Andromaca (Euripide - Romagnoli)/Quinto episodio

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Quinto episodio

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Euripide - Andromaca (420 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1931)
Quinto episodio
Quarto stasimo Esodo


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Giunge, con un séguito, Pelèo.

peleo

A me, donne di Ftía, date risposta:
ché m’è giunta, ma non chiara, la voce
che questa casa abbandonò, ch’è lungi
di Menelao la figlia; e son qui giunto,
e fretta ho di saper la verità:
ché provvedere degli amici assenti
deve alla sorte chi rimane in patria.

coro

Tale è, Pelèo. la verità: non giova
questo celarti affanno mio: fuggiasca
da questa casa la regina andò.

peleo

Da qual terrore invasa fu? Raccontami.

coro

Dello sposo teme’, che la scacciasse.

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peleo

Per la trama che al figlio ordí, mortale.

coro

Appunto; e della schiava anche temeva.

peleo

E fuggí con suo padre? O con chi mai?

coro

Venne a rapirla il figlio d’Agamènnone.

peleo

Per che speranza? Vuol farla sua sposa?

coro

E morte al figlio di tuo figlio infliggere.

peleo

Nascosto, in un’insidia, o a faccia a faccia?

coro

Nel tempio dell’Ambiguo, insiem coi Delfi.

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peleo

Ahi, terribil disegno! In tutta fretta
corra a Pito qualcun, dica agli amici
quanto avvenuto è qui, prima che cada
d’Achille il figlio dai nemici spento.
Entra un araldo.

araldo

Ahi me, ahi, me
tristo! Di che sciagure araldo a te
giungo, e agli amici del signore, o vecchio!

peleo

Ahi che sciagure presagisce l’animo!

araldo

Il figlio è morto di tuo figlio, sappilo,
Pelèo: con tante spade lo colpirono
i Delfi, e un uomo da Micene giunto.
Alla notizia, Pelèo cade al suolo.

coro

Ahi ahi, che avviene? Non cadere, o vecchio!
Àlzati!

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peleo

                    Nulla io piú non sono: sono
morto: mi manca la voce: mi mancano
le gambe sotto.

araldo

                              Ascolta i fatti, se
vuoi far vendetta degli amici. Lèvati.

peleo

Come, o destino, mi colpisci, all’ultimo
confin degli anni miei! Di’, come l’unico
figlio morí dell’unico mio figlio?
Udirlo è orrendo, eppure udire io voglio.

araldo

Come di Febo al sacro suol giungemmo,
sin che tre volte il sole ebbe percorso
il lucente cammin, sazi facemmo
gli occhi, ammirando. E ciò dava sospetto
grande; e la gente addetta al santuario,
incominciava a radunarsi in crocchi
e capannelli. E il figlio d’Agamènnone
per tutta quanta Delfo andava attorno,
e maligni discorsi insinuava
negli orecchi a ciascuno. «Oh, non vedete
come costui, girando va per gli antri

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pieni d’oro del Dio, dove i tesori
han deposti i devoti, e viene qui
per la seconda volta, a fare quello
che la prima tentò, mettere a sacco
di Febo il tempio?». Ed ecco in Delfi spargersi
un sinistro susurro. E i magistrati,
riuniti in consiglio, ed i preposti
ai tesori del Dio, posero guardie
alle porte del tempio. E noi, che nulla
sapevamo di ciò, raccolte greggi
dal frondoso Parnasso, insiem con gli ospiti
e gli àuguri di Pito, all’are andammo.
Ed uno disse: «O giovine, che grazia
per te dal Nume imploreremo? Quale
ragion t’addusse?». Ed ei rispose: «A Febo
pagare il fio d’un fallo antico io voglio:
ch’io già gli chiesi che ragion mi desse
del sangue di mio padre». E maggior credito
quindi d’Oreste la calunnia prese,
che il signor mio mentisse, e che per compiere
ribalderie venuto fosse. E quello
varcò la soglia, entrò nel santuario,
per supplicare Febo innanzi all’ara,
ed era inteso ai sacrifici. Ed ecco,
su lui, dall’ombre d’un laureto, piomba
un drappello d’armati: istigatore
di Clitemnestra il figlio era di tutti.
Al cospetto di tutti il Nume ei prega;
e quelli, strette in man le spade aguzze,
d’Achille il figlio a tradimento pungono.
Un balzo indietro ei fa, la spada sfodera,
e dal pilastro l’armi, ove ai piòli
erano appese, afferra, e sopra l’ara,

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oplita nell’aspetto orrido, sta.
Ed alto un grido leva, e ai Delfi chiede:
«A ufficio pio son qui venuto, e voi
m’uccidete? Perché? Per che ragione
devo morire?». Ma nessun di quelli
che mille e mille erano pur, da presso
gli rispondea, ma sassi gli scagliavano
da lungi. E quegli, tempestato d’ogni
parte, come da un turbine di neve,
l’armi protende, or qua, or là, lo scudo
opponendo alle pietre, e fa riparo.
Ma poco può: ché troppi dardi a un tempo,
frecce, zagaglie, giavellotti bifidi,
gli cadevano ai piedi, a farne scempio.
Avessi visto con che salti immani
schivava i colpi tuo nipote! Ma,
poi che l’avean tutto d’attorno stretto,
né gli davan respiro, ei, con un balzo
ben degno d’Ilio, l’ara abbandonò
pingue di greggi, e in mezzo a lor balzò.
E quelli, al pari di colombe, quando
vedono lo sparvier, le spalle volsero.
E molti qui confusamente caddero,
questi feriti, e nei passaggi angusti
l’uno con l’altro quelli si schiacciavano.
E nella fausta casa infausto strepito
rimbombava fra i marmi; e invece, placido
fulgeva il signor mio nell’armi lucide,
pria che di mezzo ai penetrali un ululo
levasse alcuno, spaventoso, orribile
che fe’ volger la turba alla riscossa.
E qui d’Achille il figlio procombe’,
trafitto il fianco da un’aguzza spada

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da un uom di Delfi, che l’uccise, insieme
con altri molti. E poi che fu caduto,
chi contro lui non vibra un ferro, chi
non vibra un sasso, a colpirlo, a contunderlo?
Il bel corpo sparí, distrutto, sotto
le selvagge ferite, e il suo cadavere
che giacea presso all’ara, lo gittarono
lungi dal tempio, dove ancor fumavano
i sacrifici. Prima che potessimo,
noi la salma involammo, e la rechiamo
a te, perché con gemiti e con ululi
le dia compianto, e l’orni con un tumulo.
Il Signore che altrui detta gli oracoli,
che giustizia comparte a tutti gli uomini,
cosí trattò d’Achille il figlio, mentre
la pena andava ad espiare. Al pari
d’un uomo tristo, ricordò le antiche
offese: il nome egli di saggio merita?