Amleto (Rusconi)/Atto secondo/Scena II

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Scena II

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William Shakespeare - Amleto (1599 / 1601)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1901)
Scena II
Atto secondo - Scena I Atto terzo - Scena I

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SCENA II

Una stanza nella reggia.

Entrano il Re, la Regina, Rosencrantz, Guildenstern e SEGUITO.


RE.
Siate i benvenuti, caro Rosencrantz e Guildenstern! Senza parlare del gran desiderio che avevamo di vedervi, il bisogno che di voi abbiamo, fece che vi chiamassimo così di fretta. Avrete inteso dir qualche cosa della trasformazione di Amleto; io la chiamo così, dappoichè nè l’uomo esterno, nè l’interiore somigliano più a quello ch’ei fu. Cosa possa essere stato più che la morte di suo padre, che lo ha così messo fuori di sè, non saprei immaginare, e supplico entrambi voi, che cresceste con lui e siete di età eguale, e aveste in comune i sollazzi e le discipline, di fermarvi a questa nostra corte per un po’ di tempo, e di cercare colla vostra compagnia di tirarlo ai piaceri, e di sapere (profittando per ciò di tutte le occasioni) se il suo dolore [p. 34 modifica]dolore non abbia qualche causa recondita alla quale noi potessimo porre riparo.
REGINA.
Buoni signori, egli ha parlato molto di voi; e sono sicura che non vi sono due altri uomini che egli ami tanto. Se volete essere così buoni da passare con noi qualche tempo per ajutarci, la vostra visita otterrà quelle ricompense che sa dare la riconoscenza di un re.
ROSENCRANTZ.
Le Vostre Maestà hanno su di noi un potere sovrano, e potrebbero imporci quello di cui vogliono pregarci.
GUILDENSTERN.
Obbediremo entrambi e qui ci poniamo a vostra intera disposizione. Ordinate.
RE.
Grazie, Rosencrantz e gentile Guildenstern.
REGINA.
Grazie Guildenstern e gentile Rosencrantz: e vi prego di andar a far visita tosto a mio figlio troppo mutato. Qualcuno di voi (al seguito) vada ad accompagnare questi signori dal principe Amleto.
GUILDENSTERN.
Dio voglia che la nostra presenza e le nostre parole gli riescano accette!
REGINA.
Iddio lo voglia! (Escono Rosencrantz, Guildenstern e alcuni del seguito.)

Entra Polonio.

POLONIO.
Signore, gli ambasciatori sono tornati dalla Norvegia lietissimi.
RE.
Tu fosti sempre il padre delle buone novelle.
POLONIO.
Veramente, signore? Siate sicuro, mio buon sovrano, che nella mia anima son di egual pondo il dovere che mi lega al re, e quello che mi lega a Dio, ed io credo (o altrimenti questo mio cervello ha smarrito della sua sagacità politica) di aver trovato la causa vera della trasmutazione di Amleto.
RE.
Oh! ditecela, anelo di conoscerla.
POLONIO.
Prima date udienza agli ambasciatori; le mie novelle verranno poi come le frutta di questo lauto banchetto.
RE.
Fa ad essi gli onori, e introducili tu stesso. (Polonio esce.) Egli dice, mia cara Regina, che ha scoperto la cagione dell’infermità di vostro figlio.
REGINA.
Temo non ve ne siano altre che la morte di suo padre ed il nostro imeneo tanto affrettato.
RE.
Bene, lo indagheremo. (Rientrano Polonio, Voltimando e Cornelio.) Siate i benvenuti, buoni amici! Parlate, Voltimando: che dice il nostro fratello di Norvegia?
VOLTIMANDO.
Ei ricambia i cortesi augurii e i saluti. Appena giunti colà egli mandò a interrompere le leve di suo nipote, che egli credeva si facessero contro i Polacchi; però, meglio scandagliata la cosa, conobbe che [p. 35 modifica]erano rivolte contro Vostra Maestà. Sdegnato che si abusasse così della sua vecchiaja, delle sue infermità, della sua impotenza, volle fare arrestare Fortebraccio, che, venuto in presenza del re, ebbe fieri rimproveri, e giurò di deporre ogni idea di guerra contro Vostra Maestà. Il vecchio zio, commosso da quel ravvedimento, gli ha assegnato tremila scudi all’anno, e gli consente di valersi dei soldati raccolti contro la Polonia. Egli vi chiede in questo foglio (dandogli una pergamena) che vogliate concedere nei vostri dominii il passo a quelle genti per l’impresa accennata, colle condizioni e guarentige che sono qui registrate.
RE.
La cosa ci piace, e in tempo più opportuno leggeremo questo scritto, mediteremo il suo contenuto, e risponderemo. Frattanto vi ringraziamo dell’opera vostra così felicemente riuscita; andate a riposare; questa notte banchetteremo insieme: siate i ben tornati! (Escono Voltimando e Cornelio.)
POLONIO.
Questo negozio è giunto a buon porto. Mio sovrano e mia signora, dimostrare cosa dovrebbe essere la sovranità o cosa l’obbedienza, perchè il giorno è giorno, la notte è notte, e il tempo tempo, sarebbe un consumare la notte, il giorno e il tempo. Perciò, dacchè la brevità è l’anima dello spirito, come le lungaggini ne sono le membra e la pompa esteriore, sarò breve. Il vostro nobile figlio è insanito; insanito io lo chiamo; imperocchè, per ben definire la vera insanìa, che è ella se non di essere null’altro che insano? Ma andiamo oltre.
REGINA.
Più sostanza e meno arte.
POLONIO.
Signora, giuro che non uso alcun’arte. Ch’egli sia insano, è vero; è vero che è male, ed è male che sia vero; una curiosa antitesi, ma accoglietela qual è, perchè io non voglio usare arte alcuna. Ammettiamo dunque che sia insano; ora rimane da discoprire la cagione di questo effetto, o, direi meglio, la causa di questo difetto, avvegnache questo effetto difettoso proceda da una causa. Ecco quel che resta a fare; e il rimanente è questo. Badate, io ho una figlia; l’ho finchè è mia; la quale, obbediente e sottomessa, attendete bene, mi ha dato questo (mostrando un foglio). Udite adesso e meditate: «Alla celeste Ofelia, idolo della mia anima, beltà divinizzata;» la frase è cattiva, pessima frase; «divinizzata» è una pessima frase;1 ma ora sentirete: «Questi versi mantenga ella nel suo nobile e bianco seno.» [p. 36 modifica]
REGINA.
Fu ciò spedito a lei da Amleto.
POLONIO.
Buona principessa, aspettate un momento; voglio essere esatto (Legge).
«Dubita che le stelle sian di fuoco; dubita che si muova il sole; dubita che bugiarda sia la verità, ma non dubitar mai del mio amore!»
»Oh! cara Ofelia, io non so far versi; non ho arte bastante per mettere in rima i miei sospiri; ma ch’io ti ami immensamente, oh! immensamente, credilo. Addio.
»Il tuo per sempre, carissima fanciulla, e finchè questo corpo mi apparterrà.

«AMLETO.»

Mia figlia, per obbedirmi, mi ha mostrato questa lettera, e prima mi aveva confidato le dichiarazioni che in vari modi e tempi ei le aveva fatte.
RE.
Ma come accolse ella il suo amore?
POLONIO.
In che conto mi avete?
RE.
In conto d’uomo fedele e onorato.
POLONIO.
Sarò lieto di mostrarmi tale. Ma che avreste pensato di me se, vedendo divampare quell’ardente fiamma... (e vi dirò che me ne ero avvisto prima anche che mia figlia me ne parlasse)... che avreste pensato di me, voi, mio sovrano, o voi, mia cara regina, se, facendola da intermediario o da emissario, o anche solo simulando di non veder nulla, o, volendo non preoccuparmene, avessi lasciato correre? Che avreste voi pensato? No, io mi posi con ardore all’opera, e così parlai alla mia giovine donzella: «Il principe Amleto si aggira in una sfera diversa dalla tua; questo non può essere.» E quindi le imposi di non vederlo più, di non ricever più nè i suoi messaggi, nè i suoi doni, e così fece. Egli respinto (abbreviamo il racconto), cadde in melanconia; poi rifuggì dai cibi; vennero quindi le insonnie, poi il languore, poi la vacuità della mente, e così a gradi a gradi entrò in quella insania che lo fa ora delirare, e che tutti deploriamo.
RE.
Credete che sia proprio così?
REGINA.
La cosa è verosimile.
POLONIO.
Fu mai tempo, desidererei di saperlo, in cui io dicessi positivamente: una cosa è così, e che poi non fosse tale?
RE.
No, ch’io rammenti.
POLONIO.
Togliete questa da queste (indicando la sua testa e le sue spalle) se la non è come dico io; se la fortuna mi ajuta troverò dove si nasconde la verità, foss’ella pur celata nel centro della terra.
RE.
Qual altro esperimento possiamo noi fare?
POLONIO.
Voi sapete ch’egli passeggia qualche volta quattr’ore di seguito in questa anticamera.
REGINA.
Questo è avvenuto talvolta, è vero. [p. 37 modifica]
POLONIO.
Allorchè ci sarà, manderò qui da lui mia figlia; noi ci nasconderemo dietro un arazzo, e udiremo quello che accade. Se egli non l’ama, e, se non è per questo motivo che ha smarrito l’intelletto, ch’io non assista più ai consigli di Stato, e sia rilegato invece a dirigere una cascina e dei pecorai.2
RE.
Faremo la prova.

Entra Amleto leggendo.

REGINA.
Guardate con quanta tristezza l’infelice si avanza leggendo.
POLONIO.
Uscite, ve ne prego, uscite entrambi; io gli parlerò subito... Oh! lasciatemi fare... (Escono il re, la regina e il seguito.) Come sta il mio buon principe Amleto?
AMLETO.
Bene, la Dio mercè.
POLONIO.
Mi conoscete, signore?
AMLETO.
Perfettamente; siete un pescivendolo.
POLONIO.
Non io, mio signore.
AMLETO.
Allora vorrei che foste un uomo tanto onesto.
POLONIO.
Onesto, signore?
AMLETO.
Sì, amico; essere onesto. alla maniera che va questo mondo, egli è essere un uomo cappato fra due mila.
POLONIO.
Ciò è verissimo, signore.
AMLETO.
Perocchè se il solo fa pullulare i vermi in un cane morto, ed essendo un bene si accoppia ad un cadavere... Avete una figlia?
POLONIO.
Sì, mio signore.
AMLETO.
Non la lasciate passeggiare al sole; il concepire è una beatitudine, ma non nel modo che potrebbe concepire vostra figlia... Amico, siate attento.
POLONIO.
Che volete voi dire? (A parte.) È sempre col pensiero a mia figlia; nullameno in principio non mi conobbe, mi crede un pescivendolo. Egli è molto giù, molto giù; e in verità, da giovine ebbi anch’io grandi peripezie per l’amore; mi ridussi quasi anch’io ad uno stato uguale. Tornerò a parlargli. — Che cosa leggete, signore?
AMLETO.
Parole, parole, parole!
POLONIO.
Di che si tratta, signore?
AMLETO.
Fra chi?
POLONIO.
Intendo di che si tratta in quello che leggete, signore.
AMLETO.
Calunnie, amico; perocchè questo vil satiro di scrittore, dice qui che i vecchi hanno la barba grigia, [p. 38 modifica]il volto aggrinzito, gli occhi stillanti un umor fetido, una specie di gomma di susino; e che mancano di cervello e che han gli stinchi fragili; le quali cose tutte, amico, sebbene io reputi verissime, pure, dico, non è onesto di scrivere; perocchè voi stesso, amico, sareste vecchio come son io, se, al pari del granchio, potreste andare a ritroso.
POLONIO.
Sebbene questa sia pazzia (a parte) vi è però in essa del metodo. — Volete uscir da quest’aria, signore?
AMLETO.
Entrando nella tomba?
POLONIO.
Affè sarebbe un uscir del tutto dall’aria. (Come sopra.) Quanto acume nelle sue risposte! La pazzia ha spesso la felicità di colpire là dove la ragione e la salute non saprebbero mai trovare il bersaglio. Vuo’ lasciarlo, e veder modo di farlo abboccar subito con mia figlia. — Mio onorato signore, prendo umilmente commiato da voi.
AMLETO.
Non potreste prendere da me alcuna cosa, amico, ch’io volessi dar più volentieri, eccetto la mia vita, la mia vita.
POLONIO.
Addio, signore.
AMLETO.
Questi nojosi vecchi pazzi!

Entrano Rosencrantz e Guildenstern.

POLONIO.
Venite a cercar del principe Amleto? eccolo.
ROSENCRANTZ.
Dio vi salvi, signore (a Polonio che esce).
GUILDENSTERN.
Mio onorato principe!...
ROSENCRANTZ.
Dilettissimo mio signore!
AMLETO.
Miei buoni, eccellenti amici! Come va Guildenstern! Ah Rosencrantz! Bravi giovani come state entrambi?
ROSENCRANTZ.
Come i figli volgari della terra.
GUILDENSTERN.
Felici in questo di non essere troppo felici; noi non siamo il bottone che risplende in cima al berretto della fortuna.
AMLETO.
Nè le suole delle sue scarpe?
ROSENCRANTZ.
Nè quelle pure, signore.
AMLETO.
Allora voi vivete presso alla sua cintura, in mezzo a’ suoi favori?
GUILDENSTERN.
Affè sappiamo cosa sono.
AMLETO.
I favori di lei? Oh è vero; la è una meretrice. Quali novelle?
ROSENCRANTZ.
Nessuna, signore, se non che il mondo è diventato onesto.
AMLETO.
Dunque è vicino il giorno del giudizio. Ma le vostre novelle non son vere. Permettete che vi faccia una dimanda più stringente. Come avete voi, miei buoni [p. 39 modifica]amici, demeritato tanto della fortuna ch’ella vi mandi qui in carcere?
GUILDENSTERN.
In carcere, signore?
AMLETO.
La Danimarca è un carcere.
ROSENCRANTZ.
Allora tutto il mondo lo è.
AMLETO.
Sì, un vasto carcere, in cui sono molte celle, stanze e segrete: e la Danimarca è una delle peggiori.
ROSENCRANTZ.
Noi pensiamo differentemente, signore.
AMLETO.
Quindi non è un carcere per voi, perocchè non vi è nulla di buono o di cattivo, fuorchè in ragione dei nostri giudizi; per me è una prigione.
ROSENCRANTZ.
È la vostra ambizione che la fa tale, essa è troppo angusta per la vostr’anima.
AMLETO.
Oh Dio! starei in un guscio di noce e mi reputerei re di uno spazio infinito, se non fosse che ho dei cattivi sogni.
GUILDENSTERN.
Tali sogni non sono che ambizione, perocche la sostanza dell’ambizione non è che l’ombra di un sogno.
AMLETO.
Anche il sogno non è che un’ombra.
ROSENCRANTZ.
Sì, e io reputo l’ambizione cosa si aerea e leggiera, che per mo non è che l’ombra di un’ombra.
AMLETO.
Laonde i nostri mendicanti sono corpi, e i nostri monarchi e i nostri vantati eroi altro non sono che le ombre di quei mendicanti. Volete che andiamo alla corte? perocchè, per l’anima mia, non posso ragionare.
ROSENCRANTZ e GUILDENSTERN.
Vi seguiremo.
AMLETO.
No davvero; io non vi confonderò col resto dei miei domestici, e, a dirvela da uomo onesto, io sono terribilmente seguito. — Ma, in nome dell’amicizia, che veniste a fare ad Elsinoro?
ROSENCRANTZ.
A rendervi visita, signore; non avemmo altro intento.
AMLETO.
Mendico ch’io sono, povero fino di ringraziamenti; ma vi ringrazio; e certo, cari amici, i miei ringraziamenti non costano due soldi.3 Non foste voi mandati a chiamare? Fu per vostra sola inclinazione? È una libera visita? Via, siate aperti con me: su, su, parlate.
GUILDENSTERN.
Che potremmo dire, signore?
AMLETO.
Oh! qualunque cosa. Ma stiamo in materia. Voi foste mandati a chiamare, e leggo una specie di confessione nei vostri occhi, che la vostra ingenuità non sa nascondere; so che il buon re e la regina vi hanno mandati a prendere.
ROSENCRANTZ.
A qual fine, signore? [p. 40 modifica]
AMLETO.
Questo spetta a voi il dirlo. Ma lasciate ch’io vi scongiuri, pei diritti della nostra amicizia, per la conformità della nostra giovinezza, per gli obblighi del nostro lungo affetto, e per tutte quelle altre cose più care che un migliore oratore potrebbe mettervi innanzi, siate franchi e aperti con me: ditemi se foste o no mandati a prendere?
ROSENCRANTZ. (a Guildenstern).
Che ne dite?
AMLETO. (a parte).
Ora vi tengo. — Se mi amate, rispondete alla mia demanda.
GUILDENSTERN.
Signore, fummo mandati a cercare.
AMLETO.
E io vi dirò perchè, così le mie parole preverranno la rivelazione della segretezza a cui eravate obbligati col re e la regina. Udite attenti.4 Io ho qui da ultimo (e non so il perchè) perduta tutta la mia giovialità, ripudiato ogni sorta di esercizi, e mi sento tale tristezza, che questa meravigliosa macchina, la terra, non mi sembra più che uno sterile promontorio; questo superbo baldacchino, l’aria, vedete... questo nobile firmamento, questa maestosa volta seminata di stelle, altro più non mi somiglia che una pestilenziale congerie di vapori. Qual capolavoro è l’uomo! Come nobile nell’intelletto! Come infinito nelle sue facoltà! Quale espressione ammirabile e commovente nel suo volto, nel suo gesto! Un angelo allorchè opera! Un Dio quando pensa! Splendido ornamento del mondo! Re degli animali!.... E nullameno che è per me questa quintessenza di polvere? L’uomo non mi alletta; no, nè la donna tampoco..., sebbene dal vostro sorriso si direbbe che nol crediate.
ROSENCRANTZ.
Signore, non mi venne neppure per ombra tale pensiero.
AMLETO.
Allora perchè sorrideste quando dissi: l’uomo non mi alletta?
ROSENCRANTZ.
Pensavo, signore, che se l’uomo non vi alletta, avreste fatto una ben magra5 accoglienza ai commedianti coi quali ci accompagnammo venendo qui, e che qui si recarono per offrirvi i loro servigi.
AMLETO.
Quegli che sostiene le parti di re sarà il benvenuto; sua maestà otterrà i miei tributi; il cavaliere di ventura adoprerà fioretto e targa; l’amoroso non [p. 41 modifica]Sospirerà gratis; il caratterista finirà in pace la sua parte; il buffone farà ridere anche coloro che hanno i polmoni impeciati; e la prima donna esprimerà tutto il suo pensiero se i versi non zoppicano. — Chi sono questi commedianti?
ROSENCRANTZ.
Quelli che piacevano tanto a Vostra Altezza, gli attori tragici della città.
AMLETO.
Come si son fatti così ambulanti? per fama e lucro si avvantaggerebbero più col risiedere in un luogo solo.
ROSENCRANTZ.
Credo che le ultime innovazioni li abbiano obbligati a ciò.
AMLETO.
Godono sempre della stima in cui erano tenuti quand’io abitavo nella città? Hanno sempre ugual concorso?
ROSENCRANTZ.
No, per verità.
AMLETO.
E come avviene? Sono in decadenza?6
ROSENCRANTZ.
No, il loro zelo non rallenta: ma vi è ora, signore, una nidiata di fanciulli, usciti appena dall’uovo, che nel dialogo più semplice declamano come invasati, e strappano così applausi frenetici. Costoro sono ora di moda, e assordano per guisa i teatri ordinari (così li chiamano), che molti, avendo al fianco la spada, han paura delle penne d’oca, e non ardiscono più di andarvi.7
AMLETO.
Come! Sono fanciulli? Chi li mantiene? Chi li paga? Seguiteranno la professione solo finchè duri loro la voce per cantare? E se in seguito divengono commedianti ordinari (cosa probabile se non hanno spedienti migliori), non potranno dolersi con ragione degli scrittori che li fanno declamare adesso contro la loro eredità?
ROSENCRANTZ.
In fede si è lavorato molto da tutte e due le parti, e la nazione non si è fatto scrupolo di metterle insieme a capelli; vi è stato un momento in cui si era sicuri di non aver nessuno in teatro, se il poeta e gli attori non venivano alle mani.
AMLETO.
Possibile?
GUILDENSTERN.
Oh! molte teste furono già squarciate.
AMLETO.
E i fanciulli la vincono?
ROSENCRANTZ.
Sì, mio principe, e vinto avrebbero anche Ercole.
AMLETO.
Non è meraviglia, poichè mio zio è re di Danimarca, e coloro che gli avrebbero fatto i versacci allorchè [p. 42 modifica]allorchè viveva mio padre, danno venti, quaranta e cento ducati per avere il suo ritratto in miniatura. Vi è in ciò qualche cosa di soprannaturale; se la filosofia sapesse discoprirlo. (Suoni di trombe al di dentro.)
GUILDENSTERN.
Ecco i commedianti.
AMLETO.
Signori, siate i benvenuti a Elsinoro. Datemi la mano. Venite; i segni di buona accoglienza sono i complimenti e le cerimonie: lasciate che io adoperi con voi in questa maniera, per tema che la mia gentilezza verso gli attori, che, ve ne avverto, deve mostrarsi grandissima, non dovesse sembrare maggiore di quella che uso con voi. Siete i benvenuti, ma mio zio-padre e mia madre-zia s’ingannano.
GUILDENSTERN.
In che, mio caro signore?
AMLETO.
Non son pazzo, altro che quando il vento spira dal nord-nord-ovest; quando vien da mezzodì, so distinguere un falco da un airone.

Entra Polonio.

POLONIO.
Salvete, signori!
AMLETO.
Udite, Guildenstern... e voi pure... ad ogni orecchio un ascoltatore. Quel gran lattante che vedete costà, non è ancora uscito dalle fasce.
ROSENCRANTZ.
Forse vi è rientrato; perocchè si dice che un vecchio sia fanciullo due volte.
AMLETO.
Vuo’ fare una profezia. Egli viene ad annunziarmi i commedianti: state attenti. — Avete ragione, signore, fu lunedì mattina.
POLONIO.
Signore, ho delle notizie da darvi.
AMLETO.
Signore, ho delle notizie da darvi. Allorchè Roscio era attore in Roma...
POLONIO.
Gli attori sono giunti, signore.
AMLETO.
Va, va!8
POLONIO.
Sul mio onore...
AMLETO.
Allora ogni attore venne sul suo asino...
POLONIO.
Sono i migliori attori del mondo per la tragedia, la commedia, la storia, la pastorale, la comico-pastorale, la storico-pastorale, la tragico-storica, la tragico-comico-storico-pastorale, la scena indivisibile, o il poema illimitato; per essi Seneca non può essere troppo pesante, nè Plauto troppo leggiero. Per lo stile e la facilità della esposizione non hanno chi li pareggi.
AMLETO.
Oh Jefte, giudice d’Israel... qual tesoro tu possedevi?
POLONIO.
Quale tesoro possedeva egli, signore? [p. 43 modifica]
AMLETO.
Oh «una leggiadra figlia e null’altro, che egli amava appassionatamente.»
POLONIO.
(a parte.) Sempre col pensiero a mia figlia.
AMLETO.
Non ho io ragione, vecchio Jefte?
POLONIO.
Se mi chiamate Jefte, signore, io pure ho una figlia che amo con passione.
AMLETO.
No, non seguita così.
POLONIO.
Che cosa segue dunque, signore?
AMLETO.
Questo: «quello che chiamiamo fortuna è la volontà di Dio,» e allora sapete che «accadde quello che doveva accadere.» Il primo verso della pia canzone ve ne dirà di più9 perocchè mirate donde deriva la mia interruzione. (Entrano quattro o cinque commedianti.) Siate i benvenuti, signori: siate i benvenuti tutti, godo di vedervi in buono stato: ben arrivati, ottimi amici. — Oh mio vecchio amico! Il tuo viso si è fatto virile dopo l’ultima volta che ti ho veduto. Vieni tu a sfidarmi in Danimarca? Ah, mia giovine donzella e signora! Per la Beata Vergine, dacchè non vi ho vista, vostra signoria si è appressata al cielo di tutta l’altezza di una doppia suola di scarpa. Prego Dio che la vostra voce, come una moneta d’oro falso, non tramandi cattivo suono. — Signori, siete tutti i benvenuti. Veniamo subito al fatto come i falconieri francesi che dan la caccia al primo uccello che si presenta. Su, un discorso subito: dateci un saggio della vostra valentia; su, una concione appassionata.
Primo COMMEDIANTE.
Quale, signore?
AMLETO.
Ti intesi declamare una volta una... ma non fu mai detta in teatro, o, se pure, fu detta una volta sola, benchè ben rammento che il dramma non piaceva alla folla, era pungente10 per la generalità; ma (secondo il mio giudizio e quello di altri assai più esperti di me in queste materie) era un dramma eccellente, ben ordinato per le scene, scritto con arte e temperanza. Ricordo che uno diceva che non vi erano ribalderie nei versi per condir la materia; che la frase era semplice e senza ostentazione; che il metodo era buono e mostrava oro piuttostochè orpello. Un discorso sopratutto mi piaceva: il racconto di Enea a Didone; e specialmente là dove parla della uccisione di Priamo. Se ve lo ricordate, cominciate da quelle parole.... aspettate, aspettate... «Il fiero Pirro come belva d’Ircania...» no, [p. 44 modifica]non è così; comincia con Pirro. Il «fiero Pirro che, vestito di armi nere come i suoi disegni, somigliava alla notte allorchè s’appiattava nei fianchi del cavallo fatale, ha ora mutate le sue atre divise e si mostra in sembianze anche più orribili. Dalla testa ai piedi egli rosseggia di porpora; il sangue dei padri, delle madri, dei figli fu rappreso sulle sue armi dall’ardor delle fiamme, le cui vampe infernali rischiarano quelle uccisioni scellerate. Il mostro, sospinto dalla sua furia e lurido di strage cogli occhi fiammanti come carbonchi, va in traccia del venerabile Priamo.»
POLONIO.
Pel Cielo, signore, ben detto; buono l’accento e ottimo il metodo.
PRIMO COMMEDIANTE.
«Egli lo trova mentre con debole mano combatte i Greci; l’antica spada, ribelle al braccio, vacilla e cade. Pirro s’avanza alla tenzone disuguale; nell’ira sua vibra colpi all’aria, e il fischio della sua spada basta ad abbattere il debole vecchio. L’insensibile Ilio, che pare fatta accorta del gran colpo, cade col suo re, e i brucianti edifici crollano dalle fondamenta. L’orrendo rumore di quelle rovine ferisce l’orecchio di Pirro, e gl’incatena il braccio. Mirate! la sua spada in atto di piombare sulla canuta testa di Priamo pare a un tratto arrestata, e simile a tiranno dipinto, il vincitore permane immobile, vuoto di intenti e di volontà. Ma in quella guisa che veggiamo talvolta la calma succedere alla tempesta, allorchè un gran silenzio si spande pei cieli, e le nubi immote pendono, e i venti tacciono, e la terra è silenziosa come sepolcro, poi repentinamente veggiamo di nuovo la folgore che squarcia i cieli e ravviva gli echi della terra, così Pirro dopo breve tornato al primo furore, ripiglia la feroce vendetta, nè mai i martelli dei Ciclopi caddero con minor pietà sull’acciajo, del quale contemprano l’armatura eterna di Marte, di quello che cada sul vecchio la spada sanguinosa. Oh fortuna, vile prostituta! Voi, Numi tutti, accordatevi contro di lei, esautoratela di ogni possanza, rompete i raggi delle sue ruote, e precipitate il suo carro dall’altezza dei cieli ai baratri dell’inferno.»
POLONIO.
Questo è troppo lungo.
AMLETO.
Forse pel barbiere, siccome anche la vostra barba. — Continua, te ne prego. — Egli vuole pantomime o baccanali, altrimenti si addorme — Continua; vieni ad Ecuba.
PRIMO COMMEDIANTE.
«Ma chi, oh chi avrebbe potuto vedere la regina velata...!!»
AMLETO.
La regina velata?
POLONIO.
Bello: va bene la regina velata.
PRIMO COMMEDIANTE.
«Correre coi piedi ignudi fra le [p. 45 modifica]
fiamme che il torrente delle sue lagrime parea volesse estinguere; coperta il capo, che ornava prima un diadema, di miserabili bende; ravvolta in vil coltre, presa a ventura in quella desolazione, chi avrebbe potuto vederla in tale stato senza imprecare alla scellerata fortuna? Se i Numi l’avessero così contemplata allorchè ella scorse Pirro che infamemente sollazzavasi a cincischiare con la spada le membra del suo consorte: allo sformato grido che ella levò avrebbero potuto notare come s’intenerivano fin anche i luminari del cielo, ed essi stessi provate avrebbero le umane passioni, ove però interamente insensibili non siano ai nostri mali.»
POLONIO.
Guardate, come ha mutato colore e come si gonfiano i suoi occhi di lagrime. — Basta così, ve ne prego.
AMLETO.
A meraviglia; mi dirai il resto fra poco. — Mio buon signore, voi farete dare un buon alloggio ai commedianti? Mi intendete? Fate che siano trattati bene; perocchè essi siano il sunto e la cronaca concisa dal tempo. Meglio sarebbe per voi l’avere dopo morte un cattivo epitaffio che il loro biasimo durante la vostra vita.
POLONIO.
Signore, li tratterò secondo il loro merito.
AMLETO.
Meglio, amico, meglio. Se trattate ognuno secondo il proprio merito, chi si sottrarrà alle busse? Trattateli secondo il vostro onore e la vostra dignità; quanto meno meritino, tanto più avrete merito della vostra munificenza. Conduceteli con voi.
POLONIO.
Venite, signori (esce Polonio con alcuni commedianti.)
AMLETO.
Seguitelo, amici; ci reciterete un dramma dimani. — Odimi, vecchio amico: puoi tu rappresentare l’uccisione di Gonzago?
PRIMO COMMEDIANTE.
Sì, mio principe.
AMLETO.
La vogliamo recitata dimani sera. Potresti tu, se occorra, imparare anche dodici o sedici versi ch’io scriverei e inserirei nel testo? Lo potresti?
PRIMO COMMEDIANTE.
Certamente, signore.
AMLETO.
Benissimo. — Segui quel signore, e guarda di non burlarti di lui. (Il commediante esce.) Miei buoni amici (a Rosencrantz e Guildenstern), vi lascio fino a questa sera; siete i benvenuti a Elsinoro.
ROSENCRANTZ.
Mio buon principe.
AMLETO.
Sì, e così dio vi accompagni. (Escono Rosencrantz e Guildenstern.) Eccomi finalmente solo. Oh quale miserabile io sono! Non è ella cosa mostruosa che quel commediante in una finzione, nel sogno di una passione, abbia potuto far esprimere alla sua anima tutto il suo concetto ed esaltarla al segno da averne il viso infiammato, le lagrime agli occhi, la voce interrotta e l’intero esser suo in armonia con quel concepimento? [p. 46 modifica]E tutto ciò per nulla! Per Ecuba! Che è Enea per lui, o egli per Ecuba che per lei debba piangere? Che farebbe egli se avesse per addolorarsi le cause che ho io? Inonderebbe la scena di lagrime, e intronerebbe gli orecchi di tutti con voci disperate; farebbe impazzire il colpevole e impallidir l’innocente, sbigottirebbe i semplici e empirebbe gli occhi e le orecchie di stupore. Ed io, stupido intelletto, anima di mota, rimango vilmente inerte e nulla dico: nulla per un re a cui fu tolto si infamemente e trono e vita. Sono io un vile? Chi m’infrange la testa e mi strappa i peli del mento per gettarmeli in faccia? Chi mi batte la gota11 e afferma che ho mentito, e mi ricaccia la mentita fino nel profondo della gola?12 Chi fa ciò con me? Oh io lo tollererei, perocchè bisogna ch’io sia molle come la colomba e senza fede per le ingiurie, o altrimenti avrei già impinguato tutti gli avvoltoi del paese col cadavere di questo scellerato, cruento, incestuoso schiavo! Traditore senza rimorsi, ipocrita, infame scellerato! Oh vendetta... Stupido ch’io sono! Affè che è bello il vedere me, figlio di un caro trucidato, me, che il cielo e l’inferno spingono alla vendetta, sfogare come una prostituta in parole lo sdegno e proferir vane imprecazioni!13 Obbrobrio! obbrobrio! All’opera, mio intelletto! Intesi dire di colpevoli che assistendo ad una rappresentazione drammatica rimasero così scossi dal magistero della scena, che tosto si diedero a proclamare i loro delitti; imperocchè, l’omicidio, sebbene non abbia lingua, si fa intendere con voce prodigiosa. Farò recitare da questi commedianti, dinanzi a mio zio, qualcosa che ricordi l’uccisione di mio padre, osserverò il suo aspetto: lo scruterò addentro; s’egli impallidisce, so ciò che debbo fare. Lo spettro che vidi poteva essere il demonio; e al demonio è concesso di assumere nobili forme; egli è potente sulle anime malinconiche; e forse abusando della mia debolezza e del mio dolore, cerca i mezzi per dannarmi. Vuo’ acquistare una certezza migliore, e il dramma è la rete14 con cui prenderò la coscienza del re. (Esce.)

  1. Frase comune nelle dediche alle dame ai tempi di Shakspeare.
  2. Carrettieri
  3. Un mezzo penny.
  4. Moult no feather. Noa mutale penae, statevi immobili. (Questo passo è interpretato in dieci modi differenti dai commentatori inglesi; nell’edizione in quarto, il moult no feather viene congiunto alla segretezza dovuta al re e alla regina, quasi a dire, che tale segretezza non verrà infirmata. La lezione è però riputata viziosa dalla maggior parte dei critici.)
  5. Quaresimale
  6. Fanno la ruggine?
  7. Shakspeare fa qui allusione al gusto deplorabile de’ suoi tempi in cui si preferivano i drammi ampollosi rappresentati dai fanciulli della cappella del re a quelli pure che egli andava scrivendo
  8. Ronza, ronza!
  9. Allude all’antica ballata su Jefte, giudice d’Israele, stampata per la prima volta nella raccolta di Percy.
  10. Caviarie, caviale, che divenne poi di moda alle mense dei signori inglesi.
  11. Tweaks me by the nose, mi tira pel naso.
  12. Addentro fino ai polmoni.
  13. Like a very drab, a scullion! appunto come una meretrice o una guanera
  14. The thing, la cosa.