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Alceste Seconda (Alfieri, 1947)/Atto quarto

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Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Alceste, attorniata dalle ancelle, e da parte del Coro. Adméto, dalla parte opposta, attorniato da Ferèo, da Eúmelo, dalla figlia, e dall’altra parte del Coro. Al terminare del Coro lirico, s’inoltra in scena Ercole.
Il Coro d’Alceste

Ma, qual si inoltra in sovrumano aspetto,
altero Eroe? Ben è, ben ei di Alcména
è il generoso figlio; in questa reggia
visto da noi, non ha molti anni. O prole
nobil di Giove, or qual cagion mai guida
in cotal punto i passi tuoi ver queste
soglie infelici?
Ercole   Al suon d’infausto annunzio,
di mia traccia sviandomi, quí vengo.
Seppi, che Adméto a mortal morbo in preda
ver la tomba strascinasi: deh, quanto
dolce sarammi e cruda vista a un tempo
l’illustre amico! Ma fors’io, deh dite,
non giungo in tempo?
Il Coro d’Alceste   Ah! non sai tutto. È in vita
Adméto, e sano egli è di corpo. Oh cielo!...
Ma in vece sua per lui spontanea muore
l’adorata sua Alceste. Eccola: quasi
spira essa giá l’ultimo fiato...

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Ercole   Oh vista!

Che mi narrate, o Donne? Oh in ver sublime
unica moglie! Oh tra i mortali tutti
miserissimo Adméto! Ov’è? ch’io il vegga...
Il Coro d’Alceste
Deh, no; piú lá non inoltrar tu il piede:
dai sensi tutti Adméto ivi diviso,
ed esanime quasi, infra i suoi figli
stassene; a fianco il genitor Feréo
sol gli si appressa lagrimoso: or dianzi
a viva forza a stento egli staccavalo
dal collo della moglie moribonda:
or dal letargo suo se tu il traessi,
fia ’l peggio: in guisa niuna consolarlo,
né il potresti pur tu.
Ercole   Chi ’l sa? — Ma intanto
indugiar quí non vuolsi. Alceste, parmi,
viva è pur anco.
Il Coro d’Alceste   Un lievissimo spirto,
che appena appena vacillar farebbe
la sottil fiamma di lieve facella,
esce tuttor dal suo labro morente.
Ma, svanito ogni senso, appien giá quasi
chiusi son gli occhi; un gelido torpore
per ogni membro suo giá serpe...
Ercole   Basti,
che vista io l’abbia ancor di quá dall’onde
di Stige irremeabili. Voi tosto,
o fide Donne, or dunque in calda fretta
chetamente portatela per quella
piú segregata via, fin dentro al magno
tempio d’Apollo e di Mercurio. Quivi,
a quella sacra Profetessa antiqua
in mio nome affidatela; ed ognuna
di voi quí faccia immantinente poscia
ratto ritorno; e guai, s’anzi ch’io rieda,

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niuna di voi svelar si attenta il fatto

al tristo Adméto. Itene pronte, e mute,
sí, che lo stuol, che Adméto ivi circonda
in sua doglia sepolto, omai non possa
né osservarvi, né udirvi. E dell’eccelso
mio genitor, del sommo Giove, o Donne,
paventate lo sdegno (oltre il mio sdegno)
se intero intero questo mio comando
sagaci e in un discrete or non compieste.


SCENA SECONDA

Ercole, Feréo, Adméto, i figli d’Adméto,

e parte del Coro.

Ercole1 Spero; e non poco: ove pur giusto il Cielo

arrider voglia ai voti miei. Ma omai
fuor del cospetto nostro dilungatasi
la mesta pompa ell’è, che il semivivo
corpo accompagna. Il favorevol punto
quest’è, ch’io breve a favellar m’innoltri
all’infelice Adméto. — Adito dassi
ad un ospite antico?
Il Coro d’Adméto   Ercole!
Feréo   Oh Numi!
Chi veggio?...
Ercole   Adméto; Adméto; ergi, ten prego,
la fronte alquanto: or, deh, riapri il ciglio,
e un tuo diletto amico vero mira,
che del tuo morbo al grido ha tosto l’orme
ver te rivolte. E che? né un cenno pure
d’uom vivo dai? cosí tu accogli Alcide?
Adméto Chi d’Alcide parlò? Qual voce!... Oh cielo,
e fia ver ciò ch’io veggo? Ercole fido,

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il tuo labro appellavami? — Son io

desto, o vaneggio?
Ercole   Il ver tu vedi: io sono
Ercole, sí; giunto al tuo fianco in tempo.
Adméto Ah, che di’ tu, tardi giungesti: estinto
ogni mio ben per sempre...
Ercole   Il cuor rinfranca:
nulla narrarmi; il tutto so: confida,
non è morta ogni speme: amico sei
d’Ercole tu; d’Ercole amici, i Numi;
e un qualche Iddio quí forse ora mi spinse.
Io tel comando; spera.
Adméto   Oh detti! oh gioja!
Esser potria pur mai?... Redimer forse
dal fero Pluto la mia Alceste?... Un fuoco
vital dentro alle mie gelide vene
di nuovo avvampa ai detti tuoi. — Che dico?
Misero me! stolta e fallace ahi troppo
lusinga ell’è: Fato tremendo, eterno,
ch’il ruppe mai? né Giove il può...
Ercole   Son note
le vie d’Averno a me; tu il sai: per ora
io quí piú a lungo rimaner non deggio;
ma in breve, o Adméto, in questa soglia appunto,
mi rivedrai. Di piú non dico. Impongo
a te bensí, che né d’un passo pure
da questo regio limitar ti debbi
allontanare, anzi ch’io torni: il piede
né piú addentro innoltrar puoi nella reggia,
né fuor d’essa protrarlo. Infra non molto,
in questo loco stesso, io recherotti
non so ben qual, ma non leggier sollievo.
Adméto Almo eroe, deh concedi almen ch’io pria
al sovrumano valor tuo mi atterri:
pieno tu il cor m’hai di baldanza...
Ercole   Avravvi

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tempo assai poscia a disfogar tuoi sensi. —

Feréo, tu intanto, ottimo padre, e voi
di Fere alte Matrone, al di lui fianco
statevi. Parto: a tutti voi lo affido.


SCENA TERZA

Feréo, Adméto coi figli, e parte del Coro.

Feréo Il vedi or tu, diletto figlio, il vedi,

s’uom che ben puro infra i mortali viva
religíoso osservator dei Numi,
amici ei poscia a se li trovi all’uopo?
Se, donde ei men l’attende, ai danni suoi
rimedio o tregua scaturir si vegga?
Adméto Certo, all’intensa mia insanabil doglia
un po’ di tregua parean dar gli accenti
d’Ercole invitto; e il rimirar sua fronte
serena tanto, e sí secura in atto.
Or non è dunque in peggior punto Alceste,
che non si fosse dianzi. O Morte, hai dunque
sospeso alquanto il fero assalto? Or, via,
sciogliete il cerchio, che al mio corpo intorno
feste pietosi; apritemi ver essa
adito nuovo; un’altra volta almeno
ch’io la rivegga ancora. O figli, andiamo,
riappressiamci all’adorabil donna. —
Che vegg’io? qual solingo orrido vuoto
si è fatto lá? Non è la immagin quella
della Diva d’Averno? appié dell’alta
sua base or dianzi Alceste in su lo strato
giacea di morte, infra sue Donne: or dove,
dove son elle? ov’è lo strato? Oh cielo!
Sparita è Alceste!...
Feréo   Or, che fu mai?
Il Coro d’Adméto   Sparite

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con essa pur le Donne nostre!

Adméto   Alceste!
Alceste, ove se’ tu?
Feréo   Deserto io miro
con maraviglia il loco.
Adméto   O sia verace,
o finto in voi sia lo stupor; le incerte
parole vostre, e lo squallor dei volti,
e il mal represso pianto, aimè, pur troppo,
ogni vostr’atto annichilate immerge
le mie speranze in notte sempiterna.
Piú non esiste Alceste. — E il dolor mio
cosí tu a giuoco ti prendevi, o Alcide?
Nel punto stesso, in cui del tutto è spento
ogni mio ben per sempre, lusingarmi
con artefatti sensi? Oh rabbia! e voi,
voi pure d’ingannarmi vi attentaste?
Dov’è, dov’è? vederla voglio: o estinta,
o semiviva sia, vederla voglio;
precipitarmi, o Alceste, in su l’amato
tuo corpo io voglio, e sovr’esso spirare.
Feréo Deh, ti acqueta; mi ascolta; il ver saprassi
tosto; ma estinta io non la credo.
Il Coro d’Adméto   Or, ecco,
ratte ver noi ritornan le compagne.
Tutto saprai.


SCENA QUARTA

Il Coro d’Alceste, Adméto, Feréo, i figli

e il Coro d’Adméto.

Adméto   Donde venite, o Donne?

Dove ne giste? Alceste, ov’è? da voi
la chieggo, la rivoglio. Or via... Che veggio?
Voi vi turbate; e scolorite, e mute,

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e tremanti... ahi me misero! giá tutto

pur troppo intesi: la mia vita è spenta:
tutto cessò. Ma l’adorato corpo,
non vi crediate giá dagli occhi miei
sottrarre, infin ch’io pur quest’odíosa
luce sopporto: io ’l troverò...
Feréo   Deh, figlio,
non ti rimembri, che imponeati Alcide
di non portar fuor della reggia l’orme,
e di attenderlo quí?
Il Coro d’Adméto   Come a noi pure
di starti al fianco, ed impedirti...
Adméto   Indarno,
indarno or voi, quai che vi siate e quanti,
deboli e crudi e in un volgari amici,
contro me congiurate. Altro è, ben altro
in me il dolor, che non l’inutil gelo
in voi della fallace ragion vostra.
Non son d’insano or l’opre mie; ma saldo
volere intero, ed invincibil figlia
di ragionato senno, la feroce
disperazione mia, m’impongon ora
l’alto proposto irrevocabil, donde
né voi, né il tempo, né d’Olimpo i Numi,
né quei d’Abisso, svolgermi mai ponno.
Donne, a voi lo ridico; il corpo io voglio
della consorte mia.
Il Coro d’Alceste   Per or vederla
né il puoi, né il dei: ma ben giurar possiamti
ch’ella estinta non era...
Adméto   Al par che stolte,
spergiure voi, gli avviluppati detti
a che movete? Ogni ingannarmi è vano.
Non la vedev’io forse or dianzi in questo
loco fatale appena appena viva?
E nell’orecchio non mi suonan forse

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tuttora i frali estremi accenti suoi?

Tu, padre, a viva forza mi staccavi
dal collo amato. Ahi me infelice! ed io
non la vedrò mai piú? Quelle funeste
e in un soavi voci sue ch’io udiva,
eran l’ultime dunque?
Feréo   Unico mio
diletto figlio, Adméto, apri, ten prego,
alla ragion la mente. Ercole in somma...
Adméto Fallace amico, a me l’ultimo colpo
Ercole diede. — Ma ben disse in vero,
ch’io mai di quí partirmi non dovria:
starommi io quí per sempre. Il piè lá entro,
come inoltrar potrei? mai piú, no, mai,
in quelle mute soglie dolorose,
ov’io con essa stavami felice,
né i Numi stessi invidiava, amante
riamato d’Alceste; in quelle soglie
vivo mai piú non entrerò. Per poco,
ne andrò di quí chiamando ad alta voce
l’adorato tuo nome: ma l’infausto
talamo orrendo, che giá due ne accolse,
nol rivedrò piú mai; né quel tuo fido
seggio, in cui sempre ti sedevi... Oh vista!
Deserto stassi... Ah, quí spirasti, Alceste:
e forza egli è, ch’io pur quí spiri; e fia
tra breve, il giuro.
Feréo   Ah, no: promesso hai dianzi
tacitamente alla tua stessa Alceste,
di viver pe’ tuoi figli.
Adméto   Oh figli amati!
Figli d’Alceste e miei, venite entrambi
or tra mie braccia, per l’ultima volta.
Tu, donzelletta, vieni; che in te figga
gli estremi baci e di padre e di sposo.
Dell’adorata madre il vivo specchio

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tu sei, pur troppo: oh rare forme! O voi,

che stima e amore e maraviglia in petto
per la bontá per la beltá nudriste
d’incomparabil donna; o voi, che ad essa
potrete pur sorvivere, voi fate
che intatte al mondo le divine forme
restin di lei; che in tele e in marmi e in bronzi
la eternino gli artefici piú dotti;
sí, che ai remoti posteri l’imago
di virtude cotanta in tal beltade,
viva quasi trapassi.
Eúmelo   Ah, non piú mai
la rivedrem noi dunque?
Adméto   Oh detti! Ah, tosto
dal mio fianco staccate questi miseri
orfani figli: rimirarli omai,
piú nol posso. Deh, Morte, affretta, o Morte,
la tua strage seconda. Alceste è spenta;
e vivo è Adméto?... Un ferro, or chi mel niega?
Un ferro io voglio. Invan voi mi accerchiate;
tentate invan voi di frenarmi.
Feréo   E indarno
tu d’infierir contro te stesso speri.
Troppi siam; tu sei solo, e inerme, il vedi;
te difendiam da te medesmo or noi.
E ucciderai, pria che te stesso, io ’l giuro,
il proprio padre tu.
Adméto   Serbar me dunque
vivo malgrado mio, voi sperereste?
Mille son, mille, del morir le vie;
ma non di furto io tenterolle. Appunto,
voi testimoni appunto or quí m’eleggo
della immutabil mia sentenza estrema. —
Giuro ai celesti Iddii, giuro agl’Inferni,
che omai né cibo alcuno, né una pura
goccia di semplice acqua in guisa niuna

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a sostentare il corpo mio per queste

fauci mai piú non scenderá. Ch’io poscia,
irriverente, un tal mio giuro infranga,
tanto possibil fia, quanto che Alceste,
rotte le leggi dell’eterno Fato,
dal negro Averno a riveder quest’alma
luce del Sol mai rieda. — Udiste? Or queto,
e in me securo, io stommi. A piacer vostro,
voi, crudi amici, con pietá fallace
frenatemi, opprimetemi, straziatemi,
e per anco negatemi la vista
del sospirato corpo; io giá con essa
sto fra gli estinti. Or tu, se mai mi amasti,
padre, tu queste mie spoglie poi chiudi
entro uno stesso avello con le spoglie
della mia Alceste. — E quí dò fine ai detti.
Né un sospiro, né un moto omai, né un cenno
uscirá piú da me.
Feréo   Deh, figlio, figlio!...
Lo abbandonan le forze...
Coro   In lui cogli Inni,
Donne, avviviam religíosa speme.


CORO

MONOSTROFE

           Tutto ei può, tutto egli è, tutto ei penétra

     col folgor ratto del divin suo ciglio,
     il Regnator dell’Etra.
     Né indarno mai, né a caso
     scagliato è strale d’immortal consiglio.
     Non disdegnando umane forme, ei volle
     il clavigero figlio
     giá procrear di Alcména bella in seno;
     quel forte Alcide, che su i forti estolle

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     (d’ira celeste invaso)

     suo braccio sí, ch’ogni valor vien meno
     di qual, che contrastargli ardisca folle.
     Ciò seppe Antéo gigante;
     e Cigno, alto guerrier, figlio di Marte;
     e Marte stesso il seppe, e il sepper quante
     Idre e Chimére, e Geríoni, e Mostri
     vinti a’ dí nostri,
     di loro spoglie a forza a lui fean parte.
     Or fia, che indarno, o a caso,
     di sperar c’imponesse un uom cotanto,
     presso cui l’opra è tutto, e nulla il vanto? —
                  Muto, e tremante
                  ogni uom si prostri;
          che tutto può, tutto è, tutto ei penétra
     col folgor ratto del divin suo ciglio,
     il Regnator dell’Etra.


  1. In disparte.