Archivio Glottologico Italiano - Vol. I/Altri adattamenti elementari

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Altri adattamenti elementari

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Trascrizioni Saggi ladini

[p. xlviii modifica]


Chiudiamo con alcuni additamenti elementari, che in parte sono dichiarazioni più o meno necessarie di particolari spedienti o termini che qui si sono adottati, e in parte avvertimenti che facilmente si accompagnano con quelle dichiarazioni, e forse non saranno ugualmente superflui per tutti i lettori.

L’indagine storica intorno ai singoli elementi fonetici, richiede che si distingua di continuo la particolar posizione che ciascun d’essi [p. xlix modifica]occupa nella parola; poichè altra può essere la sorte di una vocale, o di una consonante, secondo che sia iniziale, mediana, o finale. Così, a cagion d’esempio, l’e latina, pur non accentata, non si perde nel francese, quando sia iniziale; e all’incontro vi si perde di continuo l’e latina fuori di accento, che riesca finale. Il t latino, che sempre rimane incolume, pur nel provenzale o nel francese, quando è iniziale, è all’incontro regolarmente ridotto a d, e dileguato, nella combinazione mediana che si ha p. e. in saludar prov., e saluer franc. Ora, queste diverse posture dei suoni, isolatamente citati, qui si enunciano, senza spendere parole, col munir gl’iniziali di una lineetta orizzontale a diritta (p. e.: t-); i finali, o uscenti, di una a sinistra (p. e.: -t) e i mediani, di una per parte (p. e.: -t-)1.

Questa triplice distinzione ancora però non ci porterebbe se non a scernimenti imperfettissimi. Così è certamente vero che il t passando in d, o dileguandosi, in saludar o saluer, subisce dei danni che non soffrirebbe mai se fosse iniziale; ma è vero insieme che il t latino, se pur mediano, resta intatto nei tipi francesi mortel e sauter. Gli è che la base ‘salutare’ ha il t mediano fra vocali, laddove le basi ‘mortale-’ e ‘saltare’ hanno il t mediano fra consonante e vocale. È questo un esempio elementare dell’importanza, che ha, nella storia del singolo suono, la qualità dei suoni attigui; e un altro, concernente la storia dell’e, ne avemmo già nel proemio (p. xxiii-iv). Ora, anche molta parte di simili circostanze dei suoni, può assai facilmente essere tradotta in comodissime formole. Così: t è un t mediano fra vocali; t è un t mediano fra consonante e vocale; t è un t finale preceduto da consonante; ecc.

Ma l’influenza d’un suono sull’altro, si esercita anche a distanza. In un plurale com’è gloriu̇si, allato al singolare glorióso (vedi per es. pag. 425-7), non abbiamo alcuna irregolarità od alcun artifìcio; ma abbiamo l' latino che nella determinata fase dialettale si riduce [p. l modifica]regolarmente ad u, per effetto dell’i che è all’uscita, laddove resta ȯ nel singolare, perchè la vocal finale è diversa dall’i. E la regola si può enunciare a questo modo:

u = ṓ...-i,


che significa: qui si ottiene u dall’ lungo in accento, dato l’i finale.

Si può così avere un’alterazione come transitoria del suono interno di un dato tema nominale o verbale. E un altro caso di alterazione transitoria può aversi per l’effetto che il suono iniziale di una parola eserciti sul finale di quella che precede, oppure per quello che il finale della precedente eserciti sull’iniziale di quella che sussegue. Il secondo caso, frequentissimo, come ognun sa, negli idiomi celtici, e non estraneo pure all’Italia Superiore, si avverte, in modo assai notevole, nei dialetti sardi; per es.: sos bȯes i buoi, u̇nu bȯe un bove. Le affezioni che i suoni subiscono per entro alla singola parola, si possono così, in qualche parte, comunicare al complesso fonetico, che due diverse parole vengono a formare per la loro contiguità nel discorso. Di un terzo, e ben più frequente caso di alterazione transitoria, che si collega in vario mtfdo col primo, sarà fra poco ritoccato.

Intanto fermiamoci a notare, che se nel frane, sauter, addotto di sopra, il t rimane intatto perchè è preceduto, nella sua base, da altra consonante (saltare), questa conservazione è un effetto che sopravvive alla sua causa, poichè sauter oggi ha veramente un t fra vocali. E se il napoletano ha uórdene al plurale e órdene al singolare (pag. 425-6 in n.), egli serba nella prima forma, per fenomeno congenere di quello che prima avemmo in gloriúsi allato a glorióso, l’effetto dell’i finale, che nella fase odierna di quel dialetto più non si distingue dall’e del singolare; e quindi ha un da ó, o vogliam dire una specie di alterazione, che è anch’essa l’effetto di una causa ormai smarrita. Ancora citiamo il frane, être, che ha un t aggiuntizio, voluto, qual termine conciliatore, dalla combinazione etimologica s’r (es’re; estre dell’ant. franc.), così come il d è voluto dalla combinazione n’r (gen’re gendre). Ma l’antico estre ha poi dovuto lasciar tacere il suo s (cfr. pàtre pastre, pástor; ecc.); e l’intrusione del t resta ancora l’effetto di una causa obliterata. [p. li modifica]

Ètre o estre hanno dunque la loro ragione in es’re, cioè in una figura fonetica, che rappresenta una fase anteriore al francese dei più antichi saggi letterarj; non però ancora la fase romana, ma come la fase fondamentale della lingua francese. Questo es’re, che non ricorre in alcun monumento, o a mala pena si può eruire da qualche forma composta, si ricostruisce per rifare con evidenza la storia del vocabolo; e le forme ricostrutte si sogliono distinguere per un asterisco (*es’re). La base latina hordeo-, per dare un altro facile esempio, non dà immediatamente il nostro orźo-, ma è prima avvenuto, come suol di continuo avvenire, che l’e, fuori di accento e nell’iato, si riducesse ad i, e poi quest’i si facesse j: hordeo- *hórdio *hordjo orźo. Le figure intermedie, o ricostrutte, non avrebbero del resto, come ognun vede, alcun valore scientifico, se non riposassero sopra serie di analogie, per ogni più minuta parte convenienti e sicure2.

Ma *essere non si sarebbe contratto ad *esre, se l’e mediana fosse stata accentata; come l’e di hordeo ha dovuto essere fuori di accento (f. d’acc), od essere átona come noi diciamo, per ridursi all’i di *hordio; nè, d’altra parte, alcun dialetto avrebbe avuto generúsi, per influsso dell’-i, se non fosse stato il caso di un ō accentato o tónico. Ecco effetti dell’assenza o della presenza dell’accento, ecco un minuto saggio dell’infinita importanza dell’accento nell’istoria naturale della parola. Tutti ormai sanno del resto, almeno indigrosso, come la vocale accentata ci offra, nelle evoluzioni della parola romana (alle quali il nostro discorso ora più particolarmente si applica), una storia intieramente distinta da quella della vocale che ò fuori d’accento3; e in questo stesso proemio già sen ebbe qualche prova (pag. v), nè si tarda a riparlarne. Qui intanto notiamo, che, non di rado, e particole e pronomi ci mostran soggetta la loro [p. lii modifica]vocale alle affezioni dell’atonia, per la ragione che vengono a dipendere dall’accento della parola successiva, ossia riescono in proclisi (v. p. 105 ecc.); e avvertiamo ancora, come vada considerata, per la sorte delle vocali átone nella singola parola, la particolar postura che esse tengano rispetto alla tonica; se, vale a dire, la precedano oppur la séguano, nel primo dei quali casi le diciamo protóniche, nel secondo: postóniche; ne vada inoltre trascurata la misura della distanza che le separa dall’accento, sia nel precederlo, sia nel seguirlo. Ma noi avremo frequenti occasioni di vedere, che pur la sorte delle consonanti possa dipendere dall’accento che signoreggia la parola; e così troveremo, a cagion d’esempio, che, in una certa fase dialettale (p. 513), date le combinazioni latine cl pl ecc. in mezzo alla parola e precedute da vocale, esse perdano la loro esplosiva se sono postóniche, e la conservino se protóniche. La qual regola si tradurrebbe nella formola seguente:

l = v̱'cl- v̱'pl- ecc.

cl ecc. = v̱'cl-’ ecc.4.

Circa la vocale accentata, va naturalmento considerato, se nell’archetipo ella sia lunga o breve, in posizione o fuor di posizione. Abbiamo così veduto di sopra, che l’it. suóno (spagn. suéno) abbia l’ perchè si tratta di un o breve accentato latino (ó), laddove colȯre ha un o scempio e chiuso (), perchè si tratta di un o lungo accentato latino (). Ma nella posizione, l’italiano non può mai avere il dittongo per l'ȯ latino, laddove lo spagnuolo, per dire di lui solo, il può (fuérte ecc.). Nella posizione, del resto, può ancora scernersi la vocale che per propria sua natura fosse lunga (v. p. 34-6, ecc.), o sin da’ tempi romani assumesse un suono chiuso (locchè torna qualitativamente al medesimo); e non è punto un capriccio del linguaggio se noi diciamo, con apparente incoerenza, giusto (jūsto-) e forca (fŭrca), oppure spe̱ndere e vẹndere. E parecchie distinzioni vanno ormai o andranno fatte circa la diversa qualità della posizione che v’ebbe o dura nelle vario fasi evolutive [p. liii modifica]della nostra parola. La vocale tonica che è latinamente nella positio debilis, e in ispecie nella posizione per + r (cioè: consonante esplosiva cui sussegue r), si riflette assai facilmente, negli idiomi romanzi, per modo non diverso da quello della tonica fuor di posizione. Ragioni particolari avviene poi di scernere fra le diverse posizioni che surgono a mano a mano nelle nostre basi (p. e.: oclo oculo; palja palea; spat’la spatula), e fra le diverse posizioni spente o non più sentite (p. e. po puȯ = post, uȯgi=*oclji; cfr. p. 453-4 ecc.).

Quasi superfluo, del resto, avvertire, che procedendo nell’indagine con le norme già assodate, queste si miglioran di continuo, e di continuo portano alla scoverta di nuove norme, diversamente attive e nello spazio e nel tempo. E la sete della ragion delle cose si fa tanto più intensa, quanto è maggiore e più mirabile la quantità delle ragioni scoverte. L’anomalia, o l’eccezione, son fantasmi del raziocinio; e veramente si riducono a problemi storici, che la scienza odierna vien rapidamente risolvendo, per poi affrontare nuove serie di più ardui problemi, che scaturiscono dalle sue risoluzioni stesse. Nessun fenomeno, pertanto, si sottrae all’avidità infinita dell’osservatore; e anche i fatti negativi si traducono, per la sua tenacità, in affermazioni continue. Non si è ancora potuto trovare alcun idioma romanzo che distingua, ne’ suoi riflessi, tra l’a breve e l’a lungo delle basi latine; ma se pur si abbia a trovarlo, è ormai provato, che, in questa vocale, la differenza tra lunga e breve era men perspicua, sul labbro del popolo romano, che non nelle altre quattro. Il francese si separa da una lunga serie di parlari alpini e cisalpini, che hanno con lui una attenenza strettissima, per ciò ch’egli mandi sossopra i riflessi dell’ó lungo e del breve, che pur da quegli affinissimi idiomi sempre si mantengono distinti. Questo pure si può considerare come un fatto negativo; ma entra in quella serie di fenomeni, pei quali si afferma, che la quantità della reazione esercitata dagli strati aborigeni sulla sovrapposizione romana, sia stata più gagliarda, più sconvolgente, nella region francese, che non fosse in altre regioni, dove pur non era diversa la qualità dell’elemento ante-romano che reagiva. Il fatto negativo, di cui parliamo, si risolve, del resto, veduto più d’appresso, in un fenomeno di alterazione terziaria. Si tratta veramente, [p. liv modifica]che l’o lungo mostri gli stessi sviluppi del breve, e così in ispecie si continui per eu, che è il legittimo dittongo di queste. L'antico ha imprima colà perduto il suo carattere specifico, e cadde poi a confondersi nell’analogia dell’. Di alterazioni terziarie così ne incontreremo in varj idiomi romanzi, e servon sempre di misuratore etnologico, perchè tanto più abondano, quanto è minore la quantità del succhio latino. Ma di solito son più regolari, che non la francese di cui si discorreva, poichè appajono come alterazioni normali d’una normale alterazione più antica. Un ū́ latino, p. e., dà normalmente ȯ in molti idiomi romanzi; il quale o secondario5 darebbe poi, nei casi a cui alludiamo, per questa che dicesi alterazione terziaria, lo stesso sviluppo, cioè lo stesso dittongo ( p. e.), che dà il primario.

Chi ha poi bisogno che ancora si ripeta, come l’indagine rigorosa non si fermi alle apparenze, e trovi di continuo che sotto la ugualità superficiale si celino degli screzj o pur diversità assolute, laddove può aversi medesimezza intrinseca sotto aspetti stranamente varj? Di coincidenze fortuite, e di più o men gravi divergenze tra i riflessi dell’identica base, deve il glottologo parlare ad ogni tratto. Così, se vogliamo chiudere con qualche esempio che ricorre nelle pagine qui offerte agli studiosi, noi troveremo (p. 160) che vocs, per ‘voce’, di una data fase dialettale, sia una molto grave alterazione della parola latina che vi pare esattamente riprodotta. Il francese peindre, e il pénder delle varietà alto-bellunesi (num. 189), sono bene entrambi il riflesso normale e legittimo di ‘pingere’; ma la fase immediatamente anteriore è pénj're péin’re pel francese (cfr. p. 92 n.) e pénźer alle Alpi venete. Se inoltre all’‘amanza’ il francese dice maîtresse e il friulano madresse, non perciò può riconoscersi alcuna affinità radicale fra questi due vocaboli, poichè il primo riviene a *magistrissa, ed il secondo ad *amatrissa. All’incontro è dimostrato, con sicurezza matematica, che tlalg̓ e chiodi o chiovi, sien l’identica parola (p. 357).

  1. Funzione affatto diversa ha la lineetta che si aggiunge ai temi nominali (dono-, mente-, ecc.). Segna le basi latine, classiche o volgari, a cui rivengono le voci romanze addotte allo studio.
  2. Così *hórdio sta a hordeo-, come olio a oleo-; e *hordjo- a hórdio, come fóljo (= foglio) a folio-. Finalmente, orźo a *hordjo, come meźźo a medjo.
  3. La quantità della divergenza tra formola tonica e formola átona, si può fare grandissima. Così, in una stessa fase dialettale, lev- in accento dà leiv-, fuori d’accento dà alv (p. 221 n ); e, ancora in una stessa fase, recip-, coll’accento sulla seconda, dà arćaiv-, e tutto fuori d’accento: arfš- (p. 223 n.).
  4. È comodo il rendere in majuscole, o majuscolette, le combinazioni o gli elementi della lingua fondamentale, da cui si ripete la ragione del fenomeno studiato.
  5. Com’è secondario un o che vien da u, così, se vogliamo un esempio dall’ordine delle consonanti, è secondario un d che viene da t.