Andromaca (Euripide - Romagnoli)/Quinto episodio
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Giunge, con un séguito, Pelèo.
peleo
A me, donne di Ftía, date risposta:
ché m’è giunta, ma non chiara, la voce
che questa casa abbandonò, ch’è lungi
di Menelao la figlia; e son qui giunto,
e fretta ho di saper la verità:
ché provvedere degli amici assenti
deve alla sorte chi rimane in patria.
coro
Tale è, Pelèo. la verità: non giova
questo celarti affanno mio: fuggiasca
da questa casa la regina andò.
peleo
Da qual terrore invasa fu? Raccontami.
coro
Dello sposo teme’, che la scacciasse.
peleo
Per la trama che al figlio ordí, mortale.
coro
Appunto; e della schiava anche temeva.
peleo
E fuggí con suo padre? O con chi mai?
coro
Venne a rapirla il figlio d’Agamènnone.
peleo
Per che speranza? Vuol farla sua sposa?
coro
E morte al figlio di tuo figlio infliggere.
peleo
Nascosto, in un’insidia, o a faccia a faccia?
coro
Nel tempio dell’Ambiguo, insiem coi Delfi.
peleo
Ahi, terribil disegno! In tutta fretta
corra a Pito qualcun, dica agli amici
quanto avvenuto è qui, prima che cada
d’Achille il figlio dai nemici spento.
Entra un araldo.
araldo
Ahi me, ahi, me
tristo! Di che sciagure araldo a te
giungo, e agli amici del signore, o vecchio!
peleo
Ahi che sciagure presagisce l’animo!
araldo
Il figlio è morto di tuo figlio, sappilo,
Pelèo: con tante spade lo colpirono
i Delfi, e un uomo da Micene giunto.
Alla notizia, Pelèo cade al suolo.
coro
Ahi ahi, che avviene? Non cadere, o vecchio!
Àlzati!
peleo
Nulla io piú non sono: sono
morto: mi manca la voce: mi mancano
le gambe sotto.
araldo
Ascolta i fatti, se
vuoi far vendetta degli amici. Lèvati.
peleo
Come, o destino, mi colpisci, all’ultimo
confin degli anni miei! Di’, come l’unico
figlio morí dell’unico mio figlio?
Udirlo è orrendo, eppure udire io voglio.
araldo
Come di Febo al sacro suol giungemmo,
sin che tre volte il sole ebbe percorso
il lucente cammin, sazi facemmo
gli occhi, ammirando. E ciò dava sospetto
grande; e la gente addetta al santuario,
incominciava a radunarsi in crocchi
e capannelli. E il figlio d’Agamènnone
per tutta quanta Delfo andava attorno,
e maligni discorsi insinuava
negli orecchi a ciascuno. «Oh, non vedete
come costui, girando va per gli antri
pieni d’oro del Dio, dove i tesori
han deposti i devoti, e viene qui
per la seconda volta, a fare quello
che la prima tentò, mettere a sacco
di Febo il tempio?». Ed ecco in Delfi spargersi
un sinistro susurro. E i magistrati,
riuniti in consiglio, ed i preposti
ai tesori del Dio, posero guardie
alle porte del tempio. E noi, che nulla
sapevamo di ciò, raccolte greggi
dal frondoso Parnasso, insiem con gli ospiti
e gli àuguri di Pito, all’are andammo.
Ed uno disse: «O giovine, che grazia
per te dal Nume imploreremo? Quale
ragion t’addusse?». Ed ei rispose: «A Febo
pagare il fio d’un fallo antico io voglio:
ch’io già gli chiesi che ragion mi desse
del sangue di mio padre». E maggior credito
quindi d’Oreste la calunnia prese,
che il signor mio mentisse, e che per compiere
ribalderie venuto fosse. E quello
varcò la soglia, entrò nel santuario,
per supplicare Febo innanzi all’ara,
ed era inteso ai sacrifici. Ed ecco,
su lui, dall’ombre d’un laureto, piomba
un drappello d’armati: istigatore
di Clitemnestra il figlio era di tutti.
Al cospetto di tutti il Nume ei prega;
e quelli, strette in man le spade aguzze,
d’Achille il figlio a tradimento pungono.
Un balzo indietro ei fa, la spada sfodera,
e dal pilastro l’armi, ove ai piòli
erano appese, afferra, e sopra l’ara,
oplita nell’aspetto orrido, sta.
Ed alto un grido leva, e ai Delfi chiede:
«A ufficio pio son qui venuto, e voi
m’uccidete? Perché? Per che ragione
devo morire?». Ma nessun di quelli
che mille e mille erano pur, da presso
gli rispondea, ma sassi gli scagliavano
da lungi. E quegli, tempestato d’ogni
parte, come da un turbine di neve,
l’armi protende, or qua, or là, lo scudo
opponendo alle pietre, e fa riparo.
Ma poco può: ché troppi dardi a un tempo,
frecce, zagaglie, giavellotti bifidi,
gli cadevano ai piedi, a farne scempio.
Avessi visto con che salti immani
schivava i colpi tuo nipote! Ma,
poi che l’avean tutto d’attorno stretto,
né gli davan respiro, ei, con un balzo
ben degno d’Ilio, l’ara abbandonò
pingue di greggi, e in mezzo a lor balzò.
E quelli, al pari di colombe, quando
vedono lo sparvier, le spalle volsero.
E molti qui confusamente caddero,
questi feriti, e nei passaggi angusti
l’uno con l’altro quelli si schiacciavano.
E nella fausta casa infausto strepito
rimbombava fra i marmi; e invece, placido
fulgeva il signor mio nell’armi lucide,
pria che di mezzo ai penetrali un ululo
levasse alcuno, spaventoso, orribile
che fe’ volger la turba alla riscossa.
E qui d’Achille il figlio procombe’,
trafitto il fianco da un’aguzza spada
da un uom di Delfi, che l’uccise, insieme
con altri molti. E poi che fu caduto,
chi contro lui non vibra un ferro, chi
non vibra un sasso, a colpirlo, a contunderlo?
Il bel corpo sparí, distrutto, sotto
le selvagge ferite, e il suo cadavere
che giacea presso all’ara, lo gittarono
lungi dal tempio, dove ancor fumavano
i sacrifici. Prima che potessimo,
noi la salma involammo, e la rechiamo
a te, perché con gemiti e con ululi
le dia compianto, e l’orni con un tumulo.
Il Signore che altrui detta gli oracoli,
che giustizia comparte a tutti gli uomini,
cosí trattò d’Achille il figlio, mentre
la pena andava ad espiare. Al pari
d’un uomo tristo, ricordò le antiche
offese: il nome egli di saggio merita?