Alessandro Manzoni (De Sanctis)/Lezioni/XIV. Don Abbondio

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LEZIONI
XIV. Don Abbondio

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Lezione XIV

[DON ABBONDIO]

Lasciammo don Abbondio in un momento interessante della sua vita, e se mal non mi ricordo, rimanemmo alle parole «Cioè, cioè...».

Che cosa è questo «cioè»? È l’uomo che si mette subito nella posizione di chi ha il torto, perché avvezzo a tremare dinnanzi al più forte, il quale piglia l’aria di superiore mentre egli piglia l’aria d’inferiore; quello ha il «piglio minaccioso ed iracondo», ed egli risponde «con voce tremola»; quello ha il tono di accusatore ed egli si scusa; quello considera il voler fare il matrimonio di Renzo e Lucia come una colpa, ed egli dice: — «Fanno i loro piastricci fra loro, e poi... poi, vengono da noi come s’andrebbe ad un banco a riscuotere» — . Don Abbondio dunque è già in quella posizione. Analizziamo ora psicologicamente questo fatto.

Questo fatto è solamente «coscienza della propria debolezza»?

No, esso è qualche cosa di più.

L’uomo infatti può essere cosciente della debolezza propria, ma, se ha un po’ di polso, misura il pericolo, lo affronta, lo gira, e quando sente ch’egli è inferiore ad esso, lo subisce con dignità senza abbassarsi. L’uomo coraggioso non è colui che vuole scalare il Vesuvio e prenderlo d’assalto, ma è colui che, come abbiamo detto, sa affrontare a tempo il pericolo, e sentendosi inferiore sa dignitosamente subirlo. [p. 277 modifica]
Ma in don Abbondio c’è quella qualche cosa di più, c’è il «sentimento della paura».

E qual’è, o signori, la forma estetica della paura?

Nell’uomo, c’è una «forza di reazione» contro le impressioni esterne; forza di reazione che risiede nell’uomo «forte», il quale in mezzo alle impressioni violente sa far valere la volontà propria e raggiungere il suo fine. Questo è ciò che si chiama «essere uomo»; egli dice: — Questo voglio — , e si afferma.

Quando poi l’uomo è «pauroso», quella forza di reazione è debolissima in lui: di rincontro alle impressioni esterne la sua volontà scomparisce, ed egli rimane come debole canna in preda alla violenza di esse. Che anzi giungendo queste all’immaginazione, una specie di musa della paura agita la fantasia, la quale si raffigura cose inesistenti; si mescolano così pericoli reali con pericoli immaginarii, ed allora le altre facoltà tacciono, l’intelligenza si oscura, la volontà scompare, e rimane l’uomo con la sola immaginazione di fronte alla violenza. Ecco il fenomeno psicologico: ed ora vedremo qual è il carattere esterno di quel fenomeno. L’uomo che ha coraggio mantiene in mezzo alle impressioni quello che si dice il suo sangue freddo; e l’uomo che non ha coraggio sottogiace ad esse, perde quasi la sua personalità, e smarrisce la calma. Per un esempio dell’uomo coraggioso, voi ricordate un motto di Napoleone, quando Canova gli dimandava: — Come volete essere dipinto? — . Egli rispose: — Dipingetemi calmo sopra un cavallo sfrenato — . Vedete per contrario don Abbondio sulla mula, ch’era un agnello, al dire dell’aiutante di camera del Borromeo, quand’egli tornava dal castello dell’Innominato, dove la strada era delle volte sur un rialto, o sur un ciglione, donde don Abbondio «vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto, o come egli pensava, un precipizio». E notate che «il come egli pensava» vi dice già che la paura gl’ingigantiva la realtà e gli faceva considerare precipizio quello che era un salto. La mula dunque, «secondo il costume de’ pari suoi, pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sul margine»; e don Abbondio tirava stizzosamente la briglia [p. 278 modifica]dall’altra parte, e diceva alla bestia: — «Anche tu hai quel maladetto genio d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero!» — . Ma tirava la briglia inutilmente, continua l’autore, «sicché, al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacer d’altrui».

Eccovi dipinta plasticamente l’una e l’altra forma: la forma del coraggio ch’è la calma, e la forma della paura ch’è la stizza. La stizza dunque è la forma estetica della paura.

Prendete ora il Manzoni e leggete il dialogo fra i bravi e don Abbondio. Alla dimanda del bravo, ed al vedere quel «piglio minaccioso ed iracondo», egli balbetta: — «Cioè...» — . Che cosa è che ha operato in lui? È quel modo di vestire, è il tono minaccioso, è l’aria di superiorità, è tutto quello che non imporrebbe per niente ad un uomo coraggioso, ma che opera su di lui e gli toglie la calma. Egli risponde infatti «con voce tremola», ed in tutto il dialogo fa de’ discorsi incompleti, perché gli manca la forza di dar fine alle proposizioni. Ora avviene naturalmente che quando un uomo pauroso comincia a discutere, e sente che il più forte discute, ripiglia un poco di coraggio; e difatti don Abbondio, discutendo, verso l’ultimo si ripiglia un poco; quando poi, siccome pure aveva preso animo, l’altro compagno che non aveva ancora parlato, ricorrendo al ragionamento del più forte, ruppe il dialogo dicendo: — «Ma il matrimonio non si farà, o... — e qui una buona bestemmia, — o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... — un’altra bestemmia».

Per un uomo che vive in una certa atmosfera civile, avvezzo a sentirsi rispettato, non c’è via per umiliarlo che usargli questo linguaggio.

Per vedere l’impressione che quel discorso ha potuto produrre sull’animo di don Abbondio riempite quelle lacune; dove dice «e qui una buona bestemmia» metteteci una bestemmia qualunque, per esempio «santo diavolo», parole usate da’ Calabresi; ebbene don Abbondio rimane muto di spavento, non parla, l’impressione è stata violenta tanto, che l’altro bravo vede il bisogno di doverlo rassicurare e dice al compagno: [p. 279 modifica]— «Zitto, zitto, il signor curato sa il vivere del mondo; e noi siamo galantuomini, che non vogliamo fargli del male quando egli abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente» — . Vedete come tutto questo è condotto dai due manigoldi.

Il nome di don Rodrigo è come un lampo «nel forte d’un temporale notturno,...che illumina momentaneamente... gli oggetti, e cresce il terrore»: don Abbondio riacquista la parola per dire: — «Se mi sapessero suggerire...» — .

E fin qui notate come da una parte stanno le impressioni violente, e dall’altra don Abbondio col suo «cioè».

In quella frase: «Se mi sapessero suggerire...», c’è un’idea sottintesa; ma la quistione è ora di sapere come sotto quella pressione esce l’ultima forma di comico.

— «Oh! suggerire a lei che sa di latino!», — dice il bravo. Qui comincia un’altra manifestazione delle impressioni esterne, ch’è la «beffa». E se la beffa è qualche cosa di più crudele per l’uomo coraggioso, per un uomo che ha paura è invece incoraggiamento, perché quando l’uomo forte sorride, il debole crede di avere più sicurezza nel parlare.

E guardate come il bravo nel ridere a quel modo corregge la frase, perché sente che don Abbondio potrebbe articolare qualche cosa, ed in mezzo al riso lampeggia la minaccia e la ferocia; e l’autore dipinge con due parole questa situazione, dicendo: «interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce». E poi continua: — «A lei tocca. E sopra tutto non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene: altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio» — .

Voi vi ricordate quell’«ehm!...» che impressione ha fatta a don Abbondio; egli se lo sente ronzare sempre negli orecchi, e non se lo dimentica mai. Quell’«ehm» è il riassunto di tutto il dialogo, e non c’è cosa che faccia più impressione di ciò che non paia che dica nulla e dice tutto: quell’«ehm» infatti è il richiamare tutte le minacce fatte, è il ritornar al già detto riconfermando tutte le impressioni, è lo sguardo d’intelligenza [p. 280 modifica]che dice: — Tu mi capisci — , o — Noi c’intendiamo — . Questa parola d’intelligenza fa vedere che il bravo è già padrone della volontà di don Abbondio, è la parola che si rivolge ad una vittima. Quindi comprendete che il bravo non ha più bisogno di minacciare e però dice: — «Via, che vuol ella che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo?» — .

— «Il mio rispetto...» — , risponde don Abbondio. E qui per istinto egli cerca di contentare i bravi, ma cerca una frase che non lo comprometta diversamente; onde il bravo ripiglia: — «Si spieghi, signor curato» — .

— «Disposto... disposto sempre alla ubbidienza» — . E così in questa meraviglia di dialogo vedete don Abbondio domato dalle impressioni esterne, che finisce per mettersi in mano a’ bravi. Qui il dialogo finisce; i bravi se ne vanno e don Abbondio prende la strada che portava a casa sua, «mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che gli parevano ingranchite».

Mentre don Abbondio se ne toma con le gambe ingranchite a casa sua, l’autore usa l’intermezzo per aprire una digressione, e facendo una corsa storica in quei tempi, vi spiega don Abbondio.

Nelle tre pagine dunque che l’autore impiega per fare questa digressione, egli dà il colorito storico al suo personaggio, per dirvi che il suo è un prodotto reale e non dell’immaginazione. Veramente dimanderei: — Che cosa importa se il suo è un prodotto storico o della fantasia? — . Ma l’autore mette quel finimento storico, dà al suo personaggio il paese, i pregiudizii, la sua classe, tutto ciò insomma che nella scuola moderna si chiama il «realismo». In quella [digressione] dunque vi è l’essenza di don Abbondio, ma tutto ciò poteva esserci e non esserci, ché il don Abbondio è stato giá dall’autore meravigliosamente abbozzato fin da che avvenne il dialogo con i bravi.

Diciamo per altro che quella digressione è bella, ma il dramma richiama la nostra attenzione, e però torniamo a don Abbondio. Questo se ne tornava dunque soletto, la paura in lui è cessata, e con essa il fenomeno psicologico.

Io vi ho detto che la differenza fra l’uomo coraggioso e l’uomo timido è che il primo ha la reazione contro le [p. 281 modifica]sioni violente esterne, ed il secondo non ne ha. Ma ora vi dico che la reazione c’è, ma avviene ch’essa si sviluppa dopo rincontro; il coraggioso reagisce sotto le impressioni, ed il timido dopoché gli è tornato il sentimento della sua personalità; e la reazione, che si opera in lui, si chiama «stizza». E la differenza fra la collera e la stizza è la seguente: la collera è facoltà del forte, e si rivolge contro le impressioni presenti per spezzarle; essa mette capo nella volontà e dà per risultato la vendetta; la stizza è la qualità de’ vili, de’ fanciulli e de’ paurosi: essa è la collera per la collera, ma senza scopo e solamente come sfogo. Coloro che hanno subito la pressione violenta della paura hanno bisogno di sfogare: voi trovate però la stizza in don Abbondio, il quale ha subito una pressione di quella fatta, ed ora sente il bisogno di cacciare tutto il fiele che ha in corpo: la stizza è come la valvola di sicurezza dell’uomo pauroso, senza di che scoppierebbe.

E vedete con quale gradazione si va mostrando la reazione nel povero curato.

Quando i bravi se ne sono andati e don Abbondio si avvia per la sua strada, se fosse stato un uomo di polso, avrebbe cercato di trovare un partito, ma in lui l’intelligenza e la riflessione sono oscurate, e ci è solo l’immaginazione piena tuttavia delle impressione avute; e notate come bellamente il Manzoni vi esprime questo momento quando dice:


        Lo spavento di quei visacci e di quelle parolacce, la minaccia d’un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere che era costato tanti anni di studio e di pazienza, sconcertato in un punto, e un passo stretto, scabroso da attraversare, un passo del quale non si vedeva la uscita: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio.


        Ma dopo che la sua immaginazione fu calmata, incomincia la stizza, e questa si rivolta, credete voi contro di se stesso, accusandosi di vigliaccheria, come avrebbe fatto l’uomo di qualche coraggio? Niente affatto; essa si rivolta contro Renzo e Lucia, e [p. 282 modifica]non contro don Rodrigo ed i suoi bravi, ed esce a dire: — «Ragazzacci, che per non saper che fare s’innamorano, vogliono maritarsi, e non pensano ad altro, non si fanno carico dei travagli in che pongono un povero galantuomo» — . Tutto ciò fa un effetto comico irresistibile, e poi continua: — «Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevano proprio piantarsi sul mio cammino, e pigliarla con me! Che c’entro io? Son io che voglio maritarmi?...»— .

Notate come quest’ultimo contrasto è grottesco. Così segue stizzosamente sino a che giunge alla sua casa. Ma tutto questo non è ancora uno sfogo, è soltanto gioco d’immaginazione, che rimane affogato, perché egli, don Abbondio, non ha ancora parlato.

«Giunto fra il tumulto di questi pensieri alla porta della sua casa,... pose in fretta nella toppa la chiave,... aperse, entrò, richiuse diligentemente», come se fosse inseguito dalle figure de’ bravi. Ed il primo sentimento che nasce in lui, ora che è in casa sua, è l’ansia di trovarsi in compagnia di una persona fidata, è il sentimento dello sfogo: ond’è che non ha messo ancora il piede sulle scale, che comincia a gridare: — «Perpetua! Perpetua!»— . Osservate con quanta verità entra in iscena Perpetua. Don Abbondio sapeva che Perpetua stava nel salotto ad apparecchiar la tavola per la cena; la sua intenzione quindi, allorché la chiamava, non era di vedere se c’era, ma era il bisogno di aprire la bocca, era il bisogno di confidarsi. — I Francesi hanno un proverbio che dice: «il se frotte toujours á quelqu’un», ossia che l’uomo pauroso ha bisogno del suo «due», di qualcuno, cioè, che l’incoraggi; ed il «due» di don Abbondio era Perpetua, tipo che voi potete trovare benissimo, e nelle case di preti vedete sotto forma di governanti queste viragini, forti di corpo, goffe, di buon cuore, che avendo della confidenza col padrone s’immedesimano con lui, e dicono: — Noi, la casa nostra— ;e quando voi trovate che queste persone hanno buon cuore ed una stima sentita per il padrone, allora comprendete tutta l’importanza del grido di don Abbondio: — «Perpetua!» — . Egli giunge finalmente col [p. 283 modifica]viso «stravolto» ed «adombrato». Voi vi rammentate don Abbondio contento che tornava dalla sua passeggiata, dicendosi l’uffizio, girando oziosamente gli occhi, e gittando i ciottoli sul canto della strada; ma ora è tutto cambiato; egli entra col passo «ravviluppato» e con quel viso, «che non ci sarebbero nemmeno bisognati gli occhi esperti di Perpetua per iscoprire a prima giunta che gli era accaduto qualche cosa di bene straordinario». E notate quando l’autore dice «passo ravviluppato»: perché avviene veramente che in una forte emozione le gambe tremanti cercano di ravvicinarsi ed il passo si ravviluppa.

Io parecchie volte ho pensato che se ci fosse un pittore intelligente, ci potrebbe fare una magnifica galleria di tanti quadri rappresentanti tanti don Abbondii, secondo le diverse situazioni, nelle quali lo ha messo il Manzoni. Il primo quadro rappresenterebbe il don Abbondio che recita l’uffizio, il secondo quando sta per entrare in casa sua dopo quella brutta paura, e così via discorrendo: se ne potrebbero fare circa quindici o venti corrispondenti alle diverse forme psicologiche.

Egli entra dunque, ed appena entrato si lascia «cadere tutto ansante sul suo seggiolone», quasi avesse durato grande fatica.

Perpetua viene come contrapposto poetico di don Abbondio; contrapposto brutale e plebeo, come donna senza educazione. Essa non si è trovata mai negli attriti della vita come don Abbondio; è donna, come si direbbe ora, sana, non modificata dal mondo, e però grossolana e di prima impressione, che dice tutto senza rispetto di alcuno, epperò contrapposto grossolano di don Abbondio, il quale è tutto prudenza, tutto riguardi, ecc.

Vedete ora come l’autore maneggia questo contrapposto. Per quanto grande è il bisogno di don Abbondio di confidarsi da una parte, dall’altra ci è quel terribile «ehm!...». Un uomo di proposito sceglie quello che deve fare, e lo fa; ma un uomo pauroso rimane indeciso e passivo, sicché finisce sempre per fare la volontà altrui.

Questa passività di don Abbondio si traduce in una sola parola.

— «Misericordia!» grida Perpetua, «che ha ella, signor padrone?» — «Niente, niente», — risponde don Abbondio. [p. 284 modifica]
Questa parola «niente» è caratteristica di quegli uomini, che hanno voglia di dir molto ma che per prudenza non vogliono parlare, e dicono:— Niente!— , ma chi lo dice sta già per palesare tutto. In lui ci è la natura che lo spinge a parlare, e la prudenza che gli ordina il silenzio; ma dopo un’insistenza di Perpetua egli ripete: — «Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire» — .

Perpetua che sente «o è cosa che non posso dire», si mette «ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi e le gomita appuntate», e dice:— «Vuol ella dunque ch’io sia costretta di domandare qua e là che cosa sia accaduto al mio padrone?» — .

Non c’era niente di più sicuro per far saltar don Abbondio dal seggiolone, che il sentire la nuova portata in giro, e grida: — «Per amor del cielo! non mi fate pettegolezzi, non mi fate schiamazzi: ne va... ne va la vita!» — .

Giunta a questo punto la scena diventa volgare, e però l’autore non la compisce, ma ne accenna la fine dicendo:


        Fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta Perpetua ne avesse di conoscerlo: onde dopo aver rispinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè!, le narrò il miserabile caso.


        Non so se vi ha fatta impressione questa forma epica, quando l’autore dice: «con molti ohimè!, le narrò il miserabile caso», come se avesse narrato l’eccidio di Troia. E veramente per don Abbondio era stata quella la sua Iliade, e quando racconta il fatto a Perpetua lo dice poeticamente, come sta nella sua immaginazione esaltata.

A questo punto scoppia il contrasto tra i due caratteri, il carattere violento di Perpetua ed il pauroso di don Abbondio. — «Oh che birbone!» esclama Perpetua, «oh che soperchiante! oh che uomo senza il timor di Dio!» — . E don Abbondio: — «Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?» — . [p. 285 modifica]
Finalmente la scena si colorisce e si viene all’ultima spiegazione. Perpetua dice il suo parere con modo grossolano: — «E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi valere, si porta rispetto; e appunto perché ella non vuol mai dir la sua ragione, siamo ridotti a segno che tutti ci vengono, con licenza, a...» — . Potete immaginare che porcheria ci voleva attaccare; e don Abbondio: — «Volete tacere?» — .

E Perpetua continua: — «Io taccio subito; ma è però certo che quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le...» — «Volete tacere?»— , ripeteva don Abbondio.

E qui vedete comparire in forma indecente in bocca a Perpetua il suo carattere violento.

Don Abbondio segue a far delle lamentazioni (egli è già diventato chiacchierone), non vuol saperne di cena, né del vino che gli acconciava lo stomaco; prende il lume, e brontolando si avvia per salire in camera. Quando giunge in capo alle scale, quando già si era sfogato, sorge in lui novellamente la prudenza, ed in se stesso par che dica: — Oh! che ho fatto a parlare!— . Ond’è che si voltò indietro verso Perpetua, e mettendosi il dito sulla bocca, «disse, con tuono lento e solenne: — Per amor del cielo! — ».

Così finisce il capitolo.

Che cosa ho fatto io, o signori, in questa lezione? Ho fatto quello che in Inghilterra si dice una lettura; ho letto un capitolo del Manzoni e l’ho gustato con voi, per farvi sentire tutta la delicatezza delle situazioni de’ personaggi del Manzoni. E capirete che a voler fare letture di questa fatta, io non la finirei; ond’è che dopo avervi fatto questo saggio, io [non] userò [più] questo metodo eccellente ad educare il gusto nel giudicare di un autore, e vi parlerò delle altre situazioni trasvolando su di esse; e voi dopo questa lezione sarete in grado di comprendermi a fior di labbra.


        [Ne L’Era Novella, 24-25 maggio 1872].