controllare ogni modifica apportata. Oggi si chiamano ‘pattuglia delle modifiche recenti’ e dispongono di un software speciale che rende facile annullare le modifiche sbagliate e bloccare gli utenti malintenzionati con un paio di click. Perché qualcuno fa una cosa del genere? Non è un lavoro particolarmente affascinante, non sono pagati per farlo e nessuno dei responsabili ha chiesto loro di offrirsi come volontari. Lo fanno, perché tengono al sito tanto da sentirsi responsabili. Si arrabbiano quando qualcuno cerca di rovinarlo.

Questa dedizione alla causa, questo amore viscerale da parte di tutti gli utenti per il sito, proprio come se fosse una “cosa loro”, intriga tantissimo Aaron. Nella sua visione, un sito web di questo tipo è come se avesse una vita indipendente dai vertici e, in fondo, da un’autorità. Fattore che lui apprezzava molto.

Tutti conoscono Wikipedia come il sito che chiunque può modificare – continua il giovane nel suo ragionamento – Ma ciò che è meno noto è che è anche il sito che chiunque può gestire. I vandali non vengono fermati perché qualcuno è incaricato di fermarli; è, semplicemente, qualcosa che la gente ha iniziato a fare. E non si tratta solo di vandalismo: un “comitato di benvenuto” saluta ogni nuovo utente, una “task force di pulizia” va in giro a controllare i fatti. Le regole del sito sono stabilite con un consenso diffuso. Anche i server sono in gran parte gestiti in questo modo: un gruppo di sysadmin volontari si riunisce su IRC per tenere d’occhio la situazione. Fino a poco tempo fa, la Fondazione che si suppone gestisca Wikipedia non aveva dipendenti effettivi. Ma l’apertura di Wikipedia non è un errore: è la fonte del suo successo. Una comunità dedicata risolve problemi di cui i leader ufficiali non saprebbero nemmeno l’esistenza. Nel frattempo, il loro volontariato elimina in gran parte le lotte intestine su chi deve fare cosa. Al contrario, i compiti vengono svolti dalle persone che vogliono veramente farli e che, guarda caso, sono anche quelle che si preoccupano di farli bene.

Nel momento in cui Aaron inizia la sua “campagna elettorale” per candidarsi a una posizione dentro Wikipedia (ma non sarà eletto), inizia a spiegare, sul suo blog, come a suo avviso la stessa apertura ci dovrebbe essere anche nella struttura del progetto.

Proprio come il successo di Wikipedia come enciclopedia richiede un mondo di volontari per scriverla – nota il giovane nel suo post – il successo di Wikipedia come organizzazione richiede una comunità di volontari per gestirla. Da un lato, ciò significa aprire i meccanismi interni del Consiglio di amministrazione affinché la comunità possa vederli e parteciparvi. Ma significa anche aprire le azioni della comunità in modo che il mondo intero possa essere coinvolto. Chiunque vinca le prossime elezioni, spero che si assuma questo compito. Costruire una comunità [p. 213 modifica] è piuttosto difficile; richiede la giusta combinazione di tecnologia, regole e persone. Sebbene sia chiaro che le comunità sono al centro di molte delle cose più interessanti di Internet, siamo ancora agli inizi della comprensione di ciò che le fa funzionare. Ma Wikipedia non è neppure una tipica comunità. Di solito, le comunità di Internet sono gruppi di persone che si riuniscono per discutere di qualcosa, come la crittografia o la stesura di una specifica tecnica. Magari si incontrano in un canale IRC, in un forum web, in un newsgroup o in una mailing list, ma l’obiettivo è sempre qualcosa di “esterno”, qualcosa che non rientra nella discussione stessa. Con Wikipedia, invece, l’obiettivo è costruire Wikipedia. Non si tratta di una comunità creata per creare un’altra cosa, ma di una comunità creata per creare sé stessa. E poiché Wikipedia è stato uno dei primi siti a farlo, non sappiamo quasi nulla sulla costruzione di comunità di questo tipo.

In conclusione, per Aaron il sistema alla base di Wikipedia, e l’enciclopedia stessa, hanno un fascino innegabile.

Non li vede solo come strumenti per la libertà dei contenuti ma, anche, come nuovi ecosistemi più adatti alla società digitale così come si stava delineando. Non solo: l’idea del wiki, ossia di una architettura che fa nascere dei contenuti condivisi e collaborativi è, per lui, applicabile fruttuosamente in qualsiasi campo, e non solo quello dei contenuti enciclopedici.

La vera innovazione di Wikipedia – conclude in maniera molto lucida – è stata molto più della semplice creazione di una comunità per costruire un’enciclopedia, o dell’uso di un software wiki per farlo. La vera innovazione di Wikipedia è stata l’idea di una collaborazione radicale. Invece di far lavorare insieme un piccolo gruppo di persone, ha invitato il mondo intero a partecipare. Invece di assegnare compiti, ha permesso a chiunque di lavorare su ciò che voleva, ogni volta che ne avesse voglia. Invece di avere qualcuno che comanda, ha lasciato che le persone risolvessero le cose da sole. Eppure, ha fatto tutto questo per creare un prodotto molto specifico. Ancora oggi è difficile pensare a qualcosa di simile. I libri sono scritti in collaborazione, ma di solito solo da due persone. Grandi gruppi hanno scritto enciclopedie, ma di solito solo con compiti specifici ben assegnati. Il software è stato scritto da comunità ma, in genere, qualcuno è, nello specifico, responsabile. La comunità di Wikipedia è estremamente vivace, e non ho dubbi che il sito riuscirà a sopravvivere a molti cambiamenti di software. Ma se ci preoccupiamo di qualcosa di più della semplice sopravvivenza, di come rendere Wikipedia la migliore possibile, dobbiamo iniziare a pensare alla progettazione del software tanto quanto al resto delle nostre scelte politiche.