Atlantide/Canto VIII
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CANTO OTTAVO
O possente su tutti, o veneranda
E di culto ben degna, alma regina,
Cui l’età, che dal cielo esuli manda
Gli antichi numi, il facil collo inchina;
Tu che di te pensosa, in ammiranda
Guisa volgi a tuo pro l’altrui rovina,
E con dotti rimbombi e vanti austeri
L’anime adeschi ed ogni gente imperi;
Maga gentil, che con circèa mistura
Gli aspetti delle cose orni e trasformi,
Pomposa dea, magnifica Impostura,
Che del tuo nume il secol vecchio informi,
Se mai l’itala gente avesti in cura,
Sotto il tuo patrocinio anch’io vo’ pormi,
Io che finora, ahi tracotante e stolto,
Sdegnoso il tergo a’ tuoi delubri ho volto!
Con che arti potrei, folle, con quali
Penne toccar le gloriose cime,
Se l’industrie son tue, se tue son l’ali,
Onde sorge anche il verme al ciel sublime?
Per te fama e possanza hanno i mortali;
Per te pregio il saper, vanto le rime;
Solo per te l’industrioso coro
Degli apostoli tuoi sguazza nell’oro.
Tu dall’altar con mistica parola
Cieli ed inferni all’uman gregge assegni;
La barbogia Sofia tu dalla scuola
Cacci e vie più lucrose apri agl’ingegni;
Tu con fragor di torbida gragnuola
Il Foro invadi e a vender tutto insegni;
Tu dei morbi la pallida coorte
Debelli, e presto domerai la Morte.
Sì, domerai: d’avide lenti armata,
Com’altri suol ne’ ceruli splendori,
Tu ne’ marcidi corpi inesorata
L’iridi affondi e strani esseri esplori:
Ecco, una turba immensa, innominata
Tutti popola e infesta i nostri umori,
E ne’ visceri stessi, ond’è nutrita,
Congiura ingrata a disgregar la vita.
Ma tu con magisteri alti ed acuti
Così l’apposti e la persegui in caccia,
Che perfin tra lo sterco e negli sputi
Ne sorprendi ogni specie ed ogni traccia;
E sì col vetro indagator la scruti,
Che sai dir come viva e ciò che faccia,
E le sembianze, il numero, i natali
E i connubj ne sveli e i funerali.
Nè di ciò paga, con pensier fecondo
Scegli e nutrisci i piccioletti mostri
Di brodo acconcio, e in chiari vetri al mondo
Meraviglia gradita, indi li mostri.
Ghigna la Morte, è ver; preme l’immondo
Stuol dei morbi tuttora i petti nostri,
Ma vincerai: già le gazzette han piene
Delle tue panacee natiche e schiene.
Nè su’ minimi solo e su l’oscura
Materia affermi il tuo solenne impero,
Ma penetrando il cor della Natura
Dalle latebre sue scovi il pensiero;
Segni il tempo che a volo esso misura
Attorno al cerebral doppio emisfero,
Segui ogni via ch’ei corre al corpo intorno
Con biglietto d’andata e di ritorno.
E poi che vivo a' dotti esperimenti
Dato incider non è l’uman cervello,
(Tanto ancor può su le ritrose menti
Misto a vecchia ignoranza orror novello!)
Oh magnanimo ardir, negl’innocenti
Bruti conficchi il salutar coltello,
E a spettacol de’ tuoi, mutili e sbrani
Pecore vive e palpitanti cani.
Salve, o magica dea! Se di te degno
Non sorge ancor della mia lode il suono.
Se rude è il verso mio, tardo l’ingegno,
Dammi, prego, pietà non che perdono:
A’ ministerj del tuo nobil regno,
Il sai, magica dea, novizio sono;
E poco è omai, che seguitando i passi
De’ Due che canto, alle tue soglie io trassi.
Poi che vòlto alla strana isola il tergo,
Delle donne ridendo, ebber costoro,
Tutta la notte su l’ondoso albergo
Ninnati fûr da un venticel canoro;
Ma appena il Sol ruppe il notturno usbergo
Con le saette sue di rose e d’oro,
Si svegliâr presso ad un pomiceo monte,
Che ronchiosa dal mare alza la fronte.
Già di boschi solenni e di selvette
Ospitali, di pingui orti e di prati
Sì scure la montagna ebbe le vette
Come d’aprico verde i fianchi ornati;
Quivi Sofia secura in campo stette
Contro gli errori a debellarla armati;
E di puro costume e d’ardua fede
E d’eroica fermezza esempio diede.
Al sacro monte, all’isola felice
D’ogni dove accorrean gli animi austeri,
E dal labbro dell’alta educatrice
Perigliosi apprendeano utili veri,
Che sparsi poi nel secolo infelice
Fiamma accendean di liberi pensieri,
Al cui lume cadean pallidi e spenti
Gl’idoli che usurpate avean le menti.
Ora, non so per quale ira celeste,
Squallida e nuda la montagna è fatta,
E un furor di tremuoti e di tempeste
Le visceri ne introna e il ciel ne imbratta;
L’abita in lignee case, in varia veste
Un’irsuta, ciarliera, avida schiatta,
Che al volto e agli usi esser potrebbe affine
Alle accolte in tribù scimmie abissine.
Su su da’ lidi alle montane lacche,
Varie d’altezza, a color vario pinte,
Scaglionate vi son certe baracche
Da clamorosa folla invase e cinte;
Diverse mercanzie, tende bislacche,
Fogge strane, aspre voci, ambigue grinte
Fan tale agli occhi ed all’orecchie offesa,
Che al mercato parrebbe essere in chiesa.
Già tutti Esperio si sentía sconvolti
I sensi dal frastuon vario e profondo,
Quando Edea: Credi tu, che qui raccolti
Sien tutti gli energumeni del mondo?
T’inganni: questi che ti sembran stolti,
Son persone prudenti e a doppio fondo;
E questo luogo che ti par sì reo
È, come voi direste, un Ateneo.
Quei che là curvo arranca e impolverato,
Di libri carco e nei pensieri immerso,
È Bracalon, filosofo bollato
Che va dietro al perchè dell’universo;
E benchè in ver non l’abbia ancor trovato,
Ha trovato da un pezzo il modo e il verso
Di far bollire entro lo stesso vaso
Rosmini e Galileo, Bruno e Tommaso.
Bolle il magico vaso, e il buon dottore,
Che non pure al suo bene, all’altrui pensa,
Ne raccoglie l’eclettico vapore
In appositi ingegni e lo condensa;
Ne forma un elisir grato all’odore,
Buono al palato, e al popolo il dispensa,
Spiegandone con dotta sillogistica
La sicura efficacia antiflogistica.
L’insigne professor Gazzagalante
In fama ed in saper con lui gareggia,
Ma il vince in cattivarsi tutte quante
Le grazie della Curia e della Reggia;
Disinvolto, piacevole, elegante
Con la piazza talora ei coccoveggia;
E un inchin fatto a Cristo, uno a Berlicche,
Porge al mondo lo scibile in pasticche.
Ciò che costui desidera su tutto
(Ma non so se da senno o per ischerzo)
È sposar la quaresima al prosciutto,
E fra due litiganti entrar da terzo;Fonte/commento: Pagina:Atlantide (Mario Rapisardi).djvu/267
Metter d’accordo il galateo col rutto,
L’Italia con Leon decimoterzo,
La religione e la filosofia,
Sua Maestà la Forca e l’Anarchia.
Vengono in questo a un’ampia casamatta
Alta sopra un poggiòlo e sì fumosa,
Che di fumo e di nuvole par fatta
O d’altra simigliante aerea cosa;
Certe ceste di vimini e d’ovatta
Galleggian sopra alla marea nebbiosa,
E in ciascuna v’è un uom, che all’aria estolle
Fuor d’un cannello iridescenti ampolle.
Costoro, disse Edea, sono gli Astratti,
Filosofi di tempra alta e sublime,
Ch’al pensiero plebeo lasciano i fatti
E ad indagar si dan le cause prime;
La Natura con lor discende a patti;
Ovvie a lor son dell’Essere le cime;
Lor guida è Dio, lor casa il firmamento....
Càzzica, esclamò Esperio, e fece vento.
A meglio investigar l’anima e il mondo
E chi ’l mondo creò con arte estrema
E per conoscer d’ogni cosa il fondo
Adoprano un pallon detto Sistema:
Con questo quant’è il ciel girano in tondo.
Scovan di tutto la ragion suprema,
E a forza d’io, non io, d’ente e non ente,
Crean, come il lor Dio, tutto dal niente.
Sotto al pallon, co’ corpi in due piegati,
Mettonsi a mele in su per ore ed ore,
E a denti stretti, con fieri conati
Il concetto vapor cacciano fuore,
Finchè, come dio vuole, a via di fiati
Spiega l’aereo mostro il suo valore,
E nella cesta, c’ha sotto la pancia,
Un dei più svelti accoglie, e al ciel si lancia.
Quei che su tutti or sorge, e il dotto muglio
Gitta quaggiù dalle usurpate altezze
È Spetino dei Ferri, inclito intruglio
D’ablativi assoluti e di sciocchezze;
Uom bravo a farsi onor del Sol di luglio
E a rivestir di suo le altrui stoltezze;
Scopritor d’un chimerico paese,
Ond’offre il trono a chi gli fa le spese.
Ricco è il fondaco suo di luccicanti
Minuterie, di lattei sillogismi,
D’assiomi che pajono brillanti,
D’illusioni a mo’ d’enteroclismi;
Sparsi vedi qua e là per tutti i canti
Giudizj a scatto ed argomenti a prismi,
Ed intuiti, che sol che tu li tocchi,
Balzan fuor degli astucci e sbarran gli occhi.
Là custodita dietro alle vetrine
Sta la Ragion, come impagliata gatta;
Qui stan le innate Idee, come sardine
Sott’olio, dentro scatole di latta;
Ve’ l’Apriori dal ritinto crine
Dar sul muso a Bacon con la ciabatta;
Ve’ l’Assoluto che con mutria sciocca
Fa il suo bisogno alla Scienza in bocca.
O Roberto Ardigò, che dalla torre
Solitaria del tuo nobil pensiero
Gridi e t’affanni i vecchi errori a torre
Provando che son pari il fatto e il vero,
Guarda come qui folto il volgo accorre,
A cui sembra troppo erto il tuo sentiero,
E come a contemplar gli aurei nonnulla
Qui s’indugia ammirando e si trastulla!
Non credere però, che di tal gioco
Resti ognun così lieto e sodisfatto,
Che cercar poi non voglia a tempo e loco
Pasto migliore a’ suoi bisogni adatto:
Chè il gregge idealista, o molto o poco,
Meglio di te sa conformarsi al fatto,
E con buon naso e con parola enfatica
Ragion pura distingue e ragion pratica.
Un bazzarre v’è qui, dove si mesce
Quanto v’ha di più incongruo e di più strano,
Dove ognun, che non sia carne nè pesce,
Può comprare un sapere utile e piano,
Saper che più del tuo facil riesce,
E non è come il tuo superbo e vano,
E che infin mette capo a fare intendere,
Che tutto è merce e può comprarsi e vendere.
Soffici idee, dottrine malleabili,
Teorie rimessive e riducibili,
Sentenze anfibie, astuzie commerciabili,
Ideali sonanti e commestibili,
Programmi sovra il proprio asse rotabili,
Riformette discrete e digeribili,
Menti a zig-zag, coscienze a biribisso
Qui si vendon per poco, a prezzo fisso.
Vedi agitarsi là quel mingherlino
Grigio, sudicio, losco, invecchignito,
Che sul labbro ha la celia di Pasquino
E come arcobalen vario il vestito?
Eppur, benchè sì guitto e sì piccino,
È critico, orator, capopartito,
Come dir tre Cagliostri in un sol tomo,
Tre nullità che formano un grand’uomo.
È questi l’onorevole Arciguajo,
Chiacchierin saccentuzzo e impertinente,
Che con quattro facezie e con un pajo
Di paradossi in grazia entrò alla gente;
Si levò dal natio suo mondezzajo,
Nome scroccò d’arguto e d’eloquente;
E a dire il vero, egli ha l’impostatura
D’un abate Galiani in miniatura.
L’opera in che più suda e in che più vale
È dondolarsi fra gli estremi e il centro,
Cinguettar su la scienza universale,
Non indagar nessuna cosa addentro,
Danzar su l’orlo al codice penale
Svelto, animoso, e non mai darci dentro,
Lodar secondo i casi il bello e il brutto,
Suo pro cavarne e sogghignar di tutto.
Sotto al suo patrocinio alto e cortese
Gli onniscienti in equilibrio stanno,
Che il dritto e il torto vendono al paese
A venti e trenta mila lire all’anno,
I paladini dell’età borghese,
Gli eroi che tutto sanno e tutto fanno,
Gli avvocati-arcolaj, gli uomini-intrugli,
Tribuni, bottegaj, vendigarbugli.
Il multiforme professor Fattoto
Della cricca mascagna è il braccio dritto.
Che procedendo dall’ignoto al noto,
Morale insegna, Economia, Diritto;
Di su, di giù, da mane a sera in moto,
Or con questo or con quel sempre in conflitto;
Suo studio è l’Ateneo, sua casa il Foro:
Semina frasi, e miete gloria ed oro.
Versatile, ambidestro, avido, astuto,
Della parola schermidor gagliardo,
Freddo qual serpe, qual pugnale acuto,
Pronto all’assalto, al ritirarsi tardo,
T’intorpidisce col ghignetto acuto,
Ti ghiaccia il cor col fascino del guardo,
T’impiaga alfine, e nella piaga cola
Funesto il miele della sua parola.
Ben diverso da lui, non però meno
Famoso è il professor Sesquipedale,
Che del sapere, onde il gran buzzo ha pieno,
Allaga tuttodì d’Astrea le sale:
Sgorga l’eloquio suo fuor del suo seno
Come nuovo diluvio universale;
Ogni periodo con latin costrutto
È un gonfio fiume, ogni parola un flutto.
Miran gli astanti impensieriti e mesti
Crescer la piena immensa e rotar massi
Di codici divelti e di Digesti
Ed irte glosse ed eruditi ammassi,
Desolar del Diritto i campi onesti,
Dell’offesa Ragion chiudere i passi,
Ruinar del Buonsenso i vecchi ponti,
E van di corsa a riparar su’ monti.
Suo discepolo in leggi e in procedura,
Ma d’astuzia e di frodi a lui maestro,
È Carino del Re, cui diè natura
Tutto per far da ciondolo al capestro;
Uom di modi elegante e di figura,
E di lingua del pari e di man destro,
Ma di pensieri tortuosi e bui,
Ladro dell’oro e delle mogli altrui.
Trappolando e truffando abile, accorto,
Corse a’ codici in barba il bel paese,
E benchè sempre in tresche infami assorto,
Sempre trovò chi gli fornì le spese;
Biribissando la ragione e il torto,
Di gonna in gonna ad alti gradi ascese,
E nel tempio di Temi or siede a scranna,
Da cui, reo non punito, il buon condanna.
— O mercanti di frodi, o degli umani
Consorzj in ogni tempo, e più nel nostro,
Arruffatori perfidi e villani,
Sempre i buoni vedrò sotto il piè vostro?
Voi che ognor pronte ad arraffar le mani
E a gracchiar sempre aperto avete il rostro,
Solo in frodi e in sofismi acre l’ingegno,
Voi sempre avrete i primi onor del regno?
Istitutori voi, che l’arte sola
D’ordir litigj, anzi tranelli, avete?
Educatori voi, che la parola
E il pensiero e l’onore e il cor vendete?
Legislatori voi, che di Lojola,
Di Cagliostro e di Giuda alunni siete?
Voi di leggi custodi, anime brutte,
Cui sol mestier è il calpestarle tutte? —
Parole! disse Edea; nobili e vere,
Ma vane e vecchie più del primo topo;
In certi casi, amico, è uman dovere
Menar prima le mani e parlar dopo.
— Io son pronto a menar.... — Meglio è tacere:
Non son risse e battaglie il nostro scopo;
Ad osservar qui t’ho condotto: serva
L’opere a miglior tempo, e intanto osserva.
Una torma d’alunni a bocca aperta
Serra i fianchi al dottor Pallondivento,
Che sul diritto di punir disserta,
E ne scopre il principio e il fondamento;
Descrive a modo suo l’indole certa
Del delitto e le cause e il crescimento,
E di lombrosiani imparaticci
Gravemente infarcisce i suoi pasticci.
Il delitto, egli grida, è una pazzia
Che si rannicchia nell’uman cervello,
Simile all’estro della poesia,
Consanguineo del genio, anzi fratello:
Basta che tiri vento o che gli dia
Un’improvvisa passíon rovello,
Perchè attaccando giù certi suoi moccoli
Ei sbuchi a un tratto fuor de’ suoi bernoccoli.
Il delitto è una forza insita in noi,
Che tutto l’esser nostro occupa e regge,
Nè a via di galatei mutar la puoi,
Nè sradicarla con rigor di legge:
Il suo chiuso poter, gl’impeti suoi
Non timor, non pietà frena o corregge;
Opera fatalmente o molto o poco,
Secondo il secco o l’umido del loco.
Mal si crede perciò, che il giogo infame
Di leggi inique i popoli snaturi;
Che del corrotto social carcame
Nascano i rei, siccome vermi impuri;
Che diuturna sofferenza e fame
A far più tristo il poverel congiuri;
Che sia dell’opre sanguinarie e ladre
Padre l’Errore e la Miseria madre.
Confesso, che finor non ho potuto
Tutta osservar la criminosa lue;
Che in cento casi c’ho fra mani avuto,
M’hanno dato ragion soltanto due;
Che qualche saccentello aspro e cocciuto
Con le cifre alle man mi dà del bue;
Ma, per dio, quando s’abbia un po’ di naso,
Una legge a scoprir basta un sol caso!
Ma comunque ciò sia, mai dalla sporca
Via del delitto, ove natura il caccia,
Non osate sperar che l’uom si torca,
Quantunque Civiltà specoli e faccia.
O consorzio civil, solo la forca
A te salute e sicurtà procaccia;
O forca salvatrice, o forca pia,
Torni dunque il tuo regno, e così sia!
Ecco, Esperio pensava, e dallo sdegno
Tremavan le sue labbra e il volto ardea,
Ecco quali il civil torto congegno
Monche dottrine e sogni orridi crea!
Ecco, ove inciampa il più discreto ingegno.
Quando gli è guida una fallace idea!
Ma dal dispetto, ond’ha l’anima piena,
Lo toglie a tempo una bizzarra scena.
Solenne, sotto un ombrellaccio rosso
Da un pensieroso babbuin tenuto,
Mentre picchia un tamburo a più non posso
Un apocrifo moro irto e labbruto,
Il celebre dottor Cicciasenzosso,
Dal congresso di Berna or or venuto,
Mostra agli astanti fuor da un bussolotto
La Pace universal, quattro e quattr’otto.
E giura che fra poco, a conti fatti,
Solo in virtù dell’evoluzione,
Si metteran d’accordo i cani e i gatti,
E risolta sarà la gran quistione:
State buoni però, non fate i matti;
S’intenderan la Forza e la Ragione;
Il Capitale abbraccerà il Lavoro,
E il giorno dopo sguazzerem nell’oro!