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Amleto/Atto quinto

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Atto quinto

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William Shakespeare - Amleto (1599)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto quinto
Atto quarto Nota

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ATTO QUINTO



SCENA I.

Un cimitero.

Entrano due beccamorti colle vanghe.

Bec. Debb’essere sepolto in terra santa chi se ne va spontaneamente all’altro mondo?

Bec. Dicoti del sì; perciò scava la di lei fossa immantinente. L’uffìziale della Corona ne ha visitato il corpo e ha detto che debbe avere sepoltura cristiana.

Bec. Come ciò, se pure per caso non si è annegata?

Bec. Ed è questo che apparisce.

Bec. S’è annegata volontariamente; non può dubitarsene, e qui cade la questione. Se io mi annego con disegno premeditato, faccio un’azione, e un’azione ha tre branche, cioè agire, fare ed eseguire: ed essendosi ella annegata da sè, lo ha fatto con discernimento.

Bec. No, ascoltami, degno scavatore.

Bec. Dammi licenza. Qui sta il fiume; bene: là l’uomo; a meraviglia. Se l’uomo va all’acqua e vi si annega, è esso, voglia o non voglia, che ci va: intendi a questo: ma se l’acqua viene all’uomo e lo annega, ei non lo fa, nè quindi è reo della propria morte, nè abbrevia la sua vita.

Bec. Ma tale è la legge?

Bec. Sì, è la legge, appoggiato dalla quale l’uffiziale della Corona ha giudicato.

Bec. Vuoi tu sapere la verità? Se la defunta non fosse stata una gentildonna, la non si saría sepolta in terra cristiana.

Bec. In questo ti apponi; ed è da deplorarsi l’abuso per cui i Grandi hanno in questo mondo il privilegio d’appiccarsi o d’annegarsi da se stessi impunemente, senza che per ciò perdano gli onori di un sepolcro santo. — Animo, mia vanga. Non sonovi gentiluomini più antichi dei giardinieri, degli scavatori e de’ becchini, che tutti esercitano la professione di Adamo.

Bec. Era Adamo gentiluomo?

Bec. Fu il primo che portasse armi. [p. 81 modifica]

Bec. Come! se non ne aveva.

Bec. Oh sei tu pagano? In che modo intendi la Scrittura? La Scrittura dice che Adamo zappò; or poteva egli zappare senza armi? Ti farò un’altra dimanda; e se non mi rispondi... confessati...

Bec. Vediamo, vediamo.

Bec. Chi è che fabbrica più solidamente, il muratore, il costruttore de’ navigli, o il carpentiere?

Bec. Quegli che fa le forche; poichè l’opera sua sorvive ai mille cadaveri che vi si appendono.

Bec. La tua risposta mi piace; le forche debbono aver la preminenza; ma a cui dovrebbersi riserbare? A quelli che fanno il male. Or tu dicendo che le forche son fabbricate più solidamente della chiesa, fai male, e bene ti starebbe la ricetta. Però seguitiamo.

Bec. Chi è che costruisce più solidamente, mi dicevi, fra il muratore, il facitore di navi, e il carpentiere?

Bec. Sì, dimmelo, e sei redento.

Bec. In verità, posso dirlo.

Bec. Animo dunque.

Bec. Per la messa, l’idea mi si intenebra.

(Amleto e Orazio mostransi in distanza)

Bec. Non tormentare il tuo cervello di più intorno a questa materia; perocchè lo stupido ciuco non accelererà il suo passo per quanto lo si batta; e allorchè ti si farà tal quistione, rispondi: è il becchino; le case che questi fa dureranno fino al dì del giudizio. Or vattene da Yaughan, e recami un bicchier di liquore.

(esce il secondo Bec.)

Bec. (scava e canta) «In mia gioventù, allorquando io amava, nulla parevami più piacevole e dolce; ma al matrimonio sentivo grande avversione, e l’avrei detto cosa buona a nulla».

Am. Non ha colui alcun sentimento di ciò che fa? ei canta scavando sepolcri?

Or. L’abitudine gli ha reso famigliare la sua professione.

Am. È vero; la mano che lavora meno, è quella che ha il tatto più squisito.

Bec. (canta) «Ma la vecchiezza avanzandosi a passo di ladro m’ha afferrato co’ suoi artigli, e trasportatomi in una terra a me ignota interamente».     (getta in aria un cranio)

Am. Quel cranio ebbe un tempo una lingua che poteva cantare. Colui lo caccia contro la terra come se fosse il cranio di Caino che commise il primo omicidio. Eppur poteva essere la testa di [p. 82 modifica]qualche politico quella che vien così bistrattata; la testa di qualcuno che forse si credeva atto ad ingannare lo stesso Iddio. Di’, non è questo possibile?

Or. È possibile, signore.

Am. O di un Cortigiano che sapeva recitare tutte le mattine buon giorno, mio signore! Come sta Vostra Altezza? Forse anche di tale chi vantava il cavallo del suo amico allorchè gliele voleva dimandare; non può essere anche così?

Or. Sì, mio signore.

Am. Ah sì, certamente; ed ora appartiene a monsignor Verme, scarna, deforme e mutilata dalla vanga brutale di un becchino! Accadono in questa terra strani rivolgimenti, se occhi abbastanza buoni avessimo per vederli! Quelle ossa son dunque di sì poco prezzo, che servir debbano a’ trastulli di un miserabile?.. Le mie fremono pensandovi.

Bec. (canta) «Una vanga, una vanga e un lenzuolo disteso; una fossa nella terra, e basta ad un tal ospite».

(getta in aria un altro cranio)

Am. Eccone un altro. Sarebbe forse il cranio di un avvocato? Dove son ora le sue cabale, le sue sottigliezze, i suoi sofismi? Perchè permette che questo crudele gli trinci così la testa colla sua zappa infangata? Perchè non gli muove piato per vie di fatto? Oimè! era forse invece un gran trafficatore di terreni, colle sue obbligazioni, le sue cauzioni, i suoi laudemii, i suoi patti di ricupera. Ecco a che si ridusse tutta la sua avidità: a raccoglier dal sepolcro un cranio pieno di polvere! Le sue cauzioni e doppie cauzioni non gli assicureranno adunque di tutti i suoi contratti che uno spazio della lunghezza e della larghezza di due cedoloni? I titoli di tutte le sue compere starebbero a mala pena nel suo sepolcro, nè il suo erede ne conserverà dì più.

Or. Neppure un pollice, signore.

Am. La pergamena non si fa colla pelle del montone?

Or. Si fa, signore; ed anche con quella del vitello.

Am. Ebbene, più stupidi di quegli animali sono coloro che fondano la loro felicità sopra un volume di esse. — Vo’ parlare a quell’uomo. — Di chi è questa fossa, marraiuolo?

Bec. Mia, signore... (canta) «una fossa nella terra, e basta ad un tal ospite».

Am. Credo infatti che sia tua perchè vi stai dentro1. [p. 83 modifica]

Bec. Voi state fuori di essa, e perciò non è vostra: per mia parte io non sto in essa, sebbene sia mia.

Am. Menti, essendo in essa, e dicendo che è tua; è pei morti, non pei vivi; perciò menti.

Bec. È un’alacre mentita questa che mi date, signore, e ve la renderò.

Am. Per qual uomo scavi la fossa?

Bec. Non per un uomo, signore.

Am. Per qual donna dunque?

Bec. Nè per una donna tampoco.

Am. Chi debbe esser sepolto in essa?

Bec. Una che fu una donna, signore; ma, pace alla sua anima, ella è morta.

Am. Come rigido è nel suo linguaggio costui; discorriamogli con precisione, o diverremo trastullo de’ suoi equivochi. Per Iddio, Orazio, da tre anni, lo vo notando, il secolo in cui viviamo s’incivilisce ogni dì; e la scarpa puntuta del bifolco incalza sì dappresso il piede del cortigiano, che in breve gli squarcierà il tallone. — Da quando in qua fai il beccamorti?

Bec. Sempre dal dì in poi che il nostro ultimo re Amleto vinse Fortebraccio.

Am. E quanto tempo sarà?

Bec. Non lo sapete? Non v’è imbelle che non sia in istato di dirvelo. Fu in quel dì ancora che nacque il giovine Amleto, che, diventato pazzo, è stato spedito in Inghilterra.

Am. Veramente? E perchè spedirlo in Inghilterra?

Bec. Perchè era pazzo; là troverà il senno; o, se non lo trova, non vi sarà gran male.

Am. Perchè?

Bec. Perchè nessuno s’accorgerà che sia insensato, essendo, come lui, pazzi tutti gli abitanti di quel paese. — Sono ormai trent’anni dacchè, fra celibe e maritato, compio qui gli uffici di marraiuolo.

Am. Quanto tempo rimane un uomo sepolto prima d’esser distrutto?

Bec. Se non è consumato dai vizi avanti di morire, avvegnachè veggiamo mille corpi logori che ci cadono a brani fra le mani, si conserverà otto o nove anni. Un pellicciaio dura sempre un novennio.

Am. Perchè un pellicciaio più che un altro?

Bec. Perchè? Perchè la sua pelle è indurita come il cuoio che adopera, e rimane lunga pezza impenetrabile all’acqua, che [p. 84 modifica]distrugge e dissolve in breve tempo un cadavere. — Guardate, quest’è il cranio d’un uomo sepolto son già ventitre anni.

Am. E chi era?

Bec. Il più bizzarro spirito; chi credereste?

Am. Affè, non saprei.

Bec. La peste venga al mentecatto e alla sua follia! Un dì mi versò una bottiglia di Reno sulla testa. Questo cranio, signore, fu di Yorick, buffone del re.

Am. Questo?     (prendendolo)

Bec. Sì, questo.

Am. Oimè! povero Yorick!... L’ho conosciuto, Orazio; un buffone compagnevole, l’immaginazione più feconda. Ei m’ha portato mille volte fra le braccia; ed ora la sua vista m’empie d’orrore e mi fa battere il petto! Qui stavano quelle labbra che ho baciate non so quante volte... Povero Yorick! dove son ora i tuoi motti, i tuoi canti, le tue follie che rallegravano le brigate che ti circondavano? Neppure puoi ora schemire a questo sconsolato tuo ghigno. Non più gote, non più bocca... va ora a posare nel gabinetto della mia bella, e dille che tutto il suo minio non la sottrarrà a sì graziosa catastrofe. Fa che rida di questa idea. — Pregoti, Orazio, dimmi una cosa.

Or. Quale, signore?

Am. Credi tu che Alessandro avrà sì trista fisonomia sotto terra?

Or. Lo credo.

Am. E anche uguale odore? ah!                         (getta il cranio)

Or. Lo stesso, signore.

Am. A quai vili usi convien che ritorniamo, Orazio! Perchè non potrebbe l’immaginazione seguire le auguste ceneri di Alessandro, finchè impiegate non le vedesse nell’empiere il foro di un cocchiume?2

Or. Sarebbe questo un considerar la vita troppo bizzarramente.

Am. No, in verità, non è così. Possiamo con molta modestia imaginare in tale stato anche Alessandro, e dire: Alessandro morì, Alessandro fu sepolto, Alessandro ritornò polvere; la polvere è terra; colla terra si forma l’argilla; e perchè questa argilla, composta in parte colle ceneri di lui, adoprata non potrebbe essere per la formazione di un turacciolo? «Il gran Cesare, morto e convertito in atomi, non val più che ad impedire il soffio di brezze assiderate. Oh! quell’argilla, che tenne in freno il mondo, rende [p. 85 modifica]or compatte le pietre di una capanna in ruina». — Ma, taciamoci, taciamoci, e andiamo in disparte. — S’avanza il re. (Entrano sacerdoti in processione, recanti il corpo d’Ofelia; Laerte, e i piagnoni la seguono; il re, quindi la regina ecc. ecc.) La regina e i cortigiani... Chi accompagnano dunque? Perchè si mutilato il rito?... Questo accenna che il corpo che seguono finì da sè con mano disperata resistenza. Era d’illustre prosapia... Andiamo in disparte, e osserviamo.     (ritirandosi con Or.)

Laer. Qual’altra cerimonia rimane?

Am. Questi è Laerte, un nobilissimo giovane. Badate.

Laer. Qual’altra cerimonia?

Sac. Le di lei esequie sono state celebrate con tutta la pompa che ci era permessa. Il genere della sua morte è dubbio, e, senza il comando dell’autorità suprema che veglia su tali cose, essa avrebbe abitata una terra profana infino al suono dell’ultima tromba. In vece di queste pietose preghiere si sarebbe gettato su di lei un po’ di sabbia e alquanti sassi, nè gli onori delle vergini avrebbe ottenuti, nè il suo sepolcro sarebbe stato coperto di ghirlande di fiori, nè vi sarebbe entrata al tocco de’ sacri bronzi con riti onorati e sacri.

Laer. Null’altro rimane da compiere?

Sac. Null’altro. Profaneremmo l’ufficio dei morti cantandone l’inno funebre, augurandole il riposo riservato all’anime innocenti, che abbandonarono la vita in pace.

Laer. Deponetela dunque in terra, e possano sul di lei casto corpo, pieno di vezzi e d’innocenza, fiorire le amabili viole! Tu, sacerdote spietato, io tel predico, mentrechè mia sorella riempirà il ministero di un angelo dinanzi all’Essere Supremo, tu ruggirai nel fondo dell’abisso.

Am. Oh! Fu la bella Ofelia?

Reg. (spargendo fiori) Le dolci cose alla dolce bellezza. — Addio! Speravo darti in isposa al mio Amleto; speravo adornare il tuo letto nuziale con questi fiori, non la tua tomba.

Laer. Mille flagelli accumulati cadano sulla testa maledetta dell’uomo, il cui empio delitto t’ha privata della ragione, dello spirito più raro! Aspettate; prima che la si cuopra di terra vo’ abbracciarla anche una volta... (salta nella fossa) Ora gettate la creta sull’estinta e sul vivo, finchè elevata abbiate su di noi una montagna che superi l’antico Pelia o la turchina vetta d’Olimpo che si nasconde nei cieli.

Am. (avanzandosi) Chi è quegli il cui dolore s’esprime con tale enfasi? e le cui grida lamentevoli sospendono il corso degli astri, [p. 86 modifica]che stupiti soffermansi per intenderle? Eccomi, son io, il danese Amleto.     (salta egli pure nella fossa)

Laer. L’inferno prenda l’anima tua!     (afferrandolo)

Am. Non preghi bene; ma, te ne scongiuro, non stringermi per la gola così, perocchè sebbene io non sia nè frenetico, nè temerario, pure è in me qualche cosa di pericoloso che la tua saviezza debbe paventare. Togli queste tue mani.

Re. Divideteli.

Reg. Amleto, Amleto!

Tutti. Signori.....

Or. Mio buon principe, calmatevi.

(vengono divisi, ed escono dalla tomba)

Am. Combatterò per sì bella causa finchè gli occhi mi restino immobili nella testa.

Reg. Oh mio figlio! Qual causa?

Am. Amavo Ofelia; la tenerezza di mille fratelli uniti non eguaglia il mio amore. — Che farai tu per lei?     (a Laer.)

Re. Oh egli è insensato, Laerte.

Reg. Per l’amor di Dio, perdonategli.

Am. Affè, dimmi quel che vuoi fare. Vuoi piangere? Vuoi combattere? Vuoi morir d’inedia? Vuoi sbranarti colle tue mani? Vuoi ber fiele o trangugiare un serpente? Lo stesso io pure, tutto questo farò. Venisti qui solo per esalar querimonie? per disfidarmi precipitandoti nella sua fossa? Vuoi esser sepolto vivo con lei? Io pure lo voglio. Tu parli di montagne di creta? Ebbene, si accumulino su di noi milioni di jugeri di terra, onde il nostro sepolcro s’innalzi fino alla zona torrida, e faccia apparir l’Orsa simile a un nano. — Se irrompi in impeti forsennati, la rabbia mia eguaglierà la tua.

Reg. Quel ch’ei dice non è che follia: il delirio lo terrà soggetto per qualche tempo; poi diverrà placido come la colomba che cova i nati suoi implumi e ciechi ancora. Allora lo vedrete assidersi assorto in tetro silenzio.

Am. Udiste, signore? Qual ragione avete per adoperar meco così? Io vi ho sempre amato; ma non vale. — Ercole stesso spieghi tutta la sua forza, il gatto miagolerà, e il cane avrà il suo giorno.      (esce)

Re. Pregoti, buon Orazio, attendi a lui. — (Or. esce) Siate paziente (a Laer.) pensando a quello che dicemmo; i nostri disegni avran compimento. — Cara Gertrude, ponete qualcuno alla custodia di vostro figlio. — Questa tomba sarà fregiata di monumento durevole. — Rivedremo in breve giorni sereni e tranquilli... fino che non siano venuti, non adoperiamo che pazienza. (escono) [p. 87 modifica]

SCENA II.

Una sala nel palazzo.

Entrano Amleto ed Orazio.

Am. Basta su di ciò, Orazio; passiamo ad altro. Vi ricordate di tutte le circostanze?

Or. Me ne ricordo, signore.

Am. Amico, il mio cuore era in preda a interni combattimenti che cacciavano il sonno da’ miei occhi; io era più infelice d’un marinaio inceppato entro il naviglio che tante volte guidò. Per una arditezza..... siano lodi all’ardire....! perocchè è bene che sappiamo che spesso la nostra indiscrezione ci serve a meraviglia, mentre i nostri disegni, più profondamente meditati, vanno sperduti; e, questo c’insegna che v’è un Dio la di cui mano informa e conduce a termine i nostri divisamenti, per quanto grossolane ne siano le bozze fatte dall’uomo.

Or. Non vuol dubitarsene.

Am. Esco dalla mia stanza avviluppato nel mio mantello, e fra l’oscurità penetro fino al loro appartamento. Tutti i miei desiderii si compiono. Esamino le loro carte, me ne impossesso, e rientro nelle mie stanze. Là, i miei timori e i miei sospetti dimenticano ogni ritegno: e audace abbastanza per rompere i suggelli sovrani, m’accorgo di un tradimento di re! d’un comando dato per molte ragioni diverse, come l’interesse della Danimarca, della Gran Bretagna, ecc... e una quantità di timori nudriti pel mio carattere, e per la mia vita, che mi dannano a morte appena giunto in Inghilterra.

Or. Oh che dite?

Am. (dandogli i dispacci) Ecco la commissione fatale; leggila a tuo agio. — Ma vuoi sapere come mi son comportato?

Or. Ve ne scongiuro.

Am. Così circondato di scellerati, prima anche che avessi avuto il tempo di consultare il mio cervello, egli avea di già concepito e ordinato tutto il suo disegno. Prendo la penna e scrivo un nuovo comando in bei caratteri. Credei altra volta, come tutti i Grandi, che il talento di bene scrivere avvilisse un nobile, e molta fatica mi pigliai per disfarmene; ma in questa circostanza, amico, esso mi ha reso un servizio essenziale. Vuoi saper l’effetto di quel ch’io scrissi?

Or. Sì, caro principe. [p. 88 modifica]

Am. Ho supposto una preghiera del re delle più incalzanti, indirizzata al monarca della Gran Bretagna, siccome a suo fido vassallo, con promessa che la loro mutua amicizia crescerebbe e fiorirebbe ormai come la paglia; che la pace avvincerebbe i due Stati colla sua ghirlanda di spiche, e stringerebbe fra essi nodi di unione durevole; con mille altre frasi di tal fatta, e mille proteste solenni... esigendo che all’apertura dei dispacci, e senza alcun altro esame, ei facesse morire di morte subitanea chi li portava, senza dar pur loro il tempo della confessione e del pentimento.

Or. Come poteste suggellare tal comando?

Am. Oh! fu ancora l’opera d’una provvidenza celeste. Portavo meco lo stemma di mio padre che servì di modello ai suggelli dello Stato. Piegai quindi lo scritto nella stessa forma dell’altro, e v’apposi il medesimo indirizzo e le stesse armi. Dopo ciò lo riportai nel primo luogo senza che alcuno avveduto si sia del cambiamento. All’indimani avemmo quella mischia, e tu conosci il resto.

Or. Onde Guildensterno e Rosencrantz se ne vanno a morte.

Am. Non brigarono tal commissione? Amico, la mia coscienza non mi rimprovera nulla per loro. Da loro medesimi han cercata tal sorte. Pericoloso è pei vili il frapporsi alle spade incrociate e furiose di due potenti avversarii.

Or. Qual re! gran Dio!

Am. Credi tu che a me non tocchi ora di pensare al resto? Un uomo che ha avvelenato mio padre, e disonorata la madre mia; che, arrampicandosi sul trono, ha usurpato il mio seggio e le mie speranze, che ha attorniato di lacci la mia vita, e mostrata sì indegna perfidia..... Sì..... non sarà giustizia s’io il punisco con questa mano? Non sarebbe delitto il lasciare tal mostro, obbrobrio della nostra specie, vivere per nuovi misfatti?

Or. Gli verrà scritto in breve dalla Gran Bretagna l’esito della sua frode.

Am. Fra poco; ma intanto il tempo è mio, e la vita di un uomo non dipende che da una parola. — Caro Orazio, sono veramente afflitto d’aver trasceso con Laerte; perocchè veggo nella mia causa l’immagine e la giustizia della sua; vo’ riacquistarne l’amicizia; oltraggiato mi credei dall’ostentazione del suo dolore: e fu per ciò solo che la mia collera si portò a quell’eccesso.

Or. Taciamoci; chi viene?               (entra Osrico)

Osr. Rendo grazie al Cielo del ritorno di Vostra Altezza in Danimarca.

Am. Vi son grato, signore. — Conosci (a Or.) questa zanzara? [p. 89 modifica]

Or. No, principe.

Am. Tanto meglio per te; è un peccato il conoscerlo. Un uomo è costui che possiede molte terre, e terre fertili. Sia pure stolido il ricco, e domini sopra gente imbelle, sarà sempre ammesso alla mensa del re. — Non è che un insetto ronzante; ma, come tel dissi, possiede molto fango.

Osr. Mio grazioso principe, se Vostra Altezza ne avesse l’agio, avrei qualcosa da comunicarle per parte di Sua Maestà.

Am. L’ascolterò con tutta l’attenzione di cui sono capace. — Ma adoperate il vostro cappello al suo vero uso; esso è fatto per coprire il capo.

Osr. Vi ringrazio della vostra bontà, signore. Fa però gran caldo.

Am. No, credetemi; fa gran freddo. Il vento soffia dal nord.

Osr. È vero, è vero, signore, fa gran freddo.

Am. Parmi nondimeno che il tempo sia tempestoso, esso riscalda il mio temperamento.

Osr. Riscalda eccessivamente, signore. Il caldo è a un grado che non saprei esprimere. — Ma, Altezza, Sua Maestà m’ha imposto di annunziarvi che fece per voi una pingue scommessa. Ecco qual’è.

Am. Vi prego, ricordatevi... (accennandogli di coprirsi il capo)

Osr. No, in verità, mio buon signore, fo il mio piacere. — È da poco ritornato in corte Laerte, cavaliere perfetto, pieno delle più eminenti doti, che potrebbe servir di bussola e di calendario a tutti gli altri nobili. In lui trovansi tutte le qualità che un gentiluomo può desiderare di vedere e d’imitare.

Am. Veramente il suo merito non perde nulla nella vostra bocca; sebbene io sappia che, a fare la enumerazione di tutti i suoi pregi, l’aritmetica e la memoria non basterebbero; dopo mille sforzi, non se ne sarebbero esaurite le ricchezze. Ma, per parlar la vera lode, è un sublime giovine di natura sì egregia e rara, che il simile solo può vedersene nel di lui specchio; e tutti quelli che vogliono imitarlo non sono che la sua ombra, e nulla più.

Osr. Vostra Altezza lo stima al suo giusto valore.

Am. E per qual motivo, amico?... Perchè insistiamo a parlare di quel giovine cavaliere?

Osr. Signore...

Or. Non è egli possibile di rendersi intelligibili con lingua più semplice? Credo che lo possiate facilmente.

Am. Qual motivo v’ha fatto nominare il giovine Laerte?

Osr. Laerte? [p. 90 modifica]

Or. (a parte) Ha esaurita la materia; e tutte le sue parole dorate sono spese.

Am. Sì, Laerte.

Osr. So che non siete ignorante...

Am. (a parte) Vorrei che voi pure nol foste; se bene ciò poco accrescesse le mie lodi. — Ebbene, signore?

Osr. Non siete ignorante del valore di Laerte.

Am. Non oso dire di conoscerlo perfettamente; poichè sarebbe un eguagliarmi a lui; avvegnachè ben non si conosca un altro uomo se prima non si conosce se medesimo.

Osr. Voglio parlare della sua abilità nelle armi. Dal giudizio di tutti quelli che lo han veduto, ei non ha in ciò rivali.

Am. Di quali armi dite?

Osr. Spada e pugnale.

Am. Sono due; ma non importa.

Osr. Signore, il re ha scommesso contro di lui sei cavalli barberi, e contro questi Laerte ha deposto sei spade, e sei stili di Francia coi loro addobbi; tre dei quali fanno piacere a vedersi; l’immaginazione non può apprezzarli secondo il loro giusto merito; è l’opera più splendida e più ingegnosa che mai imaginasse un artefice.

Am. Sei cavalli barberi, contro sei spade e sei stili di Francia, vengono scommessi fra il re di Danimarca e il cavalier francese. Ma l’oggetto della scommessa qual è?

Osr. Il re, signore, ha detto che in dodici assalti fra voi e Laerte questi non vi avrebbe dati più di tre colpi; dall’altro canto Laerte scommette che vi colpirà dodici volte in soli nove assalti; e la contesa sarà tosto decisa, se Vostra Altezza degna darmi una risposta.

Am. Ebbene, vi rispondo del no.

Osr. Voglio dire, signore, se consentite ad accettar la sfida.

Am. Io continuerò a passeggiare per questa sala, se Sua Maestà lo permette, e vi respirerò l’aria, come è mio costume, in questa ora del dì. Si rechino qui i fioretti, e se il gentiluomo persiste nella sua sfida e il re nel suo disegno, guadagnerò per questi la partita, o andrò coperto d’ignominia.

Osr. Signore, recherò la vostra risposta in questi termini?

Am. Il fondo ne è questo, che voi potrete poi ornare con tutte le grazie del vostro spirito.

Osr. Mi raccomando umilmente a Vostra Signoria.      (esce)

Am. Tutto è per voi. — A meraviglia adopera raccomandandosi da sè: non troverebbe altra voce che ciò si assumesse. [p. 91 modifica]

Or. Quell’uomo rassomiglia all’uccello che fugge dal nido con la conchiglia dell’uovo ancora sul capo.

Am. Egli è sì civile, che fece al certo un complimento al seno di sua madre prima di suggerne il latte. Simile a mille altri idoli di un secolo corrotto, ha preso il tuono del giorno; un far facile e leggero, una specie di spuma vivace dello spirito che inebbria in principio, e sorprende la stima degli uomini più sensati; ma che, scrutata addentro, trovasi vuota come la bolla di sapone che si sperde al primo soffio.     (entra un gentiluomo)

Gen. Signore, Sua Maestà si è raccomandata a voi col mezzo del giovine Osrico, che gli ha reso per risposta che l’avreste aspettato in questa sala. Ei mi manda per sapere se volete provarvi tosto con Laerte, o ritardar l’assalto.

Am. Sono costante nelle mie risoluzioni, che trovansi sottomesse al piacere del re. Se quest’ora è a lui congrua, lo è a me pure; questa o ogni altra, purchè mi trovi ben disposto, come adesso.

Gen. Signore, il re e la regina verranno con tutta la corte.

Am. Bene sta.

Gen. Prima dell’assalto la regina desidererebbe che indirizzaste a Laerte alcune parole benevoli e graziose.

Am. L’insegnamento è ottimo.                                   (il Gen. esce)

Or. Voi perderete questa scommessa, principe.

Am. Non lo credo. Da che egli è in Francia mi sono continuamente esercitato, e vincerò. Ma non puoi credere quali angoscie opprimano il mio cuore... se mi fermassi ad una idea...

Or. Quale idea, mio buon signore?

Am. Follia, follia. — E’ sono presagi buoni ad atterrir le femmine.

Or. Se la vostr’anima prova qualche ripugnanza, obbedite a sì fatta impressione. Preverrò l’arrivo del re e della corte dicendo che non siete ben disposto.

Am. No, no, disprezzo questi cattivi presentimenti. Un passero non cade dall’aria senza ordine speciale della Provvidenza. Se la mia ora è venuta, venir non debbe; se venir non debbe, è venuta; e se non adesso, verrà; l’arduo è nell’esservi parato. Poichè niun uomo sa, abbandonando la vita, quel ch’ei lasci nell’avvenire, che importa il morir prima o dopo? Passiamo oltre. (Entrano il Re, la Regina, Laerte, Osrico, Gentiluomini e seguito, con fioretti, ecc.)

Re. Venite, Amleto, venite, e prendete questa mano che vi presento.     (gli fa stringere la mano di Laerte) [p. 92 modifica]

Am. Perdonatemi, signore, se vi ho offeso, ma perdonatemi da gentiluomo d’onore. Quell’augusta assemblea sa, e voi non potete ignorarlo, da qual funesto smarrimento il mio spirito è oppresso. Se ciò che ho fatto ha potuto offendere il vostro cuore, o il vostro onore, e svegliare il vostro cruccio, dichiaro qui che fu effetto della mia follia. Fu forse Amleto che offese Laerte? No, Amleto non fu. Se lo sfortunato Amleto in sè non era, e insultò Laerte allorchè non conosceva se medesimo, Amleto non è autore di tal’azione, ed ei la disconfessa. L’autor dunque chi n’è? La sua sventura. Onde Amleto è del partito, che ha cagione di lagnarsi. — Infelice Amleto! La tua follia è la tua nemica. — Permettete, signore, che dinanzi a questi venerabili testimoni io mi scolpi d’ogni rea intenzione, e la vostr’anima generosa si degni di assolvermi come se, scoccando a caso una freccia, avessi avuto la sventura di ferire un mio fratello.

Laer. Il mio cuore vi perdona; e la natura, che in questa occasione era la prima a chieder vendetta, è soddisfatta; ma l’onore mi ritiene e m’impedisce una perfetta riconciliazione, finchè gli antichi e venerabili arbitri dell’onore non diano il loro voto, e non nominino un giudice di pace, che dichiari che il mio nome è senza macchia. In fino che ciò non avvenga, la mia amicizia risponde a quella che m’offerite, e ch’io rispetterò.

Am. Il mio cuore riceve con affetto questa assicurazione, e combatterò con voi colla lealtà di un fratello. Cominciamo; datene i fioretti.

Laer. Uno a me.

Am. Laerte, non servirò che a farvi risplendere; la vostra perizia alle prese colla mia ignoranza brillerà come una stella sul fosco velo della notte.

Laer. Voi vi fate beffa di me, principe.

Am. No, lo giuro su questa mano.

Re. Date loro i fioretti, giovine Osrico. Nobile Amleto, principe del mio sangue, voi sapete qual’è la scommessa.

Am. Lo so, signore; Vostra Maestà ha sostenuto il debole.

Re. Nutro più lieta speranza. Conosco la forza dell’uno e dell’altro; ma essendosi Laerte addestrato, abbiamo poste alcune condizioni alla scommessa, onde renderla eguale.

Laer. Questo fioretto è troppo pesante, vediamone un altro.

Am. Il mio mi piace; son tutti della medesima lunghezza?

Osr. Sì, mio buon principe.

Re. Coprite questa tavola di tazze di vino. Se Amleto vibra primo il colpo o lo respinge, il fuoco dell’artiglieria proclami la [p. 93 modifica]sua vittoria. Il re berrà una tazza alla miglior salute di Amleto, e tufferà in essa una perla di maggior prezzo di quelle che sono state portate da quattro successivi re sulla corona della Danimarca. — Si rechino le tazze; e gli oricalchi annunzino alle trombe, le trombe ai cannoni, i cannoni al cielo, e il cielo alla terra che il re beve alla salute d’Amleto. — Orsù, cominciate... e voi giudici fissate su di loro un occhio attento.

Am. Cominciamo, signore.

Laer. Cominciamo, principe.               (schermiscono)

Am. Una.

Laer. No.

Am. Si giudichi.

Osr. Sì, il colpo fu visibile.

Laer. Ebbene, riprendiamo.

Re. Aspettate; datemi da bere. Amleto, questa perla è tua, bevo alla tua salute. — Dategli una coppa.

(squillo di trombe e salva dell’artiglieria)

Am. Vo’ prima fare un nuovo assalto; portate lungi questa tazza. Animo; anche un colpo; che ne dite?

(schermiscono di nuovo)

Laer. Rimasi tocco, rimasi tocco, lo confesso.

Re. Nostro figlio vincerà.

Reg. Ei non ha più lena. — Vieni, Amleto, prendi questa pezzuola; asciuga la tua fronte: la regina beve di cuore alla tua salute.

Am. Buona madre...

Re. Gertrude, non bevete.

Reg. Voglio bere, signore; vi prego di perdonarmi.

Re. (a parte) È la tazza avvelenata... ma è troppo tardi!

Am. Non oso ancora bere, signora, fra poco lo farò.

Reg. Vieni, lascia ch’io t’asciughi il viso.

Laer. (al re sommessamente) Maestà, lo ferirò ora?

Re. Non ti sembra il momento?

Laer. (come sopra) Quantunque ciò sia contro la mia coscienza.

Am. Animo alla terza, Laerte. Voi vi fate scherno di me. Pregovi, spiegate tutte le vostre forze; volete trattarmi come un fanciullo?     (riprendono la sfida)

Laer. Poichè così dite, andiamo.

Osr. Nulla, nè da un lato, nè dall’altro.

Laer. Tocca a voi ora. (Laerte ferisce Amleto; quindi nel calore della mischia mutano armi, e Amleto ferisce Laerte) [p. 94 modifica]

Re. Divideteli, son troppo sdegnati.

Am. No, riprendiamo.                         (la Regina cade)

Osr. Attendete alla regina; oh cielo!

Or. Sono feriti entrambi. — Come state, mio principe?

Osr. Come avvenne ciò, Laerte?

Laer. Rimasi preso nelle mie reti come un uccello, Osrico, giustamente rimango ucciso pel mio tradimento.

Am. Come sta la regina?

Re. Ella svenne, vedendo scorrere il sangue.

Reg. No, no, fu la bevanda, la bevanda... Ah mio caro Amleto! la bevanda, la bevanda: sono avvelenata!      (muore)

Am. Oh scelleraggine!... Chiudansi le porte! si cerchi il traditore... dov’è?     (Laerte cade)

Laer. Qui, Amleto; Amleto, tu sei ucciso; alcuna medicina del mondo non può salvarti; mezz’ora di vita appena ti rimane; il perfido istrumento della tua morte ti sta in pugno... Vedi quel ferro non ispuntato?... L’estremità sua fu intrisa di veleno. L’infame mia frode ricadde su di me. Mira, io giacio qui, nè mai più sorgerò... Tua madre fu avvelenata... non ho più forze... il re, il re è colpevole.

Am. Avvelenato anche il ferro!... Fa allora, o veleno, l’opera tua.     (trafigge il Re)

Osr. e Gen. Tradimento! tradimento!

Re. Oh! difendetemi, amici, son ferito soltanto.

Am. Sposo incestuoso, vile avvelenatore, abbominevole re, tracanna questa bevanda. Sei fedele così? Segui ora mia madre.      (il Re muore)

Laer. Egli ha la sorte che merita; in quella tazza era un veleno apprestato dalle sue mani. — Nobile Amleto, ricambiamoci il nostro perdono. La mia morte, e quella di mio padre non ti siano imputate a delitto; nè la tua a me.     (muore)

Am. Il Cielo ti perdoni! Ti seguirò. — Io muoio, Orazio. — Sfortunata regina, addio. — Voi, pallidi e muti spettatori di questa scena di sangue, voi tremate all’immagine di tanti delitti... Ah! ne avessi io il tempo... vorrei dirvi... ma la morte esecutrice spietata dei decreti della giustizia li compie senza dimore... m’è forza il sottomettermi. — Orazio, io muoio... tu vivi, redimi... redimi la mia memoria dinanzi a quelli che mi condannano.

Or. No, nol crediate. Nato danese, ho in petto il cuore d’un antico romano; il liquore non è finito.

Am. Se sei un uomo, cedi a me quella tazza; dammela... [p. 95 modifica]del Cielo, vo’ averla. — Oh Dio! — Orazio, le cose essendo così sconosciute, qual nome abborrito non lascierei dietro di me? Differisci per qualche altro dì ancora la tua felicità celeste; acconsenti a trascinare qualche altro tempo in questo odioso mondo la tua penosa esistenza onde narrare l’istoria mia. (si ode da lungi il suono di una marcia e alte grida) Che romor guerriero è questo?

Osr. Il giovane Fortebraccio riede vincitore, onusto delle spoglie polacche. È desso che onora con questa salva guerriera l’arrivo degli ambasciatori inglesi.

Am. Oh! io muoio, Orazio. Questo operoso veleno spegne la mia vita, nè tanta me ne resta da intendere le novelle d’Inghilterra; ma predico che la nuova scelta cadrà su Fortebraccio. Egli ha il mio voto moribondo; annunziategli per me le varie tristizie che m’han condotto... Il resto... è un eterno silenzio.

(muore)

Or. Ora scoppia il più nobile cuore! Amabile principe, addio; i concerti degli angeli t’invitino al tuo eterno riposo!..... Ma perchè questo crescente romore?... (marcia al di dentro; entra Fortebraccio cogli ambasciatori inglesi, ed altri)

Fort. Dov’è? Dov’è?

Or. Che cosa volete vedere? Se vi compiacete nel contemplare un misto spaventoso di mali, d’orrori e di delitti, esso vi sta innanzi.

Fort. Questa carnificina grida vendetta! — Oh cruda morte! Quali vivande potranno imbandirsi al tuo eterno banchetto dopo la strage di tanti principi?

Amb. Questa vista è tremenda! E i dispacci che rechiamo d’Inghilterra giungono troppo tardi; le orecchie che dovevano intenderli sono insensibili, e chiuse per sempre. Se ora dico al re che i suoi comandi furono eseguiti, che Rosencrantz e Guildensterno più non esistono, chi ci ringrazierà?

Or. Non egli il potrebbe, quand’anche la sua lingua fosse tuttavia animata, perchè non mai diè l’ordine della loro morte. Ma poichè qui v’incontrate, voi reduci delle guerre di Polonia, e voi venuti d’Inghilterra, per udire spiegare questo sanguinoso dramma, comandate che i loro corpi siano esposti alla vista del popolo sopra letti da ciò, e allora io istruirò il mondo della cagione sconosciuta di questi avvenimenti. Mi udirete allora parlare di opere crudeli, sanguinose, empie; di sentenze che il caso ha dettate, d’omicidii ch’esso ha condotti, di morti che son frutto della violenza e della frode; e in questo tragico fine vedrete i reati [p. 96 modifica]andare delusi, e ricadere sulla testa dei loro autori. Io son unico depositario di queste deplorabili verità.

Fort. Affrettiamoci ad udire questo racconto, e raduniamo i nobili dello Stato. Per me, accetto con dolore i doni della fortuna, ma vanto diritti antichi su questo regno, che gl’interessi miei m’inducono a sostenere.

Or. Mi converrà parlarne, e vi darò il voto dell’uomo che con sè trascinerà quello degli altri. Però non differite; e in questo momento di commozione in cui tutti gli spiriti sono desti e dubbiosi, prevenite le sventure che l’intrigo e l’errore possono causare.

Fort. Quattro ufficiali rechino Amleto, come si addice ad un guerriero, sopra la sua bara. S’egli avesse regnato, il trono sarebbe stato empito senza dubbio da un gran re. Al di lui passaggio, la musica marziale e gli onori della guerra lo esaltino. — Prendete anche questi corpi. — Tale spettacolo si converrebbe ad un campo di battaglia, ma è qui funesto. Ite; comandate all’esercito una salva generale (marcia funebre; escono, trasportando gli estinti; dopo di che si ode il suono delle campane, e il saluto dell’esercito al nuovo re).



fine della tragedia.


Note

  1. È qui e in quello che segue un giuoco di parole che versa nella somiglianza dei due verbi to lye, giacere e to lye, mentire.
  2. Bunghole