Atlantide/Canto VII

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Canto VII

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Canto VI Canto VIII
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CANTO SETTIMO


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Galleggia la bizzarra isola, come
     Sughero enorme, alla balìa del vento,
     Ed Isoletta Svagolata ha nome,
     Perchè basi non ha nè fondamento,
     E dimenando gli omeri e l’addome,
     Quasi femmina al suon dello strumento,
     Se ne va per le azzurre onde a diporto,
     E una Ninfa ti par che faccia il morto.

E s’ora Ninfa e pria femmina ho detto,
     Solo in grazia non è della figura
     Retorica, che invero essa all’aspetto,
     Ai costumi incostanti, all’andatura
     Ed in ogni altro femminile effetto
     Una donna ti sembra addirittura,
     Che stendasi nervosa e gigantesca
     Col ventre agli astri e il cul nell’acqua fresca.

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Su questo femminile, instabil mostro
     Han quelle donne glorioso impero,
     Che sdegnando la calza e il paternostro
     Solo alla penna volgono il pensiero;
     E il candore natio tinto d’inchiostro,
     Sbalordiscono il gemino emisfero
     Non sol con questa e con quell’altra cosa,
     Ma con l’opere loro in verso e in prosa.

Mentre ch’io dico, alla stupenda riva,
     Che facile ai nocchieri offre l’approdo,
     Il Peregrin con la compagna arriva,
     E trova tosto di sbancare il modo;
     Ma però che il terren danzar sentiva:
     A dir vero, osservò, troppo non godo
     A un tal gioco di rullo e di beccheggio,
     Che in fede mia non si può dar di peggio.

Però ti prego ben, se in questa insana
     Terra è forza ch’abbiamo ad ospitare,
     Prepara, amica mia, qualche tisana,
     Che mi preservi almen dal mal di mare:
     Perchè a dover, come vuota tartana
     In tra due venti, starsene a ballare,
     E quel ch’è peggio tra persone matte,
     C’è da recere, temo, il primo latte.

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Sorrise, e di siffatti ondeggiamenti,
     Diss’ella, non ti dar pena soverchia,
     Che non cede a sì lievi esperimenti
     Chiunque di virtù l’animo cerchia;
     Se in ogni caso un non so che tu senti,
     E il malor già ti preme e ti soperchia,
     Basta a cacciarlo via, che tu negli occhi
     Mi guardi e del mio velo un lembo tocchi.

Quello però che nel tuo caso parmi
     Opportuno non sol, ma necessario,
     È che dal maschio volto io ti disarmi
     E celi il sesso tuo nel suo contrario:
     Chè queste donne, se ti scopron l’armi
     C’hai teco, ancor che dentro un santuario,
     Ti si gettano addosso, e per Apollo
     Con dotte svenie sùcchianti il midollo.

Però che queste impiastrascartabelli
     Dall’acre ingegno e dall’ingenua faccia
     Raffinano con l’arte i lor tranelli,
     E più sicura all’uom danno la caccia;
     Tengono questi a bada, adescan quelli,
     Scopron dove ti dorme la beccaccia,
     A levar brave ed aormar la fera
     Più che cagne da bosco e da riviera.

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Ci sono, è ver, le nobili eccezioni,
     Ma contar le potrai su cinque dita;
     L’altre tutte, che inverton le ragioni
     Del sesso, con l’onor la fan finita;
     Aman più de l’allor chi le sfrugoni,
     E via più del saper la bella vita;
     Onde, se a modo mio sferzo i lor usi,
     L’intento è buono, e l’onestà mi scusi.

Qui mutate l’eroe sembianze e gonne,
     Rivolse intorno curioso i lumi,
     E dell’isola insieme e delle donne
     A osservar cominciò luoghi e costumi;
     Al mezzo si schiudea, come ipsilonne,
     La terra, e quinci e quindi uscían due fiumi,
     Che uguali s’avvolgean per lungo spazio,
     L’un di rubino e l’altro di topazio.

All’origin di questi una selvetta
     Inarcar fece al Peregrin le ciglia:
     Selva o foresta delle Opunzie è detta,
     Ed è, credo, l’ottava meraviglia;
     Molle qual pelo è la sottile erbetta
     D’una bizzarra vegetal famiglia;
     Gli alberi tutti pajon membri umani,
     Ma grandi sì che dio ne scampi i cani.

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Arrogi a questo, ch’alberi ed arbusti
     Non crescon rami, non educan fronde,
     E altro in sè non han che nudi fusti,
     Ma di creste erte e radiche profonde,
     Tra cui gli spazj son cotanto angusti,
     Che le barbe dappiedi o nere o bionde
     S’intesson fitte e sì lanose e belle
     Da far quasi un tappeto di Brusselle.

Assise al rezzo di sì strane piante
     Stanno le stagionate dottoresse,
     Neglette i panni, torbide il sembiante,
     Scinte il seno, irte il crin, le voci fesse,
     Ma intrepide, gagliarde e tutte quante
     Scrittoresse, ominesse, apostolesse,
     Che sostengon co’ fatti e co’ sermoni,
     Che sinonimi son gonne e calzoni.

La capa di sì nobile consesso
     È una toppona da’ capei vermigli,
     Che per obbrobrio dell’opposto sesso
     Scodellato avea già tredici figli,
     Ed a far pari s’accingeva adesso;
     E che pe’ modi bruschi e pe’ consigli
     Maschj e pe ’l tutto insiem, punto leggiadro,
     Da tutte l’altre era chiamata il Madro.

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Nè se n’aveva a male; anzi solea
     Ripeter sempre su lo stesso metro,
     Che s’ella era viril se ne tenea;
     Che chiaro il suo passato era qual vetro;
     Che a saper se una donna è onesta o rea,
     Prima di tutto hai da guardarle dietro;
     Ed aggiungea ritualmente: il merito
     Principal d’una donna è un buon preterito.

Suo tempio e scuola è il mistico boschetto,
     In cui rampollan quelle piante strane,
     C’hanno la forma, come dianzi ho detto,
     Di non so quale in fra le membra umane;
     Quivi sovente in sodalizio eletto
     Siedon l’inclite donne, e l’egre e vane
     Cure irridendo dell’imbelle sesso,
     Tutto dicono e fan senza permesso.

Una disserta qui d’Apelle e Zeusi
     Ispirata che par la vecchia Musa;
     Spiega un’altra i misteri alti d’Eleusi,
     Chi Grozio loda e Puffendorfio accusa;
     Qual di canoni parla e d’enfiteusi,
     Chi conferisce su l’ipotenusa;
     Questa dice del gas, quella dell’ètere,
     Chi ’l bisturì maneggia e chi ’l catetere.

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Ma benchè tutte a differenti oggetti
     Volgan le menti argute e pellegrine,
     E nei profondi, elastici intelletti
     Dieno l’entrata a varie discipline,
     Siede in cima però dei loro affetti,
     E la più cara è delle lor dottrine
     La teoria politico-borsale
     Su l’Organizzazion del Capitale.

Disse allora la Guida: Ora, o figliuolo,
     Ci conviene passar per questo bosco;
     Ma Esperio, cui non va troppo a fagiuolo
     Tal passaggio, risponde: Io ben conosco,
     Che le son piante e ben confitte al suolo,
     Pure, non si sa mai, disse quel losco;
     Passiam dunque, ti prego, a una tal quale
     Distanza e ben tappati, a quel che vale.

In mezzo al bosco delle Opunzie appena
     Giunti, e proprio de’ fiumi al confluente,
     In un’opaca vallicella amena
     Trovano una spelonca ampia e fiorente.
     Quivi d’edera cinta e di verbena
     Sta l’effigie di Pinco onnipossente,
     Del novo dio che modera e protegge
     Dei romanzieri realisti il gregge.

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Già selvatico ceppo, or su scolpita
     Ara ghignando il crasso idol troneggia,
     Che fuori dal villoso inguine addita
     L’asta che smisurata il suolo ombreggia;
     Una ben mutonata e inciprignita
     Mandria di ciuchi al dio rubesto inneggia,
     Ragliando ognor con quanto fiato ha in gola:
     Arridi, o Pinco, a la novella scuola!

O Pinco dio, da quella nobil parte,
     Ond’ha l’immagin tua dovizia tanta,
     Pullula il saper nostro e la nostr’arte,
     Come pollone da selvaggia pianta;
     Deh! spargi tu sopra le nostre carte,
     O Pinco dio, la tua semenza santa;
     Tu con sperimentai metodo e grata
     Opra l’ingegno femminil dilata!

Così dei ben forniti asini il coro
     Inneggia al nume con ragliar concorde;
     E a rendere efficace il canto loro
     Corron le donne che non son già sorde:
     Freme di desiderio ogni lor poro,
     Mirando quel di cui più sono ingorde;
     Ed ecco per la grotta, in ogni loco,
     Sotto il ghigno del dio, principia il gioco.

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Balenar vedi in fra le inteste fronde
     Bizzarri gruppi, atteggiamenti strani,
     Pazzi amplessi di carni invereconde,
     Scrollar di groppe in moti or lesti or piani;
     Una confusion di tresche immonde,
     Un baccanal di documenti umani,
     Un delirio di muscoli e di nervi
     Fra dame ardenti e giovinastri e servi.

Stanche, non paghe, alfin di sì gentili
     Opre, le donne al meditar si danno;
     E quale con intenti alti e civili
     Scrive un trattato educativo ogni anno;
     Qual ti fa con indagini sottili
     L’anatomia del maritale inganno;
     Qual, descrivendo ciò c’ha fatto innanzi,
     Svescia bozzetti e squacchera romanzi.

Altre più delirate e schizzinose,
     In suon che dice all’anima; sospira,
     Su l’erbetta sdrajate in molli pose
     Sbadigliando titillano la lira;
     Ingenui putti dalle mele rose
     Corrono a lor facendo a chi più tira,
     E in ammirazion di sì bei tipi,
     Non avendo altro a dare, offrono il pipi.

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Ma oltre a questa valle e al doppio fonte
     De’ fiumi di topazio e di rubino,
     Lievemente ondulato alzasi un monte
     Levigato, ritondo, alabastrino:
     Chi ne prenda in april la via di fronte,
     Se a mezzanotte va, giunge al mattino,
     E s’imbatte in un tempio alto ed antico,
     Che dell’isola appunto è l’ombelico.

Meraviglioso a prima vista e adorno
     Di strane punte l’edificio appare:
     Ogni ornamento suo fatto è di corno,
     Nè sol di bestie peregrine e rare;
     Tutto ciò ch’è sopr’esso e ad esso intorno
     Ha del corneo esser suo tracce ben chiare:
     Soglie, volte, pareti, archi, colonne,
     Di corno è tutto, e tutto opra di donne.

E perchè nulla mai soffra dall’onte
     Del vecchiaccio rapace il tempio augusto,
     Una fabbriceria sorge sul monte,
     Dove le artiste di più nobil gusto
     Vegliano a tutte le stagioni, e pronte
     A rifarvi non sol quanto è più frusto,
     Ma ad arricchirlo d’altre opere dotte,
     Sudan le poveracce anche la notte.

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Non di guglie così folta s’estolle
     La sacra mole al pingue insubre piano;
     Non mai materia ubbidiente e molle
     Si piegò tanto al ghiribizzo umano;
     Non sogno d’ebbro o delirar di folle
     Mai vide un tempio sì bizzarro e strano;
     Stuol di dèmoni par che tutto intagli
     Di corna il cielo, e contro al ciel si scagli.

Qual gente mai quest’edificio eresse
     E dedicollo alla gran dea Cornina,
     Qual ebber nome le sacerdotesse,
     Che professaron pria la sua dottrina,
     Per quanta intenzion posto ci avesse
     Ed erudizion greca e latina,
     Non ha il tedesco genio anco scoperto,
     Ma lo discoprirà, son più che certo.

Un’epigrafe sola in lingua ignota
     (Ignota ancor, ma si saprà anche questa)
     Si trovò, son più anni, entro la mota
     Con due corna ad emblema ed una testa;
     I dotti ancor non n’han capito un jota,
     Ma fecero al trovarla una gran festa;
     Qualcun la crede in lingua indo-germana:
     Ah! perch’è morto il professor Lignana?

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Ma lasciando sub judice la lite,
     E tornando a picchiar sul primo chiodo,
     (Chè a gusto mio le chiacchiere erudite
     Cedono al ver quanto alla carne il brodo)
     Dico, che dentro al tempio, in celle ordite
     Di cornei stami in ammirevol modo,
     Stanno, ma non però dentro agli scrigni
     Come reliquie, le scrittrici insigni.

Lor signora e patrona è Gingillina,
     Una donnetta buona a farci il chiasso,
     Biondina, saccentina, intrigantina,
     Che ascolta messa e gode andare a spasso,
     Che canterella in chiave di gallina,
     Pinge, scolpisce, suona il contrabbasso,
     Dice versi a memoria in metro barbaro
     In lode del Rottorio e del Rabarbaro.

Una gran dama di prosapia antica
     È di lei consigliera e confidente,
     Compagna, ancella, guardiana, amica,
     Ad ognora e per tutto a lei presente;
     Cosa non è che l’una pensi o dica,
     Cui l’altra non esprima o volga in mente;
     L’una insomma è così dell’altra piena,
     Che in tutt’e due fanno una donna appena.

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Al faro, allo splendor di così fatte
     Dame, cui già lustrò più d’una penna,
     Sono le navi amabilmente attratte,
     Che pe ’l mare dell’Arte alzan l’antenna;
     Qui le donne più belle e meglio adatte
     All’opre onde per tempo Amor le assenna,
     Colme d’ogni saper l’avide coppe,
     Come in porto d’onor, posan le poppe.

Fra le nuove arrivate una dal volto
     Signorile e venusto Esperio ammira;
     Ma la Guida, che il vede un po’ stravolto,
     D’una còtta temendo, a sè lo tira:
     Costei, gli dice, ch’a più d’uno ha tolto
     La pace e il senno, è l’ibrida Vampira;
     Vanto di bella sopra l’altre ottiene,
     Brava del pari a smunger tasche e vene.

Quaranta demonietti acri e ribelli
     Si son gittati, ahi, sul suo capo in breve,
     E il bel campo de’ suoi bruni capelli
     Imbiancan qua e là d’orrida neve:
     Ben ella a strugger questa, a fugar quelli,
     Di mirabili filtri il capo imbeve,
     Ma gl’imbianchini mutansi in bifolchi,
     Ed arando la van d’aridi solchi.

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Non di tante ventose arma le branche
     Per serrar preda o scoglio un polpo immane,
     Quante seduzioni ebber le bianche
     Membra di lei, nè riuscîr mai vane;
     Or le cascano sfatte e mamme ed anche,
     Non però l’arte sua qui si rimane;
     Anzi, quanto l’età più varca il segno,
     Tanto più l’arte affina, arma l’ingegno.

Tempo già fu, che alla freddosa notte
     Stuol d’amanti al suo duro uscio gemea,
     E per un guardo sol delle sue dotte
     Grazie il sangue e l’onore altri spendea;
     In amplessi volgari, in empie lotte,
     Desiderata più quanto più rea,
     S’avvolse poscia, e da sue furie ossessa
     Mutò il talamo in piazza, in via sè stessa.

Ma se faccia di fola e di menzogna.
     Quando insolito è troppo, usurpa il vero,
     Meglio mi sembra il sigillar tal fogna,
     Sì che al mondo non n’esca il puzzo intero;
     Resti inchiodato il suo nome alla gogna,
     E smagato rimanga il tuo pensiero;
     Viva ella intanto, ed oro e infamia insacchi,
     Poi che penuria non fu mai di ciacchi.

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Così parlava Edea, quando lontano
     Si udì un rumore, un tafferuglio, un chiasso,
     Ed una donna videsi dal piano
     Trafelata salir più che di passo:
     Ora l’una agitando or l’altra mano,
     Dicea gran cose, ed accennava al basso;
     Giunge alfine anelante, e s’incammina
     Subito a conferir con Gingillina.

Come sogliono intorno a un laido vaso
     In agosto ronzar le mosche impronte,
     Fan di sè mucchj, all’impazzata, a caso,
     A predare, a fuggire, a tornar pronte;
     Curiose così del nuovo caso
     Corrono a lei dintorno in cima al monte,
     Si scalmanan ciarlando, e alle cornine
     Soglie irrompon con lei dame e pedine.

Chi voglia ora saper qual nome e quale
     Abbia virtù quest’inclita staffetta,
     Sappia ch’essa è una donna originale,
     D’un prete figlia, e la Pretina è detta;
     Forza non è che a farle intender vale,
     Che non è bella più nè giovinetta;
     Che sessant’anni ha ormai sopra la groppa,
     E di donna non ha fuor che la toppa.

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A inzavardarsi i crini aridi e scarsi
     Con certa porcheria fra nera e verde,
     Che la befana o la versiera, a farsi
     Gioco di lei, prestato ad essa aver de’,
     A lisciarsi, a lustrarsi, a mascherarsi
     Ben della sua giornata un terzo perde,
     Gli altri in dir male ed in accender liti
     Tra figli e genitor, mogli e mariti.

Ma poi che non ostante opre sì oneste,
     Del poetico assillo anche ha la frega,
     Non appena tra ’l sonno esso la investe,
     Dandole il caldo che l’età le nega,
     Balza da letto, la notturna veste
     Rimbocca su le natiche di strega,
     E accoccolata al vacillante lume
     Versa di versi rumorosi un fiume.

L’esagerazion, la tenerezza
     Sono i due poli della sua natura:
     Un croccante per essa è una fortezza,
     Una pulce il caval d’Estremadura,
     Due gocciole di sangue in una pezza
     Una strage, un eccidio addirittura,
     Un po’ di vento fuor d’un orifizio
     Nè più ne men la tromba del Giudizio.

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La tenerezza poi, qual dentro a vaso
     Vecchio essenza di rose o di zibetto,
     Le sta sì dentro, ch’ogni poro ha invaso
     Dell’involucro suo più che perfetto:
     Basti dire, che avendo un giorno a caso
     Schiacciato un biondo ed odoroso insetto,
     La sua commozion fu così forte,
     Che due mesi restò fra vita e morte.

Gingillina trovò, che in mezzo a un crocchio
     Di sapute matrone e di donzelle
     Sostenea che l’estratto di finocchio
     Giova a spianar la più grinzosa pelle,
     Non badando che un suo grosso marmocchio
     Le avea di dietro alzato le gonnelle,
     E additava agli astanti in piena luce
     La regia via ch’al Culiseo conduce.

A lei dice l'aralda: O tu che stai
     Tanto da noi divisa e tanto in alto,
     Fior di bellezza e di bontà, che hai
     La chioma d’ocra e gli occhi di cobalto,
     Tu che fra tanti orrendi umani guai
     Mai non sapesti del dolor l’assalto,
     Ed immersa nei tuoi rosei splendori
     Fin chi ti scopre e chi ti copre ignori,

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Una immane procella ahi le redente
     Donne minaccia a cui tu sei signora,
     Ma che dico, minaccia? orribilmente
     Essa già i campi invade e il ciel rintrona;
     Io per questo qui vengo immantinente
     A supplicar la tua gentil persona,
     Perchè la luce delle tue parole
     Ne sparga un raggio ove non batte sole.

Una coppia maligna (il dico o il taccio?)
     Laggiù, fra noi, forse or quassù si aggira,
     Che d’insultare e irridere ha il mostaccio
     Quanto di ben la libertà c’ispira;
     Che a nostra libertà tendere un laccio
     E a screditar le nostre leggi aspira;
     Che indaga e spia non pur chi in alto stassi,
     Ma oltraggia noi fin nei paesi bassi.

Con questi occhi io li scorsi, io dell’infame
     Coppia (ed uomo un dei due certo esser dee)
     Per caso udii le scellerate brame
     E i vili intenti e le maligne idee;
     Io che di gloria imperitura ho fame,
     Svelato a tutti ho le lor trame ree;
     Io rintracciarli e smascherar l’orrendo
     Proposto e romper le lor uova intendo.

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Di sdegno ardenti al mio solerte avviso
     S’aggruppâr tutte a’ fianchi miei le amiche,
     E prorompendo in fremito improvviso
     Meco intendon durar rischj e fatiche.
     Il tumulto non odi? Orride il viso,
     Con riverenza, a Dio squadran le fiche,
     Di far giurando in quelle anime ingrate
     Quel che fecer le donne al tracio vate.

Udendo Edea così suonare a nona,
     Nè volendo aspettar vespro e compieta,
     Ogni via, pensa, ad evitare è buona
     Risse cui la ragione affrontar vieta;
     Si restringe però nella persona,
     E più di lui che di sè stessa inqueta,
     Ad Esperio, che gli occhi avea sovr’essa,
     Ammicca, e in parte il trae fuor della ressa.

E, amico, dice, il qui restar più oltre
     Non saprei consigliarti, un’ora sola:
     Con costoro lottar sotto la coltre
     Potrebbe a un qualche mascalzon far gola;
     Ma chi nel brago sensual non poltre
     E alacre in seno all’Ideal sen vola,
     Non dee, se un dio non l’ha di senno tolto,
     Restar fra liti femminili avvolto.

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Rispose Esperio: Del muliebre oltraggio
     Non darti, anima mia, troppo pensiero;
     So bene che schivar liti è da saggio,
     E le dame servir da cavaliero;
     Ma come vuote nuvole di maggio
     Sfumeran l’ire ed il furor guerriero
     Di queste al sol veder quello c’ho in serbo
     Dal dì che nacqui irresistibil nerbo.

L’oratrice, ch’avea chiuso fra tanto
     Del suo sermone fluvial la vena,
     Accesa il cor d’entusiasmo santo
     Tra la folla si sbraccia e si dimena;
     Ma la patrona, in cui speravan tanto,
     Pian pianino s’invola all’ardua scena,
     E in un loco recondito si reca
     A giocar con le ancelle a gattacieca.

Una allor della turba, a cui sul naso
     Dato d’Esperio il novo aspetto avea,
     Accodatasi a lui come per caso,
     Colse in aria alcun che del dir d’Edea;
     Di sospetti il maligno animo invaso,
     Che quei fosser gl’infami ebbe in idea,
     E senz’altro aspettar, con voce roca
     A schiamazzar si diè peggio d’un’oca.

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Sopravvenne l’aralda, e al viso, agli atti
     Riconosciuti i due ch’avea già visti,
     Come il vulgo a Milan dietro i monatti,
     Dalli, dalli, gridava, ecco i due tristi!
     Con un strillar d’inferociti gatti
     Suonâr gridi a quel grido in un commisti;
     E dàlli, dàlli, urlavan tutti; e dàlli,
     Dàlli, echeggiando ripetean le valli.

Esperio allor le femminili spoglie
     Non pure, ma qualunque altro indumento
     Impaziente in un balen si toglie,
     E si caccia fra quell’armeggiamento;
     O cornacchie, o civette, o scocciacoglie,
     O vessicacce gravide di vento,
     Or vedrete chi sono e quel che vaglio;
     E in cosí dir dà mano a un suo battaglio.

Molto incresce ad Edea, ch’egli dall’ira
     La mano guadagnar si lasci troppo:
     Ma infine ei non è vecchio, e il sangue tira;
     Pazienza, dice, e non vuol dargli intoppo;
     Anzi, a dir ver, come sì nudo il mira
     E sano e forte e senza macchia o groppo,
     Una dolcezza del suo cor s’indonna
     Ed un certo geloso impeto: è donna.

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Tanti prodigi non oprò Morgante
     Menando in giro il celebrato arnese,
     Quanti Esperio fra questa orda arrogante
     Abitatrice del cornin paese;
     Ne picchiò, ne impiagò, ne domò tante
     In mista pugna e in singolari imprese,
     Tanto alla prova il nerbo suo s’accrebbe,
     Che serve in poco e tributarie l’ebbe.

Ristette alfine il valoroso; ed ecco
     Le vinte donne gli fan ressa immensa,
     E chi ’l prega che metta in molle il becco,
     Chi gli offre in sua magione ospizio e mensa;
     Chi gli palpeggia il poderoso stecco,
     E laudi e baci al possessor dispensa;
     Tutte pensano alfine al tempio trarlo
     Per avere il piacer d’incoronarlo.

Ma ei con umiltà: Serbate a quanti
     Ne son di me più degni i vostri allori;
     Abbian l’aureola gloriosa i santi
     E la corona d’òr gl’imperatori:
     Io che finora, e son già un pezzo avanti,
     Scevro il capo recai dei vostri onori,
     Ambizioso non sono, e con licenza
     Vostra sia detto, posso farne senza.

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Indi riprese le sue maschie vesti
     E riposto a suo loco il bacchio enorme,
     Si restringe alla Guida, e con onesti
     Saluti lascia le femminee torme.
     Ma se intento al cammin vigila questi,
     Delle donne il desio punto non dorme;
     E il gran battaglio e i suoi stupendi effetti
     Furon tema di versi e di bozzetti.