Ben Hur/Libro Quinto/Capitolo XI

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Capitolo XI

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CAPITOLO XI.


Non era quasi caduta la sera, che già l’Omfalo, il centro della città, rigurgitava di una folla clamorosa e festante, che si versava in due correnti, al Ninfeo, ad Oriente, e lungo i colonnati di Erode verso Occidente. Nessuna cornice più grandiosa e più adatta a questo gaio e spensierato spettacolo poteva immaginarsi, di queste meravigliose strade fiancheggiate da porticati marmorei, doni di Principi e Re, alla città regina d’Oriente. L’oscurità era bandita come la malinconia. Fiaccole e bracieri illuminavano la massa ondeggiante del popolo, che, cantando, ridendo, e gridando si abbandonava ai piaceri di Apollo e di Bacco.

Le molte nazionalità rappresentate, se avrebbero stupito un forestiero, non erano cosa nuova per Antiochia. Una delle missioni del grande Impero sembra esser stata la fusione degli uomini e il ravvicinamento dei popoli lontani. E dove era un centro d’autorità Romana, come a Roma affluivano i rappresentanti dei diversi paesi, con le loro divinità e con le loro costumanze.

Un particolare però non avrebbe potuto sfuggire all’osservatore quella sera in Antiochia. Quasi ogni persona portava i colori di una delle quadrighe annunciate nelle corse di domani. Ora era un nastro, ora un distintivo, uno scialle, una piuma, significanti la preferenza e spesso la nazionalità del portatore: così il verde indicava gli amici di Cleante, l’Ateniese, il nero quelli del Bizantino. Costume questo antichissimo, che datava probabilmente fin dalle prime gare ai tempi di Oreste, e proficuo tema di studio a chi voglia indagare fino a qual punto di follia gli uomini possono lasciarsi trascinare. Un esame superficiale avrebbe dimostrato che i colori predominanti erano tre — verde, bianco, e misto porpora ed oro.

Ma abbandoniamo la via e rechiamoci nel palazzo sopra l’isola.

I cinque grandi candelabri della gran sala sono accesi di fresco. La compagnia è quella identica a cui abbiamo già presentato il lettore. Il divano geme sotto il solito peso dei dormienti e di vestaglie gettatevi alla rinfusa, e dai tavoli sorge il medesimo rumore di dadi.

[p. 318 modifica]Ma questa volta la maggioranza non è occupata al giuoco. I giovani passeggiano in su e in giù, a due, a tre, o si fermano in crocchi a discorrere. Molti sbadigliano; gli argomenti sono futili: Che tempo farà domani? I preparativi pei giuochi sono terminati? Le leggi del Circo di Antiochia sono come quelle di Roma? A dire il vero, i giovani patrizi soffrono di una noia terribile. Il gravoso lavoro della giornata è finito; vale a dire, se potessimo dare un’occhiata alle loro tavolette, le vedremmo coperte di annotazioni e di scommesse, — scommesse su tutti i capi del programma, sulle corse pedestri, la lotta, il pugilato, — tutto, tranne sulla corsa dei cocchi.

E perchè non su quella?

Buon lettore, essi non possono trovare un’anima che voglia arrischiare un denario contro Messala.

Nella sala non vi sono altri colori dei suoi.

Nessuno pensa alla sua sconfitta.

La sua abilità e destrezza non sono esse conosciute? Non fu egli educato da un lanista Imperiale? I suoi cavalli non vinsero il Gran Premio nel Circo Massimo? E poi — ah sì! non è egli Romano?

In un angolo, adagiato comodamente sopra il divano, sta Messala medesimo.

Intorno a lui, in piedi o seduti, i suoi cortigiani lo tempestano di domande.

Naturalmente l’argomento è uno solo.

Entrano Cecilo e Druso.

— «Ah!» — esclama il giovine principe, lasciandosi cadere sul divano ai piedi di Messala: — «Ah, per Bacco, sono stanco!» —

— «Dove sei stato?» — chiede Messala.

— Nelle vie, fino all’Omfalo, e più in là. Fiumi di gente, ti dico. La città non è mai stata così affollata. Dicono che tutto il mondo sarà domani nel Circo.» —

Messala rise con disprezzo.

— «Idioti! Non hanno mai veduto i giuochi Circensi, sotto la direzione di Cesare medesimo. Ma dimmi, mio Druso, che cosa hai trovato?» —

— «Nulla» —

— «Cioè — Non ti ricordi?» — disse Cecilio.

— «Che cosa?» — fece Druso.

— «La processione di bianchi.» —

— «Meraviglioso!» — esclamò Druso. — «Abbiamo incontrato un gruppo di bianchi, con uno stendardo. Ma — ah, ah, ah!» —

[p. 319 modifica]Ricadde indietro ridendo.

— «Crudele Druso, perchè non continuare?» — disse Messala.

— «Feccia del deserto, erano, o Messala, e spazzini del Tempio di Gerusalemme. Che cosa avevano da vedere con me?» —

— «No.» — disse Cecilio — » Druso ha paura che ridiate alle sue spese. Ma io non temo, o Messala.» —

— «Parla tu, allora.» —

— «Dunque, abbiamo fermato la processione, e....» —

— «Abbiamo loro offerto una scommessa «— disse Druso, interrompendo, e togliendo le parole di bocca al suo parassita. — «Un piccolo individuo tutto rugoso uscì dalla fila ed accettò. Io estrassi le mie tavolette. — «Chi è il tuo campione? «— gli chiesi. — » Ben Hur, l’Ebreo, «— egli rispose. Io gli faccio: — » La posta? Quanto?» — Egli rispose. — «Un un....» — «Scusami Messala, ma pel fulmine di Giove, non posso continuare dal gran ridere! Ah, ah, ah!» —

Gli ascoltatori si volsero verso Cecilio. Messala lo guardò.

— «Un siclo!» — disse questi.

— «Un siclo! Un siclo!» —

Uno scoppio di risa tenne dietro alla risposta.

— «E che cosa fece Druso?» — chiese Messala.

In questo momento un grande rumore si levò presso la porta e i giovani si precipitarono in quella direzione. Crescendo il frastuono, anche Cecilio si strappò dal divano, solo volgendosi per dire: — «Il nobile Druso, o Messala, intascò le sue tavolette, e rinunciò al siclo.» —

— «Un bianco! Un bianco!» —

— «Per di qui, per di qui!» —

Queste ed altre esclamazioni echeggiarono nella sala coprendo ogni altra parola. I giuocatori abbandonarono i bossoli; gli addormentati si svegliarono, si stropicciarono gli occhi, tirarono fuori le loro tavolette, e si unirono al gruppo.

— «Io scommetto» —

— «Ed io....» —

— «Anch’io.» —

La persona fatta segno a questa calorosa accoglienza era il rispettabile Ebreo di cui facemmo conoscenza insieme a Ben Hur, a bordo della nave che lo portava da Cipro ad Antiochia.

[p. 320 modifica]Il suo portamento era grave, cortese, vigile. La veste era bianchissima come pure il turbante che gli cingeva il capo. Inchinandosi e sorridendo, si avvicinò lentamente al tavolo centrale. Arrivatovi, raccolse con un gesto dignitoso le pieghe della toga, si sedette, e alzò la mano. Lo scintillare di un gioiello sull’anulare, contribuì non poco al silenzio che seguì.

— «Romani — illustri Romani — Vi saluto!» — egli disse.

— «Mi piace la sua disinvoltura, per Giove! Chi è?» — chiese Druso.

— «Un cane d’Israele — Samballat di nome — fornitore dell’esercito; domiciliato in Roma, immensamente ricco; diventato tale defraudando i Romani. Una testa fina, che ti sa tessere trame più sottili di quelle dei ragni. Andiamo, per la zona di Venere! Vediamo se possiamo spillargli denari.» —

Così dicendo. Messala si alzò e con Druso raggiunse la folla che accerchiava l’Ebreo.

— «Ho saputo in istrada» — egli diceva, tirando fuori le sue tavolette e collocandole aperte sopra il tavolo, — «che la disperazione regnava nel palazzo, perchè non si trovava chi accettasse scommesse contro Messala. Gli Dei, sapete, richiedono sacrifici, ed eccomi pronto. Vedete il mio colore. Passiamo agli affari. Prima le quotazioni, poi le somme. A cosa mi date Messala?» —

La sua audacia sembrava sbalordire i suoi ascoltatori.

— «Presto!» — egli disse. — «Ho un appuntamento col Console.» —

Lo stimolo sortì il suo effetto.

— «A due!» — gridò una mezza dozzina di voci.

— «Che?» — esclamò il fornitore, stupito. — «Soltanto a due, un Romano!» —

— «Tre, allora.» —

— «Tre, soltanto tre? — e il mio favorito non è che un cane d’un Ebreo! Datemi quattro.» —

— «Quattro sia!» — esclamò un ragazzo, punto dallo scherno.

— «Cinque — datemi cinque» — disse subito il fornitore.

Un profondo silenzio cadde sopra l’assemblea.

— «Il Console, padrone mio è vostro, mi attende.» —

Il silenzio parve oltraggioso a molti.

— «Datemi cinque — per l’onore di Roma, cinque.» —

— «Cinque sia» — esclamò una voce.

[p. 321 modifica]Un clamoroso urrà accolse le parole. Vi fu un movimento nella folla che si spartì a destra e sinistra, e Messala apparve.

— «Cinque siano» — egli disse.

E Samballat, sorridendo, si preparò a scrivere.

— «Se Cesare morisse domani, Roma non sarebbe del tutto derelitta. Vi è almeno uno degno di prendere il suo posto. Dammi sei.» —

— «Siano sei» — rispose Messala.

Vi fu un altro urlo più forte del primo.

— «Sei siano» — ripetè Messala. — «Sei contro uno — la differenza fra un Romano e un Giudeo. Ed ora che l’hai scoperta, o protettore della carne suina, passiamo alla posta. — La somma, presto. Il console potrebbe mandarti a chiamare e, noi resteremmo privi della tua presenza.» —

Samballat prese in buona parte la risata che tenne dietro a queste parole, e scrisse tranquillamente, poi offrì le tavolette a Messala.

— «Leggi, leggi!» — gridarono tutti.

E Messala lesse:

— «Mem.» — Corsa di cocchi. Messala di Roma, scommette con Samballat pure di Roma, dicendo che batterà l’Ebreo Ben Hur. Posta, venti talenti. Quotazione di Messala, uno contro sei.

Testimoni.                         Samballat.


Non una parola, non un respiro turbò il profondo silenzio della sala.

Nessuno si mosse.

Messala fissava le tavolette, mentre gli occhi del fornitore fissavano lui.

Egli sentì quello sguardo, e pensò rapidamente. Da questo posto egli aveva dettata la legge ai suoi compagni. Essi lo avrebbero ricordato. Se egli si rifiutava di firmare, la sua superiorità era sparita per sempre. Eppure egli non poteva firmare, non possedeva la somma di cento talenti; neppure un quinto di essa. La sua mente si oscurò. La lingua si rifiutò di parlare, le guancie impallidirono. Un istante rimase in questo stato, poi gli venne un’idea.

— «Cane di un Ebreo!» — egli disse. — «Dove hai tu venti talenti? falli vedere.» —

Il sorriso provocante di Samballat si accentuò.

— «Ecco» — disse offrendo un foglio a Messala.

— «Leggi, leggi!» — risuonò tutto all’intorno.

[p. 322 modifica]Messala lesse:

— «Antiochia — Tamuz, 16 giorno.

Il portatore, Samballat di Roma, è accreditato presso di me per la somma di cinquanta talenti, moneta Romana.

Simonide. » —


— «Cinquanta talenti! Cinquanta talenti!» — vociferò la folla, stupita.

Druso battè il piede per terra.

— «Per Ercole!» — egli gridò — «il foglio mente, e l’Ebreo è un bugiardo. Chi, se non Cesare, ha cinquanta talenti all’ordine! Abbasso il bianco insolente!» —

L’urlo era furioso, e fu ripetuto da venti gole; ma Samballat rimase tranquillamente seduto, col medesimo sorriso provocante sulle labbra. Finalmente Messala parlò.

— «Silenzio! Uno contro uno, con cittadini — uno contro uno, per l’amore del nostro bel nome Romano.» —

Il suo intervento opportuno salvò la sua dignità e gli riconquistò la vacillante supremazia.

— «O cane circonciso!» — egli continuò verso Samballat, — «Tu dicesti sei contro uno, nevvero?» —

— «Sì» — rispose tranquillamente l’Ebreo.» —

— «Allora lasciami scegliere la posta.» —

— «Come vuoi, a condizione, se è una bagatella, di rifiutarla.» —

— «Scrivi cinque in luogo di venti.» —

— «Possiedi tanto?» —

— «Per la madre degli Dei, ti mostrerò le ricevute.» —

— «No, no. Basta la parola di un così illustre Romano. Soltanto facciamo una cifra pari. Scrivo sei talenti?» —

— «Scrivi.» —

Si scambiarono le scritture.

Samballat si alzò e con un ghigno di scherno in luogo del sorriso di prima, misurò l’assemblea. Egli conosceva con chi aveva da fare.

— «Romani,» — egli disse, — «un altra scommessa, se osate. Io punto cinque talenti contro cinque, sulla vittoria del bianco. Vi lancio una sfida collettiva.» —

Di nuovo tutti stupirono.

— «Ecchè?» — egli gridò, a voce più alta. — «Dovranno dire domani nel circo che un cane d’Israele è penetrato in una sala piena di patrizii Romani, e fra questi un parente di Cesare, ed ha offerto loro cinque talenti alla pari, ed essi non hanno avuto il coraggio di accettare?» —

L’offesa era terribile.

[p. 323 modifica]— «Cessa, o insolente!» — disse Druso. — «Scrivi la scommessa e lasciala sul tavolo. Domani, se avremo trovato che tu possiedi veramente tanto denaro da buttar via, io, Druso, ti prometto che sarà accettata.» —

Samballat scrisse nuovamente, e alzandosi, disse, con inalterabile calma:

— «Ecco, Druso. Io ti lascio l’offerta; quando è firmata, mandamela prima che incominci la corsa. Mi troverai vicino al Console nella tribuna sopra la Porta Pompae. Pace a te; pace a voi tutti.» —

Egli fece un inchino e partì, senza badare all’urlo che lo accompagnò fino alla porta. Quella notte la storia della scommessa prodigiosa volò di bocca in bocca per tutte le vie e piazze di Antiochia; e Ben Hur, vegliando presso i suoi quattro cavalli, la udì raccontare, e seppe anche che tutta la sostanza di Messala era impegnata in essa.

E si addormentò sorridendo.