Antico sempre nuovo/Leone poeta

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Leone poeta

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Il cocomero A Giuseppe Chiarini
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LEONE POETA 1


Splende per l’ultima volta.... ravvolgesi il sole nell’ombra
     pallida, e muore.... già è nera la notte su te,
nera, o Leone.... le vene sono arse, nè il sangue vi scorre
     più.... già nel corpo esaurito ecco la vita finì:
Mòrte saetta lo strale: e velato di funebre panno
     sotto la gelida sua pietra uno scheletro sta.

Così parlava della morte il vecchissimo Pontefice: il quale pareva da lungo tempo sedere, bianco, diafano, tremulo nel vestibolo dell’infinito. Milioni di uomini ve lo vedevano, ed erano tentati di crederlo il Dio del luogo, il Dio avanti cui dovessero passare a uno a uno tutti i viventi, con molli passi, con tenui stridii d’ombre — interminabile fiumana di onde fantastiche — ed entrare, dopo gettato l’occhio sul vecchio eterno seduto in disparte, entrare e dileguare nella porta buia, della quale esso aveva le chiavi. Tutti gli uomini avevano a passare a uno a uno avanti a lui. Ed esso empiva i lunghissimi ozi dell’aspettazione jpterna mormorando suoi canti, fiochi e pallidi e gravi e monotoni. E la lin[p. 332 modifica]gua, nella quale li diceva, era di morti, era morta; e il tema di essi era la morte, che egli seduto nel vestibolo, sentiva sentiva ventare perpetuamente dalla porta buia. Ma egli era mortale anch’esso, e un giorno gli uomini non lo videro più al suo posto. Era entrato anch’esso nella tenebra aperta, e dileguato.

Era mortale, e lo sapeva. I canti che mormorava nella sua lunga vigilia — già lunga, ora un attimo senza tempo — quei canti non accompagnavano l’interminabile processione di quei passi e stridii d’ombre; quei canti egli li diceva a sè stesso rabbrividendo al freddo di quel ventilare continuo. Povero vecchio! era un uomo anche lui, e aveva comune con noi non solo la morte, ma, sebbene custode dell’infinito, sebbene da gran tempo — un nulla, ora — seduto nel vestibolo, sebbene, seduto lì, avesse veduto tutti i suoi coetanei del mondo arrivare, entrare e dileguare; con noi aveva comune il timore della morte. E con quei canti consolava il suo timore. L’elegia, per esempio, di cui ho riferiti, traducendoli, i primi tre distici, continua così:

Ma da’ suoi vincoli alfine fuggendosi-libera via
     l’anima, subito anela, arde di andare lassù;
corre, s’accelera: è quella la meta del lungo cammino:
     ne la clemenza sua Dio còmpiami i voti che fo.
Giungere io possa nel cielo, godere de l’ultimo dono:
     la visione di Dio splenda in eterno per me!
E mi riceva nel cielo, regina del mondo, Maria,
     che tra i nemici la via, guida sicura, m’aprì
(come io temeva!) alla patria. Lassù cittadino del cielo
     già Perchè tu mi guidasti, ho tanto premio, dirò.

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Maria! Il bianchissimo vecchio, avanti la gelida oscurità, si rivolgeva spesso alla soave visione, che lo veniva a trovare, della Vergine Madre. Veniva nell’atrio immenso, dove abitava appena il decrepito custode delle eterne chiavi, rannicchiato e tremante nella sua sedia; veniva luminosamente la Donna Nazzarena. Ed esso le indirizzava, in un suo ritmo di monotoni e rapidi singulti, preghiere insistenti, umili, lunghe come d’un bimbo spaurito che chiami la mamma nel terrore del buio nella solitudine della morte:

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Freddo! le braccia materne aprimi, o Vergine, tu!
caccialo via! ne l’inferno urtalo, il dèmone, giù!
Madre, sta qui! sono un vecchio, io, che più forze non ha!
gli occhi mi chiuda la tua mano ch’ha tanta pietà.
L’anima vola già via; buona, tu rendila a Dio!

Non è qui il sommo Pontefice che concepisce e dice una preghiera destinata a essere ripetuta dai credenti. È proprio esso, il languidulus senex, il povero vecchio che non ne può più, che prega, singultendo il ritmo del dolore comune. E quei singulti ci echeggiano nell’anima con una pietà che ha del profondo e del solenne, come non mai. Fratelli inconsapevoli, la Morte è. Non sentite il lamentìo, il balbettio del vecchissimo custode dell’infinito? È, è! Pensiamo a questo, non ci si distragga. In tali distrazioni, noi usiamo fare il male agli altri fratelli. [p. 334 modifica]

Non tutte le sue ultime poesie sono così lugubri. I «fioretti» da lui offerti a Maria Vergine, ora sono brevi epigrammi, ora elegie più lunghe, ora odi. Egli canta «con maggior plettro» in una elegia l’aiuto che dalla Madonna ebbero i cristiani nella battaglia di Lepanto, canta in un’ode saffica la santa famiglia.

Era questo un soggetto a lui caro, se volle proporlo con un premio ai pittori, nella Mostra Sacra di Torino. Traduco anche quest’ode, nella quale è molta grazia: molta grazia anche nei ricordi oraziani che vi si mostrano, come in una chiesa cristiana capitelli e fregi tolti ai templi degli dèi tramontati.

          Già la chiesa raggia di lampadari
          molti, l’ara già di ghirlande è cinta
          e d’incenso pio fumigando odora
                                        l’incensiere.

Viene in mente quel soavissimo principio oraziano (IV-11) nel quale si prepara la festicciola di mezzo Aprile, la festa di Venere marina:

          D’un Albano più che novenne ho pieno
          pieno un caratello, ne l’orto ho l’appio
          buono, o Phylli, per intrecciare i serti;
                                        edera ho molta

          che sol d’essa adorna i capelli, brilli;
          e d’argenti ride la casa; e l’ara,
          di verbene pie coronata, il sangue
                                        vuol d’un agnello;

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          ha la sua faccenda ogni mano; attorno
          vanno in fretta misti a le ancelle i servi;
          la fiammata trema rotando in nero
                                        vortice il fumo.

Il poeta cristiano continua così:

          Forse che vogl’io celebrar con l’inno
          gli avi re del figlio del sommo Dio?
          di David la casa e di quell’antica
                                        gente la gloria?

          No: più dolce m’è ricordar la casa
          piccolina di Nazaret, e quella
          povertà del bimbo Gesù, e quella
                                        tacita vita..

          Da l’estreme piagge del Nilo, come
          il conduce un angelo, il Dio fanciullo,
          dopo molti affanni, ritorna in casa,
                                        salvo, del padre.

          Imparando l’arte del padre gli anni
          prende e passa di giovinezza, occulto;
          e da sè compagno si presta a l’umile
                                        opra di fabbro.

          — Il sudor m’irrighi le membra — disse,
          — pria che il sangue che verserò, le bagni:
          anche questa pena, a salvar l’umano
                                        genere voglio! —

          Sta seduta presso il figliuol la madre
          pia, la sposa pia presso l’ùomo, lieta
          se con dono amico ella può gli stanchi
                                        rifocillare.

Il quadretto è disegnato con parca soavità. Ora viene una nota più forte ancora che soave, ma l’uno e l’altro:

          Aiutate, voi che il sudor provaste,
          che il dolor sapeste, i meschini al mondo,

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          cui la povertà tra le spine, rilut-
                                        tanti, sospinge!

          A cui splende felicità, togliete
          voi superbia: cuore voi date pari
          alla sorte: a chi vi domanda aiuto
                                        voi sorridete!

Un’altra ode saffica, questa al modo pindarico d’Orazio, è per la conversione di Clodoveo e a glorificazione di Francia.... Leggendola, dopo l’idillio precedente, dopo l’amorosa pittura della famigliuola povera, dopo l’invocazione che ricorda le fiere e sante parole del Magnificat, provo ciò che chi era alla luce e al tepore del sole, prova al repentino sapravvenire di una nuvola. Ahimè? la nuvola che abbassa ad un tratto il tutto, è la politica. Ahimè! mi ci par debole anche il latino, qui. Tua maior natu può significare «la tua figlia primogenita»? Dubito.

Ma altro che proprietà di lingua! Udite!

          O quot illustres animae nefanda
          Monstra Calvini domuere....

Ahimè! Ahimè! qui si celebra anche la Saint-Barthelemy!

Passiamo ad altro. Rifugiamoci in casa di Ofello. Il bonus Ofellus è un personaggio oraziano, un buon contadino che loda la frugalità e biasima la ghiottornia. Al medesimo uffizio lo resuscita Leone, in una «Epistola» di 85 versi. [p. 337 modifica]

L’imitazione è certo soverchia; i versi composti di mezzi-versi oraziani, non mancano; pure vi abbonda la solita grazia. Il rammodernamento è fatto con molto spirito; quando poi si pensa che tale dettatore di precetti di lunga vita era il decrepito e frugalissimo Leone, il diletto col quale seguiamo la garbata poesia si fa intenso e noi sorridiamo di compiacenza.

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Cura primissima, la pulizia! senza sfoggi apparecchia;
netti, che lustrino, i piatti, su bianca tovaglia, di neve.
Fatti servire de’ vini, nè poco intrugliati nè punto;
e distraendoti al fine, carezza il tuo cuore col dolce
bere e ricrea, desinando con lieta corona d’amici;
ma dall’ebbrezza ti guarda, non troppo ti fida del vino,
nè ti rincresca sovente ne’ calici mescere l’acqua:
— l’acqua! non ebbero gli uomini un dono maggiore di questo,
nulla che sia per più cose diverse più utile in uno; —
scegliti i pani di fior di farina, non morti nel forno:
prenditi i cibi che dà la gallina, l’agnello ed il bove,
senza timore; le forze ti assodano questi nel corpo:
ma che sien frolle le carni, ma che le vivande non guasti
la pastinaca e la salsa di feccia di vino, e di pesci!
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Poi prediligi le uova del giorno o ti piaccia a leggiero
fuoco scaldarle o mangiarle assodate ne’ brevi tegami,
o più gradito ti sia in un sorso succhiartele crude:
come che tu te le mangi, son l’uova vivanda salubre.
Poi, qualche erbaggio e legumi novelli, sfioriti d’allora.
Poi de la fertile vigna le dolci primizie, le dolci
pigne spiccate a la vite, di mezzo a le pampane; prugne,
pere, ma prima di tutte, le mele mature, che bellamente
allogate in canestri coronino rosse la mensa..
Ultima venga la bruna bevanda di bacche tostate,
quella che Moka ti manda ferace da l’Arabo lido:
tu centellina pian piano ed a fiore di labbra la nera
bibita: il tiepido sorso a lo stomaco è molle carezza.
Questo pel vivere parco: tu questi consigli senz’altro
segui se giungere vuoi sino a tarda vecchiezza robusto.

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E sino a tarda vecchiezza giunse il Pontefice poeta.... Poeta? Il lettore può giudicarlo. Certo egli non era un vecchio dilettante, che scambiasse lodi coi letterati, minori nel tempo stesso e maggiori di lui; cambiasse le lodi sue con le loro, come a dire piccole e preziose monete d’oro con grossi patacconi d’argento. Non era un Arcade che nel poetare svestisse la sua personalità per indossarne un’altra — questa è l’Arcadia, credo. —

Anche l’uso della lingua latina è in lui, e per la sua condizione e per il genere degli argomenti, naturale; nè solo perchè è lingua universale ma perchè è morta; nè tanto perchè è la lingua di Roma, quanto perchè è quella dei riti e delle preghiere. Ed è poesia sincera la sua; quindi, bene o male, più o meno, poesia. Nel fatto se noi non ne vogliamo conchiudere, per questa parte almeno, ch’egli fosse un grand’uomo, troviamo per altro in questi suoi sospiri e sorrisi, quello che di lui spariva sotto il «papale ammanto» tra il ventilare dei flabelli e il fumigare dei turiboli: troviamo l’uomo.

Note

  1. Scritto in morte di Leone XIII e pubblicato da «Il Marzocco», a cui la sorella dell’autore l’inviò, nel decennale della morte del Pontefice..