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Annali d'Italia dal principio dell'era volgare sino all'anno 1750/14

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Anno 14

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Anno di Cristo xiv. Indizione ii.
Tiberio imperadore 1.


Consoli


Sesto Pompeo e Sesto Appuleo.


Fece in quest’anno Augusto insieme con Tiberio il censo, o sia la descrizione de’ cittadini romani, abitanti in Roma e per le provincie; e per attestato della inscrizione ancirana, riferita dal Grutero1,[p. 40] se ne trovarono quattro milioni e cento settantasettemila. Eusebio nella sua cronica2 fa ascendere essi cittadini a nove milioni e trecento settantamila persone, forse per error de’ copisti, il quale s’ha da correggere coll’autorità dell’iscrizione suddetta. Svetonio3 e Dione4 attestano, avere Augusto sul fin di sua vita fatto un compendio delle sue più memorabili azioni, con ordine d’intagliarlo in varie tavole di bronzo. Se ne conservò in Ancira una copia. Fu poi spedito Germanico in Germania, perchè non era per anche cessata in quelle contrade la guerra. Prese Augusto anche la risoluzion d’inviar Tiberio nell’Illirico, per assodar sempre più la pace ivi stabilita; e però con esso lui da Roma si incamminò alla volta di Napoli, invitatovi da quel popolo nell’occasione de’ giuochi insigni che qui ogni cinque anni in onor suo si facevano all’usanza de’ Greci. V’andò, ma portando seco una molesta diarrea, cominciata in Roma. Dopo avere assistito a quella magnifica funzione, e licenziato Tiberio, si rimise in viaggio per tornarsene a Roma. Aggravatosi il suo male, fu forzato a fermarsi in Nola, dove poi placidamente morì nel dì 19 agosto, cioè nel mese nominato prima sestile, e poscia dal suo nome Augusto, che tuttavia dura, e in quella medesima stanza, dove Ottavio suo padre era mancato di vita. Sospetto corse5, che la ambiziosa sua moglie Livia, appellata anche Giulia, perchè adottata per figliuola da esso Augusto con istravaganza non lieve, gli avesse procurata la morte con dei fichi avvelenati. Imperocchè dicono che in questi ultimi tempi Augusto, o perchè già conoscesse il mal talento di Tiberio figliastro suo, o perchè gli paresse più convenevole di anteporre Agrippa, figliuolo di Giulia sua figlia, ad un figliuolo di sua moglie Livia, avesse cangiata [p. 41|42 modifica]massima intorno alla successione sua; e che segretamente coll’accompagnamento di pochi si fosse portato a visitar esso Agrippa, che trovavasi allora relegato nell’isola della Pianosa, con dargli buone speranze. Avendo Livia penetrato questo segreto affare, s’affrettò, secondo i suddetti scrittori, ad accelerar la morte del marito. Ma non par già verisimile, che Augusto sì vecchio volesse prendersi lo incomodo di arrivar sino alla Pianosa, vicino alla Corsica, nè potea ciò farsi senza che Livia ed altri nol venissero a sapere. L’affetto poi dimostrato da Augusto sul fine di sua vita alla medesima Livia e a Tiberio, il quale richiamato dal suo viaggio6 arrivò a tempo di vederlo vivo, e di tenere un lungo ragionamento con lui, non lascia trasparire segno di affezione di esso Augusto verso il nipote Agrippa, nè di mal animo contro il figliastro Tiberio e di sua madre.

Comunque sia, terminò Augusto i suoi giorni in età di quasi settantasei anni, e di cinquantasette anni e cinque mesi dopo la morte di Giulio Cesare. Tanto anticamente, quanto ne’ due ultimi secoli, si vide posto sulle bilance de’ politici e dei declamatori il merito di questo imperadore, lacerando gli uni la di lui fama, per avere oppressa la repubblica romana, e gli altri encomiandolo come uno dei più gloriosi principi che s’abbia prodotto la terra. La verità si è, che hanno ragione amendue queste fazioni, considerata la diversità de’ tempi. Non si può negare ne’ principii il reato di tirannia e di crudeltà in Augusto verso la sua patria; ma si dee ancora concedere, che il proseguimento della sua vita fece scorgere in lui non un tiranno, ma un principe degno di somma lode pel savio suo governo, per l’insigne moderazione sua, e per la cura di mantenere ed accrescere la pubblica felicità. Può anche meritar qualche perdono l’attentato suo. Trovavasi da molto tempo vacillante e guasta la romana repubblica per le fazioni e[p. 42] prepotenze, che non occorre qui rammentare7. Bisogno v’era di un’autorità superiore, che rimediasse ai passati disordini, e non lasciasse pullularne dei nuovi. Però la tranquillità di Roma è dovuta al medesimo, se vogliamo dire, fallo suo. Nè egli a guisa de’ tiranni tirò a sè tutto quel governo, ma saggiamente seppe fare un misto di monarchia e di repubblica, quale anche oggidì con lode si pratica in qualche parte d’Europa. Felice Roma, s’egli avesse potuto tramandare ai suoi successori, come l’imperio, così anche il suo senno e il suo amore alla patria. Ma vennero tempi cattivi, ne’ quali poi s’ebbe a dire: Che Augusto non dovea mai nascere, o non dovea mai morire. Il primo per mali da lui fatti a fine di rendersi padrone: il secondo per l’amorevolezza e saviezza, con cui seppe dipoi governare la repubblica, e di cui furono privi tanti de’ suoi successori, non principi, ma tiranni. Un gran saggio ancora del merito d’Augusto furono gli onori a lui compartiti in vita, e più dopo morte. Vi avrà avuta qualche parte, non vo’ negarlo, l’adulazione; ma i più vennero dalla stima, dall’amore e dalla gratitudine de’ popoli che sotto di lui goderono uno stato cotanto felice. E tali onori arrivarono sino al sacrilegio8. Imperciocchè a lui anche vivente furono, come ad un Dio, dedicati altari, templi e sacerdoti, e molto più dopo morte. Con pubblici giuochi ancora e spettacoli si solennizzò dipoi il suo giorno natalizio, e memoria onorevole si tenne de’ benefizii da lui ricevuti.

Tennero Livia e Tiberio occulta per alcuni giorni la morte d’Augusto, finchè avendo frettolosamente inviato ordine alla Pianosa che fosse ucciso Agrippa, nipote d’esso Augusto, giunse loro la nuova di essere stato eseguito il barbaro comandamento, mostrando poscia di non averlo dato alcun d’essi; che questo fu il bel [p. 43|44 modifica]principio del loro imperio. Allora si pubblicò essere Augusto mancato di vita. Fu portato con gran solennità il di lui corpo a Roma dai principali magistrati delle città, e poi da’ cavalieri; furongli fatte solenni esequie, descritte da Dione, con averlo portato al rogo Druso figliuolo di Tiberio e i senatori. Saltò poi fuori Numerio Attico senatore, il quale, mentre la pira ardeva, giurò di aver veduta l’anima d’Augusto volare al cielo9, come si finse una volta succeduto anche a Romolo, facendosi credere con tali imposture alla buona gente ch’egli fosse divenuto un dio o semideo: vana pretensione, continuata ne’ tempi seguenti per altri imperadori. Ciò fatto, si trattò nel senato di confermare, o, per dir meglio, di concedere a Tiberio Cesare, lasciato erede da Augusto suo padrigno, tutta l’autorità e gli onori goduti in addietro dal medesimo Augusto. Era allora Tiberio in età di cinquantasei anni, volpe fina e impastato di diffidenza, d’umor nero e di crudeltà; ma che sapeva nascondere il suo cuore meglio d’ogni altro, ed avea saputo coprire i suoi vizii agli occhi, non già di tutti, ma forse della maggior parte dei grandi e de’ piccoli. Nel senato non v’era più alcuna di quelle teste forti che potessero rimettere in piedi la libertà romana; tutto tendeva all’adulazione e al privato, non al pubblico bene. V’entrava anche la paura, perchè Tiberio continuò a comandare alle coorti del pretorio e alle armate romane per le precedenti concessioni; e però niuno osava di alzar un dito, anzi ognuno gareggiò a conferir la signoria a Tiberio. All’incontro l’astuto Tiberio, quanto più essi insistevano per esaltarlo, tanto più facea vista di abborrir quegli onori, e di desiderare non superiorità, ma uguaglianza co’ suoi cittadini, esagerando la gran difficoltà a reggere sì vasto corpo, e i pericoli di soccombere sotto il peso. Tutto affine di scandagliar bene gli animi di ciascun particolare, e far poi vendetta a suo tempo di chi poco inclinato[p. 44] comparisse verso di lui10. Temeva ancora che Germanico suo nipote, già adottato da lui per figliuolo, tra per essere allora alla testa dell’armata romana in Germania, e perchè sommamente amato dal popolo romano e dai soldati, potesse torgli la mano. Lasciossi dunque pregare gran tempo anche dagl’inginocchiati senatori, e finalmente senza chiaramente accettar l’impiego11, o pur facendo credere di prenderlo, ma per deporlo fra qualche tempo, cominciò francamente ad esercitare l’autorità imperiale. Qui Vellejo Patercolo12 lascia la briglia all’eloquenza sua, per tessere un panegirico delle azioni di Tiberio sui principii del suo governo. La pace fiorì da per tutto; andò l’ingiustizia, la prepotenza, la frode a nascondersi fra i Barbari; si stese la di lui liberalità per le provincie e città che aveano patito disgrazie. E veramente gran moderazione mostrò a tutta prima Tiberio, e seguitò a governar da saggio, finchè visse Germanico, perchè temeva di lui. Nè qui si ferma Vellejo. Entra ancora a vele gonfie nelle lodi di Elio Sejano, scelto da Tiberio per suo consigliere e primo ministro. S’egli sel meritasse, l’andremo osservando nel progresso degli anni.

Certo che in Roma niun tumulto o sedizione accadde per questo cambiamento di governo; ma non fu così nelle provincie13. Le milizie romane che soggiornavano nella Pannonia, appena udita la morte di Augusto, si rivoltarono contra di Giulio Bleso lor comandante, che corse pericolo della vita, facendo esse istanza della lor giubilazione e d’essere premiate, col minacciar anche di ribellar quella provincia, e di venirsene a Roma. Fu dunque spedito colà da Tiberio il suo figliuolo Druso con una man di soldati pretoriani, ed accompagnato da Sejano, allora prefetto del pretorio. Durò Sejano [p. 45|46 modifica]non poca fatica a mettere in dovere i sollevati che l’assediarono, e ferirono alcuni della di lui scorta. Ma finalmente essendosi ritirati e divisi costoro pe’ quartieri; e chiamati sotto altro pretesto ad uno ad uno i più feroci nella tenda di Druso, dove lasciarono la testa, si quietarono gli altri, ed ebbe fine quel romore. Più strepitosa e di maggior pericolo fu la sollevazion de’ soldati romani nella Germania, perchè quivi dimorava il miglior nerbo delle legioni sotto il comando di Germanico Cesare, che si trovava allora nella Gallia a fare il censo o sia la descrizione dell’anime. Si ammutinò parte di questo esercito per le stesse cagioni che poco fa accennai. Corse perciò colà Germanico; e siccome egli era sommamente amato, perchè dotato di assaissime lodevoli qualità, e il conoscevano per migliore di gran lunga che Tiberio, vollero crearlo imperadore. Costantissimo egli nel non volere mancar di fede a Tiberio suo zio che l’avea anche adottato per figliuolo, allorchè vide di non potere in altra guisa liberarsi dalle lor furiose istanze, cavò la spada per uccidersi. Quest’atto li fermò. Finse poi lettere di Tiberio, quasi ch’egli ordinasse in donativo ad essi soldati il doppio dello stabilito da Augusto; la promessa di sì fatta liberalità, e l’aver eziandio accordato il ben servito ai veterani, li placò. Ma il danaro non concorreva, e intanto giunsero gli ambasciatori di Tiberio, all’arrivo de’ quali di nuovo si sollevarono, e furono vicini a privarli di vita, per timore che fossero spediti ad annullar quanto avea promesso Germanico. Presero anche Agrippina di lui moglie, gravida allora, e il piccolo figliuolo Cajo, soprannominato Caligola. La costanza di Germanico, giacchè non poteano conseguire di più, feceli dipoi tornare al loro dovere. Ed acciocchè stando in ozio non macchinassero altre sedizioni, Germanico li condusse addosso alle terre nemiche dove impiegarono i pensieri e le mani per far buon bottino. Certo è, che Germanico se avesse voluto, sarebbe stato imperatore[p. 46] Augusto; tanto egli avea in pugno l’affetto di quel potente esercito, e il cuore eziandio del popolo romano. Ma superior fu all’ambizione la sua virtù. Cordialissime lettere perciò scrisse a lui e ad Agrippina sua moglie, Tiberio per ringraziarli14: fece anche un bell’encomio di loro nel senato ed ottenne a Germanico la podestà proconsolare, che forse dovea essere terminata la dianzi a lui accordata. Tuttavia internamente continuò più che mai ad odiarli, paventando sempre che in danno proprio si potesse convertire un dì l’amore professato dalle milizie a Germanico15. Non finì quest’anno, che Giulia, figliuola di Augusto e moglie di Tiberio, già per gli eccessi della sua impudicizia relegata in Reggio di Calabria, fu lasciata ovvero fatta morire di stento, se pur non fu in altra più spedita maniera. Sempronio Gracco bandito anch’egli, già passava il quattordicesimo anno, da Augusto nell’isola di Cersina presso l’Africa, in castigo della sua disonesta amicizia colla suddetta Giulia, fu anch’egli tolto di vita.

Note

  1. Gruter. Thesaur. Inscription., pag. 230.
  2. Euseb. in Chron.
  3. Sueton. in August., cap. ult.
  4. Dio., lib. 56.
  5. Sueton., Tacitus., Dio.
  6. Vellejus, lib. 2.
  7. Tacitus, Annal. lib. 1.
  8. Tacitus, ibidem, Dio., lib. 51. Sueton, in August., c. 59. Philo. in Legation. ad Cajum.
  9. Sueton. in August., cap. 101. Dio., lib. 56.
  10. Dio., lib. 57.
  11. Sueton. in Tiber., cap. 24.
  12. Vellejus, lib. 2.
  13. Dio., lib. 57. Tacit., lib. 1 Annal., cap. 16 et seq.
  14. Dio., lib. 57. Tacitus Annal., lib. i, c. 56.
  15. Tacito. Annal. lib. i. c. 57.