Ben Hur/Libro Primo/Capitolo IX

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Capitolo IX

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CAPITOLO IX.


Per capire a fondo ciò che accade al Nazareno il lettore deve ricordarsi che le taverne dell’Oriente eran ben diverse da quelle dell’occidente. Esse erano dai Persiani chiamate Khan e fatte nel modo più semplice; erano recinti chiusi, [p. 46 modifica]senza casa o tetto, spesso privi di un cancello o d’una porta. Le loro abitazioni erano scelte a seconda dell’ombra, della sicurezza, o della possibilità di attinger acqua. Tali erano le taverne che ripararono Giacobbe allorchè andò in Paden Aran per cercarvi moglie. Simili a quella possono oggi vedersene delle altre nelle oasi del deserto. Però alcune di esse, in ispecie quelle sulla strada che divideva due grandi città, come Gerusalemme ed Alessandria, erano edifici principeschi che constatavan la pietà dei Re che li avevano fabbricati, Solitamente però non erano che la casa od il podere di uno sceicco nei quali, come in quartieri generali, egli conduceva la sua tribù. L’ospitare i viaggiatori era l’ultimo dei loro usi; erano mercati, fattorie, e fortezze; luoghi d’assemblea, ed abitazioni per i mercanti ed artigiani, come luoghi di ricovero per i viandanti vagabondi e sorpresi dalla notte. La conduzione di questi alberghi colpiva singolarmente i forestieri. Non v’era nè oste nè ostessa, nè cameriere, nè cuoco, nè cucina; nè guardiano alla porta. Gli ospiti che arrivavano, vi dimoravano quanto volevano. Ma bisognava che si portassero con sè i cibi e gli utensili da cucina oppure che li comperassero dai venditori del Khan. La stessa regola valeva pel letto e per il foraggio per le bestie. Acqua, ricovero, riposo e protezione eran tutto ciò che si poteva richiedere dal proprietario, ed era gratuito. La pace della Sinagoga era talvolta disturbata da disputanti schiamazzatori, ma quella dei Khan mai. Le case e tutte le loro attinenze erano sacre: un pozzo non lo era di più.

Il Khan, a Betlemme, davanti al quale Giuseppe e sua moglie si fermarono, era un buon esemplare della sua specie, non essendo nè molto primitivo nè molto principesco. L’edifizio era puramente orientale; cioè era un blocco quadrangolare di pietre greggie ad un solo piano, col tetto piatto, esternamente non interrotto da alcuna finestra, con una sola entrata principale, un portone fatto a volta, dal lato est o facciata. La strada era così vicina alla porta che la polvere copriva per metà l’architrave. Un riparo fatto di roccie cominciava all’angolo sud-est del fabbricato, si estendeva per molti metri giù pel pendìo, ad un punto del quale si divideva all’ovest verso un promontorio di pietra calcarea, formando ciò ch’è più essenziale ad un Khan ragguardevole, cioè una sicura staccionata per gli animali. In un villaggio come Betlemme, siccome non v’era che uno sceicco, non ci poteva essere più di un Khan; e [p. 47 modifica]sebbene nato in quel luogo, il Nazareno, dopo aver a lungo vissuto altrove, non aveva alcun diritto ad ospitalità nella città. Inoltre, l’enumerazione per la quale egli veniva poteva essere lavoro di settimane o di mesi. I legati Romani, nelle provincie, erano conosciuti per pigri, e, mettere sè stesso e la moglie per un periodo così incerto a carico di conoscenti o di parenti, non era possibile. Così, prima di avvicinarsi alla gran casa, mentre saliva il versante, cercando nei posti più scoscesi di sollecitare l’asino, il timore di non poter trovare da accomodarsi nel Khan divenne una dolorosa ansietà, perchè egli trovò la via affollata di uomini e di ragazzi, che, con gran chiasso, spingevano il loro bestiame, cavalli e cammelli, su e giù per la valle, alcuni per abbeverarli, altri alle vicine caverne. Ed allorchè si avvicinò, il timore non si mitigò scoprendo una folla che stipava la porta dello stabile, mentre l’attiguo recinto, largo com’era, sembrava già pieno.

— «Noi non possiamo arrivare alla porta. — disse Giuseppe col suo parlare lento — fermiamoci qui e cerchiamo di sapere, se possiamo, ciò che è accaduto.» —

La moglie, senza rispondere, tranquillamente si tirò indietro il velo.

L’aspetto affaticato che prima mostrava il suo viso mutò, assumendo un che di interessante.

Ella si trovò vicino ad un gruppo di persone che non potean esser altro che un oggetto di curiosità per lei, benchè fosse abbastanza frequente il ritrovarne nei Khan comuni agli stradoni che le gran carovane solevano attraversare. V’erano uomini a piedi che correvano di qua e di là parlando con voce stridula e in tutte le lingue di Siria; uomini a cavallo che urlavano; uomini sui cammelli; uomini che si affaticavano dietro ai buoi infuriati e alle pecore impaurite; uomini che vendevano pane e vino; e, fra la moltitudine, una turba di ragazzi apparentemente a caccia di una muta di cani. Tutti e tutto sembravano muoversi nel medesimo tempo. Forse la bella spettatrice era troppo stanca per esser a lungo attratta da quella scena; dopo un po’ ella sospirò e si accomodò sul suo cuscino, e, come se fosse in ora di pace e di riposo, o in aspettativa di qualcuno, guardò lontano al sud e alle alte rupi del monte del Paradiso, che eran leggermente arrossate dal sole che tramontava.

Mentre ella stava guardando un uomo si spinse fuori della folla e fermandosi vicino all’asino osservò, incuriosita, il [p. 48 modifica]gruppo. Il Nazareno gli chiese:

— «Poichè io sono ciò che credo voi siate, buon amico, — un figlio di Giuda — posso domandarvi la causa di questo assembramento?» —

Lo straniero si voltò bruscamente, ma, visto l’aspetto solenne di Giuseppe, fu così compreso della sua profonda, lenta voce e dal suo discorso che alzò la mano in cenno di saluto e rispose:

— «Pace sia con voi, o Rabbi! Io sono un figlio di Giuda e vi risponderò. Abito in Beth-Dagon che, voi sapete, è ciò che una volta era la terra della tribù di Dan.» —

— «Sulla via fra Joppa e Modin — interruppe Giuseppe.» —

— «Oh voi siete stato in Beth-Dagon — disse l’uomo raddolcendo sempre più il suo viso. — Che persone girovaghe siamo sempre noi, figli di Giuda! Son parecchi anni che manco dal luogo — il vecchio Ephrath come lo chiamava nostro padre Iacob. Ci ritorno ora che si è diffuso l’editto che richiede agli Ebrei d’esser computati per le tasse nella città della loro nascita. Questo è ciò che vengo a far qui, Rabbi.» —

Il viso di Giuseppe rimase impassibile mentre osservò:

— «Io pure venni per questo con mia moglie.» —

Lo straniero lanciò uno sguardo a Maria e tacque. Ella guardava in alto, verso la nuda cima del Gedor. Il sole accarezzò il suo viso rivolto all’insù e le illuminò gli occhi; sulle sue labbra dischiuse corse un fremito. In quel momento tutta l’umanità della sua bellezza sembrava purificata: ell’era come sono immaginati da noi coloro che siedono vicino alle porte del Cielo. I Beth-Dagon videro l’originale di ciò che secoli dopo divenne una visione pel genio di Sanzio il divino e lo rese immortale.» —

— «Di che cosa stavo parlando? Ah! ora mi ricordo. Stavo per dire che allorquando udii dell’ordine di venir qui andai in collera. Ma pensai poi alla vecchia collina, alla città e alla valle sovrastante alla profondità del Kedron; ai vigneti e agli orti e ai campi di grano, fruttiferi fin dai giorni di Booz e di Ruth; alle montagne conosciute — Gedor qua — Gibeah un po’ più lontano e Mar Elias là — che, quando ero ragazzo, erano per me i confini del mondo; perdonai i tiranni e venni — io con Rachele, mia moglie — e Deborah e Micol le nostre rose di Sharon.» —

L’uomo si fermò di nuovo guardando bruscamente Maria, che ora lo guardava e lo ascoltava.

Poi disse: — «Rabbi, non vorrebbe vostra moglie andar dalla mia?

[p. 49 modifica]La potete veder laggiù coi bambini, sotto all’olivo, allo svolto della strada.

Vi accerto — egli si voltò verso Giuseppe e parlò in tono sicuro — che il Khan è pieno. E’ inutile chiederlo alla porta.» —

La volontà di Giuseppe era malferma e la sua mente vagolava nel vuoto; egli esitò ma rispose:

«L’offerta è gentile. Che vi sia o no posto per noi nella casa verremo a trovar la vostra famiglia. Lasciatemi discorrere col portinaio. Torno subito.» —

E mettendo le redini nelle mani dello straniero si spinse fra la folla rumorosa. Il portinaio sedeva sopra un ceppo di cedro fuor della porta. Al muro, dietro di lui, stava appesa una freccia. Un cane gli era accovacciato vicino, sul ceppo.

— «La pace di Jeova sia con voi» — disse Giuseppe, finalmente, affrontando il portinaio.

— «Ciò che dite vi sia ricambiato e qualora lo sia si moltiplichi molte volte per voi e per i vostri figli — replicò il guardiano gravemente, però senza muoversi.

— «Io son di Betlemme — disse Giuseppe nel modo più calmo — non vi sarebbe posto per me?» —

— «Non ce n’è più.» —

— «Voi avrete udito parlare di me, Giuseppe di Nazareth. Questa è la casa dei miei padri. Io son discendente di Davide.» —

Queste parole davano speranza al Nazareno. Se gli fallivano, sforzi ulteriori sarebbero stati vani, anche quelli dell’offerta di molti sicli. L’essere un figlio di Giuda era una cosa grande nell’opinione della stessa tribù ma l’esser della casa di Davide era anche cosa maggiore; su lingua di Ebreo non vi poteva esser vanto più fiero. Mille anni e più erano trascorsi da che il pastore fanciullo era divenuto successore di Saul e aveva fondato una famiglia. — Guerre, calamità, altri re ed innumerevoli fatti, causa della mutevole fortuna, ritornarono i suoi dipendenti al medesimo livello degli Ebrei comuni; il pane ch’essi mangiarono venne dal lavoro penoso se non dal più umile; non di meno essi ebbero sempre il prestigio della gloriosa tradizione, prestigio mantenuto religiosamente, e vantarono la genealogia; non avrebbero potuto rimaner oscuri perchè dovunque si recavano pel regno d’Israele godevano di un riverente rispetto. Così avveniva a Gerusalemme e altrove; certo uno della sacra discendenza poteva con ragione fare assegnamento su ciò per entrare alla porta del Khan di Betlemme.

[p. 50 modifica]Dicendo come disse Giuseppe: — «Questa era la casa dei miei padri» — era dir la verità, semplice e pura, poichè quella era la stessa casa ove aveva signoreggiato Ruth come moglie di Booz; la stessa nella quale eran nati Jesse ed i suoi dieci figli, Davide il minore; la stessa casa in cui Samuele era venuto a cercare il re e lo aveva trovato; la stessa che Davide aveva dato al figlio di Barzillai; la stessa casa dove Geremia, con la preghiera, aveva salvato i fuggiaschi della sua razza che rinculavano innanzi ai Babilonesi.

Il tentativo non rimase senz’effetto. Il portinaio scese dal ceppo e appoggiandosi la mano sulla barba disse con rispetto:

— «Rabbi, io non vi posso dire quando si sia aperta questa porta per dar il benvenuto al viaggiatore, ma fu più di mill’anni fa, e in tutto questo tempo non vi è alcun uomo che l’abbia trovata chiusa, salvo quando non vi era posto per dargli da riposare.

Perciò una giusta ragione deve avere il guardiano che dica di no ad uno della discendenza di Davide. Se vorrete venire con me vi farò vedere che non v’è un posto per dormire libero in tutta la casa; nè nelle camere, nè nelle stalle, nè nella corte e neppure sul tetto. Posso chiedervi quando siete arrivato?» —

— «Proprio ora.» —

Il guardiano sorrise.

— «Lo straniero che abita con te sarà come uno nato insieme a te e tu l’amerai come te stesso. Non è questa la legge?» —

Giuseppe era silenzioso.

— «Se questa è la legge posso io dire ad uno arrivato da tempo: va per la tua via perchè v’è qui un altro a prendere il tuo posto?» —

Giuseppe si mantenne sempre calmo.

— «E se così dicessi, a chi pretendesse il posto? guardate quanti stanno aspettando; alcuni attendono da mezzogiorno.» —

— «Chi è tutta questa gente? — domandò Giuseppe additando la folla. — E perchè è qui a quest’ora?» —

— «Verrà per quello che indubbiamente avrà condotto qui voi, Rabbi; pel decreto di Cesare — e il guardiano gettò uno sguardo interrogativo al Nazareno poi continuò: — tale motivo portò la maggior parte di coloro che alloggiano qui. E ieri arrivò la carovana diretta da Damasco [p. 51 modifica]all’Arabia e al Basso Egitto. Questi che voi vedete appartengono a quella carovana, uomini e cammelli.» —

Giuseppe persisteva.

— «La corte è grande» — disse.

— «Sì, ma è ingombra di merci e di balle di seta, di caffè, di aromi e di ogni qualità d’oggetti.» —

Allora, per un momento, il viso del richiedente perdette la sua passività; gli occhi immobili e alteri s’abbassarono. Con calore egli disse: «Non importa per me, ma io ho mia moglie con me e la notte è fredda, più fredda su quest’altura che non la notte di Nazareth. Mia moglie non può già rimanersene all’aria aperta. Che vi sia posto in città?» —

— «Questa gente — il guardiano fece un cenno colla mano additando la folla davanti alla porta — ha investigato la città in tutti i sensi e trovò ogni casa piena.» —

Giuseppe guardò ancora una volta a terra dicendo mezzo fra sè:

— «Ella è così giovane! se le facessi un letto sulla collina il gelo l’ucciderebbe!» —

Poi parlò di nuovo al guardiano:

— «Può essere che abbiate conosciuti i di lei genitori, Joachim e Anna, una volta stabiliti a Betlemme, e, come me, discendenti da Davide.» —

— «Sì, li conobbi. Erano buona gente. Li conobbi quand’ero giovane.» —

Questa volta gli occhi del guardiano si chinarono a terra come per riflettere. Ad un tratto alzò il capo:

— «Se non posso trovarvi un posto non posso mandarvi via. Rabbi, farò tutto ciò che potrò per voi. Di quanti è composta la vostra carovana?» —

Giuseppe esitò un po’ e poi rispose:

— «Mia moglie ed un amico con la sua famiglia proveniente da Beth-Dagon, una piccola città vicino a Joppa; in tutto siamo in sei.» —

— «Va bene, non rimarrete fuori; conducete qui gli altri, ma fate presto perchè quando il sole scende dalla montagna vien subito la notte e la notte dev’esser vicina: il sole è quasi sceso.» —

— «Vi do la benedizione del forestiere, quella dell’ospite seguirà.» —

Così dicendo il Nazareno ritornò felice a Maria e all’uomo di Beth Dagon. Quest’ultimo condusse con sè la sua famiglia; le donne cavalcavano degli asini.

La moglie aveva l’aspetto di una matrona; le figlie [p. 52 modifica]eran imagine di ciò che essa doveva esser stata in gioventù.

Mentre si avvicinavano alla porta il guardiano li giudicò a prima vista per gente di condizione mediocre.

— «Questa è colei della quale vi parlai — disse il Nazareno — e questi sono i nostri amici.» —

Il velo di Maria si rialzò.

— «Occhi celesti e capelli d’oro» — mormorò il guardiano tra sè non osservando che lei. «Così era il giovine Re allorchè andò a cantare davanti a Saulle.» —

Poi prese le redini di cuoio dalle mani di Giuseppe e disse a Maria:

— «Pace a voi, o figli di Davide, — poi rivolgendosi agli altri: — Pace a voi tutti! — poi a Giuseppe: — Rabbi, seguitemi.» —

La carovana fu condotta in un andito lastricato di pietra dal quale entrarono nella corte del Khan. Per un forestiero la scena sarebbe stata curiosa ma gli ospiti non osservavano che i porticati che si offrivano ai loro sguardi da tutti i lati affollati come la corte. Da un vicolo riservato a deposito di mercanzie, e poi da un passaggio simile a quello dell’ingresso, essi entrarono nel recinto vicino alla casa e passarono vicino ai cammelli, agli asini ed ai cavalli legati a gruppi e assonnati; in mezzo ad essi v’erano guardiani e uomini di paesi diversi; ed essi pure dormivano o sorvegliavano silenziosamente. Gli ospiti andavano adagio adagio giù pel declivio del cortile affollato, perchè gli asini, pigri, avevano dei ghiribizzi affatto originali. Finalmente voltarono per una via che conduceva al grigio promontorio calcareo dominante il Khan all’ovest.

— «Andiartio nella grotta» — disse Giuseppe laconicamente.

La guida indugiò finchè Maria gli giunse al fianco.

— «La grotta alla quale noi andiamo — egli le disse — deve essere stata un tempo appartenente al vostro antenato. Dal campo sotto di noi e dal pozzo giù nella valle egli soleva condurvi il suo greggie per sicurezza, e poi, quando fu Re, ritornò qui, nella vecchia casa, per riposo e per salute portandosi dietro molti animali. Le mangiatoie sono ancor tali e quali erano allora. E’ meglio un letto per terra dove dormì lui che uno nel cortile o fuori sulla via. Ah! ecco la casa dinanzi alla grotta!» —

Questo discorso non deve esser giudicato come [p. 53 modifica]giustificazione all’alloggio offerto. Non v’era bisogno di giustificazioni. Il sito era il migliore che ci fosse a loro disposizione. Gli ospiti eran gente semplice che si accostumava facilmente alle evenienze della vita. Eran Ebrei di Betlemme, abituati a quelle caverne, perchè le loro località abbondavano di grotte grandi e piccole, alcune delle quali servivano di abitazione fin dal tempo degli Emim e degli Horites. Non v’era alcuna offesa per loro nel fatto che la caverna dove erano stati messi era stata ed era una scuderia. Essi appartenevano ai discendenti di una razza di pastori, le greggie dei quali abitualmente dividevano coi padroni le abitazioni ed i viaggi.

Seguendo l’uso derivato da Abramo, i padiglioni dei Beduini ricevevano tuttora egualmente cavalli e persone. Giuseppe e gli altri obbedirono volentieri il guardiano, ed ammirarono la casa provando una gran curiosità. Tutto ciò che, si associava alla storia di Davide li interessava.

L’edificio era basso e stretto, senza finestre, e di poco sporgente dalla roccia alla quale era unito per di dietro. Nella bianca facciata v’era una porta fissata su enormi cardini e imbrattata di creta ocracea.

Mentre si toglieva la stanga di legno dalla serratura, le donne si eran appoggiate ai loro cuscini. All’aprirsi della porta il guardiano gridò;

— «Entrate!» —

Gli ospiti entrarono e si guardarono attorno. Capirono subito che la casa non era che una fabbrica posta a dissimulare l’ingresso di una caverna probabilmente di quaranta piedi di lunghezza, nove o dieci di altezza e dodici o quindici di larghezza.

La luce raggiava attraverso alla porta sopra un pavimento ineguale, piovendo sopra a dei mucchi di grano, di foraggio, di terraglie e di masserizie che occupavano il centro della caverna.

Ai lati si trovavano delle mangiatoie abbastanza basse per le pecore, e fatte di pietra, murate con della calcina resistente. Non vi erano fiancate o stalli di alcun genere. Polvere e piccole paglie ingiallivano il pavimento e riempivano tutti i crepacci ed i vani ingombri di ragnatele che scendevano dal soffitto come pezzi di tela sucida. Il luogo era abbastanza pulito ed in apparenza comodo quanto può essere una qualunque delle stalle di un Khan vero e proprio. Difatti il primo progetto dei costruttori era stato di fare una caverna, non una stalla.

[p. 54 modifica]— «Entrate — disse la guida, — Questi mucchi di paglia che son per terra servono per far riposare dei viaggiatori quand’essi capitano qui come siete capitati voi. Prendete tutto ciò che avete bisogno.» —

Poi si rivolse a Maria.

— «Credete di poter riposare qui?» —

— «Il sito è santificato» — ella rispose.» —

— «Allora io vi lascio. Pace sia con voi tutti!» —

Quando se ne fu andato essi si affaccendarono per rendere la caverna abitabile.