Avventure di Robinson Crusoe/35

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Sospetti avverati

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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Sospetti avverati
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Sospetti avverati.



A
tutte queste fatiche io poneva mano veramente per le paure eccitate in me dalla impronta d’un piede d’uomo; chè finora io non avea veduto alcuno avvicinarsi all’isola. Ciò non ostante la sola paura, come dissi, mi avea già fatto passar due anni d’una vita assai più sconfortata della precedente: cosa che s’immaginerà chiunque sappia che cosa voglia dire vivere sotto le strette della paura. Nè qui tacerò, benchè con mio grave rammarico io lo dica, che tal disordine della mia mente produsse di ben tristi effetti su la parte religiosa de’ miei pensieri; perchè la tema, il terrore di cader nelle mani di selvaggi e cannibali pesava tanto sul mio spirito, che rare volte io mi trovava nella debita disposizione per volgerlo al mio creatore, o almeno io non faceva ciò con quella posata calma e rassegnazione d’animo ch’io era solito sentire in me nel tempo andato. Io pregava Dio com’uomo oppresso dal peso di una grande afflizione e costernazione, com’uomo cinto di pericoli d’ogni intorno e che si aspettava ogni notte di essere ucciso, ogni mattina di essere divorato. Posso dire dietro l’esperimento fattone su me stesso, che una disposizione pacifica, grata, lieta, affettuosa è molto più propria alla preghiera che quella d’un animo scompigliato ed atterrito. Sotto lo spavento di una sovrastante disgrazia un uomo non è meglio inchinato alla preghiera di quanto sia alla penitenza in tempo di malattia, perchè quei mali travagliano la [p. 201 modifica]mente, questi il corpo, ed in ciò gli sconforti della mente ne prostrano al pari, e molto più di quelli del corpo; perchè il pregar Dio è un atto della mente e non del corpo.

Ma per procedere innanzi, dopo avere così posto in sicuro una parte del mio armento, io andava girando attorno per tutta l’isola a cercare altro luogo remoto ove collocare un secondo deposito, allorchè volgendomi più che non avessi fatto sin allora verso la punta occidentale di quella terra e guardando sul mare, credei vedervi galleggiare a grande distanza una piroga. Io avea trovato, per vero dire, uno o due cannocchiali nelle casse de’ marinai salvate dal naufragio, ma non gli avea meco, e d’altra parte essa mi stava in tanta lontananza che non potei formare veruna precisa congettura, benchè io tenessi fisi in essa i miei occhi quanto poteva la vista. Fosse o non fosse una piroga, nol so; ma nel discendere dall’altura donde m’apparve, non potei più veder nulla nè pensai altro; unicamente feci proposito di non andar più attorno senza un cannocchiale con me. Dal piè dell’altura trasferitomi ad una estremità dell’isola, ove per dir vero io non era mai stato dianzi, dovetti tosto convincermi che il vedere un’orma di piede umano non era in quella terra una cosa tanto stravagante come io l’avea giudicata; che anzi senza uno speciale decreto di provvidenza, per cui la tempesta mi lanciò su la parte di spiaggia ove i selvaggi non capitavano mai, mi sarei facilmente avveduto nulla esservi di più frequente, siccome piroghe venute dalla terra principale, ogni qualvolta occorrea loro di essersi innoltrate un po’ troppo nel mare, e di dover cercare un porto in questa parte dell’isola. Accadea pure che spesse volte i selvaggi scontrandosi e combattendo insieme dalle loro piroghe, la parte dei vincitori, se avea fatti prigionieri, li conducesse sopra la spiaggia, ove secondo le orride loro costumanze, essendo tutti cannibali, gli uccidevano e li mangiavano; del che a suo tempo.

Venuto, come dissi, dal piè dell’altura al lido verso la punta sud-west (libeccio) dell’isola, oh come rimasi attonito, esterrefatto! Qual fu il mio orrore al vedere la spiaggia cospersa di teschi e mani e piedi d’uomini ed altre ossa umane! Crebbe il mio terrore al vedere un luogo ov’era stato fatto un gran fuoco ed un cerchio stampato su l’arena simile alla lizza d’un combattimento di galli, intorno a cui, io suppongo, quegli sgraziati selvaggi erano stati seduti all’inumano pasto de’ corpi dei loro simili.

Qual fu il mio orrore al vedere la spiaggia cospersa di teschi e mani e
piedi d’uomini ed altre ossa umane

[p. 202 modifica]Rimasi sì attonito all’orrida vista, che non pensai più al pericolo di me stesso per un lungo tratto di tempo. Tutti i miei timori erano soffocati dal pensare a tanto eccesso d’inumana infernale brutalità, dall’orrore di tanta depravazione della natura dell’uomo. Di questa depravazione aveva udito parlare più volte, ma non mi stette mai dinanzi gli occhi siccome in tale momento; il mio stomaco ne fu rivoltato; era sul punto di svenire quando la natura permise che un vomito di straordinaria violenza lo alleviasse; mi sentii alcun poco ristorato, benchè non fossi capace di rimanere ivi un istante di più; raggiunsi con la maggiore speditezza possibile la mia altura, e di m’affrettai alla volta della fortezza.

Appena mi vidi alcun poco lontano da quella parte dell’isola, mi fermai un istante per riavermi dal mio stordimento, e rinvenuto alquanto volsi uno sguardo al cielo col massimo fervore dell’anima mia e con gli occhi inondati di lagrime. Ringraziai Dio d’avermi fatto nascere in tal parte del mondo, ove era affatto segregato da così orribili creature; lo ringraziai perchè, quantunque io avessi giudicata miserabilissima la presente mia condizione, mi fu largo di tanti ristori per sopportarla, ch’io avea tuttavia più motivi di esserne lieto che di dolermene; soprattutto gli resi grazie perchè anche in questo deplorabile stato mi area concesso il conforto del riconoscimento di lui e della speranza delle sue benedizioni, felicità assai maggiore a tutte le calamità che aveva sofferte o che fossi per soffrire.

Compreso di tali affetti di gratitudine, me ne tornai alla mia fortificazione ove, rispetto alla mia sicurezza, cominciai ad essere confortato più che nol fossi stato giammai; e ciò per aver notato che quegli sciagurati non venivano mai a quest’isola in cerca di quanto vi avrebbero potuto trovare; forse non desiderosi, non bisognosi, non sospettando di potervi essere alcuna cosa che loro aggradisse: furono, non ne dubito, parecchie volte ne’ luoghi più boscosi di essa, nè vi trovarono nulla che facesse al loro proposito. Pensava che era qui omai da quasi diciotto anni prima di vedere il menomo vestigio di creatura umana, e che avrei potuto viverne altri diciotto affatto ignorato, come era stato insino ad ora, quando mai non mi scoprissi ad essi io medesimo, il che certo non mi poteva occorrere; perchè mia prima cura era di tenermi affatto nascosto nel mio confine, semprechè non mi si presentasse una razza di creature migliori dei cannibali per darmi loro a conoscere, Ciò non ostante tal si era l’orrore [p. 203 modifica]impresso in me dagli sgraziati, di cui testè ho detto, e dall’inumana loro usanza di divorarsi gli uni con gli altri, che continuai pensieroso e malinconico a tenermi chiuso entro il mio cerchio per circa due altri anni: quando dico il mio cerchio, intendo le mie tre abitazioni, la fortezza cioè, la mia casa di villeggiatura, o sia il mio frascato e il mio parco chiuso ne’ boschi. Nè pensai a profittare altrimenti di quest’ultimo che a modo d’un chiuso delle mie capre; perchè l’avversione inspiratami dalla natura contro a quelle creature infernali era tanta, che abborriva la vista loro siccome quella dello stesso demonio. Per tutto questo tempo non mi venne più voglia di visitare la mia piroga; ma piuttosto pensai al modo di fabbricarmene un’altra, chè non poteva adattarmi nemmeno all’idea di provarmi a far fare il giro del l’isola alla piroga presente per condurla dalla mia parte: troppo aveva paura d’incontrarmi sul mare in qualcuna di quelle fiere, ne’ cui artigli, se fossi caduto, non sapeva qual fine m’avrei avuto.

Ciò non ostante il tempo e la soddisfazione che mi derivava dal non essere in pericolo di venire scoperto da costoro, cominciò a dissipare le mie inquietudini intorno a ciò; onde a poco a poco il tenore di mia vita tornò regolato come dianzi, con l’unica differenza ch’io usava maggiori cautele, e mi guardava meglio attorno, affinchè per caso non mi vedessero. Sopratutto andai più cauto nello sparare il mio moschetto, perchè se mai qualcuno di loro si fosse trovato nell’isola, non ne avesse udito lo scoppio. Che buon consiglio per tanto fu il mio l’allevarmi una razza di capre domestiche! perchè mi dispensava dall’andar più a caccia pe’ boschi o dallo scaricare la mia arma da fuoco contro a verun animale. Di fatto, se dopo di ciò ne ho avuto qualcuno in mio potere, me lo procacciai con trappole e trabocchelli, come aveva già fatto altra volta; laonde per due anni in appresso credo di non avere sparato il mio moschetto una sola volta, se bene non andassi mai attorno senza di esso. Faceva anzi di più: avendo salvate tre pistole dal vascello, anche queste, o almeno due, le portava sempre con me assicurate entro la mia cintura di pelle di capra. Affilai pure una grande spadaccia, salvata come le pistole, facendomi una cintura per sospendervi anche quest’arma; laonde quando andava in giro era veramente alcun che di formidabile da contemplarsi, se aggiugnete al mio primo ritratto la particolarità delle due pistole e della grande squarcina pendente da una cintura al mio fianco, ma priva di fodero.

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Così andarono, come ho detto, le cose per qualche tempo; onde se si eccettui la molestia delle indicate cautele, io poteva dire di essere tornato alla prima calma, al placido antico tenore del viver mio. Tutto ciò intendeva a manifestarmi sempre più, quanto fosse lontana dall’essere deplorabile la mia condizione posta a confronto con quella di alcuni altri, anzi con la mia stessa, ove fosse stato nella volontà del Signore il versare sovr’essa amarezze ben molto maggiori. Ciò portommi a considerare come pochi sarebbero nel mondo coloro che si dolessero del proprio stato, se lo paragonassero piuttosto con quello di chi sta peggio di loro, per ringraziar Dio, anzichè non far mai altro che paragonarlo con la posizione di chi sta meglio per fornire di pretesto i loro lamenti e le loro scontentezze.