Amleto (Rusconi)/Atto terzo/Scena I

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Scena I

Amleto (Rusconi)/Atto secondo/Scena II ../Scena II IncludiIntestazione 29 novembre 2016 100% Teatro

William Shakespeare - Amleto (1599 / 1601)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1901)
Scena I
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SCENA I.

Una stanza della reggia.


Entrano il Re, la Regina, Polonio, Ofelia, Rosencrantz e Guildenstern.

RE.
E non avete potuto con alcun espediente sapere da lui la cagione del suo turbamento, della dolorosa pazzia che è venuta cosi ad un tratto a funestare la pace dei suoi giorni?
ROSENCRANTZ.
Egli confessa che la sua mente è alienata, ma non vuol dirne il motivo.
GUILDESTERN.
Né lo trovammo disposto a lasciarsi scrutare; la sua astuta pazzia rese sempre vani i nostri sforzi allorchè volevamo indurlo a confessarci il suo vero stato.
REGINA.
Vi accolse egli bene?
ROSENCRANTZ.
Da vero gentiluomo.
GUILDESTERN.
Ma mostrando di far forza a sè stesso.
ROSENCRANTZ.
Parco di dimande; ma pronto a rispondere liberamente alle nostre.
REGINA.
Lo invitaste a qualche diporto?
ROSENCRANTZ.
Signora, accadde che certi commedianti si trovassero per la nostra strada; di questi gli parlammo, e parve lieto dell’annunzio. Essi sono alla corte, e credo abbiano già ricevuto l’ordine di recitare questa sera dinanzi a lui.
POLONIO.
È verissimo; e mi disse di pregare le Vostre Maestà a voler assistere al trattenimento.
RE.
Con tutto il cuore; e mi fa piacere di udirlo così ben disposto. Buoni signori, dategli un ulteriore eccitamento e mantenetelo fermo in questi diletti.
ROSENCRANTZ.
Lo faremo, signore. (Esce con Guildenstern.)
RE.
Cara Gertrude, lasciaci anche tu; abbiamo segretamente mandato a cercare Amleto, che dovrà incontrare qui Ofelia, come per caso. Suo padre ed io (onesti esploratori) ci metteremo in parte dove possiamo [p. 48 modifica]vedere non visti, e giudicare sicuramente del loro colloquio. Così sapremo da lui stesso se è per amore che soffre tanto.
REGINA.
Vi obbedisco. Rispetto a voi, Ofelia, desidero che la vostra beltà sia la fortunata causa del disordine della mente di Amleto; così potrei sperare che lo vostre virtù lo richiamassero, con onore di entrambi, nella prima via.
OFELIA.
Signora, possa ciò avvenire. (La Regina esce.)
POLONIO.
Ofelia, passeggiate costà. — Sire, andremo ed allogarci, se vi piace. — Leggete questo libro (a Ofelia); tale occupazione può dar ragione del vostro errar qui solinga. Noi siamo spesso da biasimare in ciò..., non è che provato troppo che col viso della devozione e le opere pie allettiamo anche il diavolo.
RE.
(A parte.) Oh è pur troppo vero! E come questa osservazione trafigge la mia coscienza! La gota della meretrice, artifiziosamente imbellettata, non è più brutta in paragone della maschera che impronta, che non sia il mio delitto raffrontato colle mie melate parole. Oh grave soma!
POLONIO.
L’odo venire; ritiriamoci, signore. (Escono il Re e Polonio.)


Entra Amleto.


AMLETO.
Essere, o non essere, tale è il problema. È egli più decoroso per l’anima di tollerare i colpi dell’ingiusta fortuna, o impugnare le armi contro un mare di dolori e, affrontandoli, finirli? Morire, dormire, null'altro; e dire che con quel sonno poniamo termine alle angosce del cuore e ai mille affanni naturali di cui è erede la carne.... è una conchiusione da essere avidamente desiderata. Morire,... dormire,... dormire! forse sognare...; ah, ecco il punto; perocchè quali sogni possono sopravvenire in quel sonno di morte, allorchè reciso abbiamo il filo di questo mondo? Ecco quello che ci trattiene, ed è ciò che rende l’infortunio sì lungo: perocche chi vorrebbe altrimenti sopportare i flagelli del tempo, gli oltraggi degli oppressori, le contumelie dei superbi, le angosce dell’amore disprezzato, le cabale della legge, l’insolenza dei governanti, e i vilipendi che il merito paziente soffre dall’abbietta ignoranza, quando un ferro gli basterebbe per darsi quiete? Chi vorrebbe sopportare questi fardelli, e gemere, e affannarsi, trascinando un’inferma vita, se non fosse il timore di qualche cosa al di là della tomba, di quel paese ignoto, da cui nessun viaggiatore ritorna, che turba la volontà, e fa preferirci i mali che abbiamo, [p. 49 modifica]piuttostochè affrontarne altri che ci sono sconosciuti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e il colore ingenito della risoluzione rimane offuscato dalla pallida ombra del pensiero; cosi le imprese di maggior polso e momento si sviano dal loro corso naturale, e perdono il nome di azioni. — Pace ora! La bella Ofelia, — Ninfa, nelle tue orazioni siano ricordati tutti i miei peccati.
OFELIA.
Mio buon signore, come viveste in questi giorni?
AMLETO.
Umilmente vi ringrazio; bene, bene, bene.
OFELIA.
Signore, conservo alcuni vostri ricordi, che molte volte desiderai restituirvi; ve ne prego, riceveteli ora
AMLETO.
No, no. Io non vi diedi mai nulla.
OFELIA.
Mio onorato signore, so bene che foste voi; e accoppiaste ad essi parole così dolci che il prezzo assai se ne accresceva; dacchè perderono quel profumo, riprendeteli; perocchè per un’anima che senta degnamente, i ricchi doni diventan poveri, quando i donatori obbliano la loro cortesia. Riprendeteli, signore.
AMLETO.
Ah, ah! Siete voi onesta?
OFELIA.
Signore?
AMLETO.
Siete bella?
OFELIA.
Che intende di dire Vostra Altezza?
AMLETO.
Che se siete onesta e bella, la vostra onestà non dovrebbe permettere che si parlasse della vostra bellezza.
OFELIA.
Signore, qual migliore commercio potrebbe avere la bellezza che non sia quello coll’onestà?
AMLETO.
Si, è vero; perocchè il potere della bellezza trasformerà più presto l’onestà in vizio, che la forza dell’onestà non possa trasformare la bellezza a sua propria immagine; questo fu un tempo un paradosso, ora è provato. Io vi amai una volta.
OFELIA.
Signore, almeno me lo faceste credere.
AMLETO.
Non avreste dovuto credermi; perocchè la virtù non può cosi inocularsi nel nostro vecchio tronco, che di questo non ci risentiamo; io non vi amavo.
OFELIA.
Allora rimasi tanto più, ingannata.
AMLETO.
Va in un convento; perché vorresti diventar madre di peccatori? Io sono passabilmente onesto, e nulla meno potrei accusarmi di tali cose, che meglio sarebbe stato che mia madre non mi avesse posto in luce; io sono superbissimo, vendicativo, ambizioso; e ho più colpe al mio comando, ch’io non abbia pensieri in cui trasfonderle, immaginazione per dar loro una forma, o tempo per metterle in atto. A che dovrebbero strisciare fra il cielo e la terra esseri come sono io? Noi siamo tutti malandrini; non credere ad alcuno di noi. Va dritto al convento. Dov’è vostro padre? [p. 50 modifica]
OFELIA.
A casa, signore.
AMLETO.
Fa che le porte si chiudano dietro di lui onde non possa recitare la parte del pazzo che fra le pareti domestiche. Addio.
OFELIA.
Oh soccorrilo, pietoso Cielo!
AMLETO.
Se ti mariti ti darò questo tormento per dote. Sii tu casta come il ghiaccio, pura come la neve, non isfuggirai alla calunnia. Va al chiostro; va, addio. O se pur vuoi maritarti, sposa un pazzo, perocchè i savi sanno abbastanza bene in quale specie di mostri li trasmutiate. Al chiostro, va, e presto anche. Addio.
OFELIA.
Potenze celesti, rendetegli la ragione!
AMLETO.
Ho anche sentito parlare delle vostre ciance. Dio vi ha dato un portamento e voi ve ne fate un altro; voi saltellate, vi dondolate, vi pavoneggiate, schernite le creature di Dio, e vorreste far credere semplicità quello che altro non è che ostentazione.1 Ite, nulla più aggiungerò; ciò mi ha renduto demente. Io dico che di matrimonii non ne vogliamo più; coloro che sono già maritati vivranno tutti, fuori di uno; il resto rimarrà com’è. Al chiostro, va. (Esce.)
OFELIA.
Oh qual nobile intelletto è qui offuscato! L’occhio del cortigiano, la lingua del sapiente, la spada del soldato, la speranza e il fiore di questo bel regno, lo specchio della moda e il modello delle forme più elette, il campione in cui tutti tenevano conversi gli sguardi, abbattuto, abbattuto! Ed io, la più misera delle donne, io che bevvi il miele de’ suoi voti e che veggo ora quella nobile ed elevata ragione simile ad una dolce squilla guastata che non rende più che suoni amari! E tanto fiore di giovinezza e di beltà inaridito dal soffio della demenza. Oh me infelice di aver veduto quello che vidi, di vedere quello che scorgo!


Rientrano il Re e Polonio.

RE.
Amore! No, non è da tal lato che è volto il suo cuore, nè quello che disse, sebbene mancasse un po’ [p. 51 modifica]
di forma, era da pazzo. Vi è qualche cosa nella sua anima che cova la sua malinconia, e temo che il frutto che ne vedremo nascere non debba riuscirci funesto. A prevenire ogni sinistro, ecco quello che ho pensato. Egli andrà tosto in Inghilterra per chiedervi il tributo che non ci fu ancora dato; forse il viaggio, e i paesi differenti, e i vari oggetti sbandiranno da lui la tristezza che l’opprime e noi fa più riconoscibile. Che pensate di ciò?
POLONIO.
Sarà bene; però io persisto a credere che l’origine di questo dolore sia stato un amore disprezzato. — Ebbene, Ofelia, non importa che ci raccontiate quello che disse il principe Amleto, perchè abbiamo udito tutto. — Signore, fate come credete; ma so lo stimate conveniente, lasciate, dopo la rappresentazione, che la regina sua madre, stando sola con lui, lo preghi di manifestarle la causa del suo dolore; ella gliene parli senza reticenze; ed io, se credete, sarò posto in luogo da udire tutto il loro colloquio. Se ella pure non iscopre nulla, fatelo andare in Inghilterra, o relegatelo dove la vostra saviezza rifiuterà più opportuno.
RE.
Così si farà; la demenza dei grandi non deve passare senza attenta sorveglianza. (Escono.)

Note

  1. Nell’edizione in quarto, abbiamo paintings (dipinti) invece di pralitings (ciance), e face (faccia) invece di pace (portamento, passo). Così si sarebbe dovuto dire: «Intesi parlare come vi dipingiate; Dio vi ha dato un viso e voi ve ne fate un altro, ec.;» ma il contesto ci sembra giustificare la nostra lezione. You jig and you amble (saltellate e vi dondolate), ecc., si riferisce al portamento, come il you nick-name God’s creatures (schernite le creature di Dio) si riferisce alle ciance, alla loquacità. Il viso dipinto (imbellettato), sebbene fosse un vizio dei tempi di Shakspeare, non sarebbe collegato, secondo il testo dell’edizione in quarto, colla seconda parte della sentenza.