Ben Hur/Libro Terzo/Capitolo II

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Capitolo II

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CAPITOLO II.


Il tribuno, ritto sul ponte del timone, con l’ordine del duumviro spiegato nelle mani, parlò all’hortator, o capo dei rematori. [p. 132 modifica]

— «A che forza comandi?» —

— «Duecento cinquantadue rematori; dieci supplenti.» —

— «Con ricambi di....» —

— «Ottantaquattro uomini.» —

— «E il servizio che adottavi?» —

— «Due ore di lavoro, due di riposo.» —

Il tribuno pensò alquanto.

— «La disposizione è dura, ed io la riformerò, ma non ora. I remi devono lavorare giorno e notte. Il vento è favorevole: la vela aiuti i remi.» —

Poi voltosi al primo pilota, o rector, gli chiese:

— «Quanti anni hai servito?» —

— «Trentadue anni.» —

— «In quali mari principalmente?» —

— «Fra Roma e l’Oriente.» —

— «Tu sei l’uomo che fa per me.» —

Il tribuno consultò gli ordini ricevuti.

— «Dopo la punta della Campanella la nostra rotta sarà verso Messina. Quindi seguendo la curva della costa Calabra fino a Melito, poi... conosci tu le costellazioni che governano il Mar Jonio?» —

— «Le conosco.» —

— «Allora da Melito piega a levante, verso Citera. Se gli Dei sono propizi getterò àncora solo nella baia di Antimona. Il tuo compito è importante, e io mi fido di te.» —

Un uomo prudente era Arrio; e mentre arricchiva gli altari di Anzio e Preneste, stimava che il favore della Dea bendata dipendesse più dal giudizio e dalla cura del fedele che dai propri doni votivi. Tutta notte, quale anfitrione della cena, egli aveva banchettato e giocato, ma l’odore del mare gli fece rinascere l’istinto e l’abitudine del marinaio, e non volle riposare finchè non conoscesse perfettamente la sua nave. La scienza nulla abbandona al caso. Avendo principiato col capo dei vogatori, e col pilota, in compagnia degli altri ufficiali, cioè il comandante della truppa, il custode dei viveri, il capo delle macchine, il sopraintendente delle cucine e dei fuochi, visitò i varî quartieri della nave. Nulla sfuggiva alla sua ispezione. Quando ebbe terminato, egli solo di tutta la piccola società chiusa fra quelle anguste mura di legno, conosceva a puntino tutta la potenzialità della nave, le sue provvigioni, le sue eventuali risorse in guerra. Non gli mancava che la conoscenza esatta dell’ [p. 133 modifica]equipaggio sotto il suo comando, la parte più delicata e difficile del suo compito.

A mezzogiorno la galera si trovava all’altezza di Pesto. Il vento continuava a soffiare da occidente, gonfiando le vele ed aiutando materialmente i rematori. Le sentinelle erano state poste sopra coperta. L’altare sul ponte di trinchetto era stato cosparso di sale e di avena; davanti ad esso il tribuno aveva alzate preghiere solenni a Giove, a Nettuno, e a tutte le Oceanine, confermando i suoi voti con vino ed incenso. Ed ora, per meglio studiare i suoi uomini, sedeva nella sua grande cabina.

Questa cabina si trovava nel mezzo della galera, e misurava settantacinque piedi di lunghezza per trenta di larghezza. Era illuminata da tre ampî boccaporti, sostenuta da una doppia fila di vigorosi puntelli, nel centro dei quali appariva l’albero della nave, tutto adorno di ascie, lancie e giavellotti. A ciascun boccaporto si accedeva da due scale mobili, che erano allora sollevate e fissate al soffitto.

Questo era il centro della nave, il ritrovo comune di tutto l’equipaggio, la sala da pranzo, il dormitorio, il campo d’esercitazione e il luogo di riposo e di recreazione in quanto questa era permessa dalla dura e implacabile disciplina di bordo.

In fondo alla cabina si trovava una piattaforma alla quale conducevano parecchi gradini. Su questa sedeva il capo dei rematori, che aveva dinanzi a sè un tavolo sonoro sul quale batteva il tempo con un martello di bronzo, e, a sinistra una clessidra, od orologio ad acqua, per distribuire le ore di lavoro e stabilire i cambi. Sopra di lui, su un’altra piattaforma ancora più rialzata, protetta da una ringhiera dorata, era il quartiere del tribuno, fornito di un letto, un tavolo, una cathedra, o scranna bene imbottita, il tutto di squisita e ricca eleganza.

Seduto comodamente in questa poltrona, cullato dal rullìo uniforme della nave, il mantello militare negligentemente gettato sopra una spalla, e colla spada al fianco, Arrio osservava con occhio vigile il suo equipaggio, e ne era con uguale attenzione osservato. L’occhio critico di lui abbracciava ogni cosa, ma con maggiore insistenza si posava sopra i rematori. I lettori avrebbero fatto lo stesso; soltanto che nel loro interessamento ci sarebbe stata della simpatia e della compassione; mentre il pensiero del tribuno li considerava soltanto come ingranaggi importanti della grande macchina alla quale era preposto.

[p. 134 modifica]Lo spettacolo era abbastanza semplice. Lungo i lati della cabina, fisso al pavimento della nave, correva ciò che a prima vista sembrava una triplice fila di banchi; un esame più attento rilevava invece molte serie di sedili, in ciascuna delle quali il secondo sedile era posteriore e più alto del primo, il terzo posteriore e più alto del secondo. Per collocore i sessanta rematori di ciascun lato, lo spazio ad essi destinato era diviso in venti banchi ad un intervallo di un metro l’uno dall’altro. Questa disposizione dava ampio spazio ai rematori che dovevano prendere il tempo l’uno dagli altri come una schiera di soldati marcianti con passo cadenzato in fila serrata. Questa disposizione permetteva ancora un eventuale aumento dei sedili, limitati soltanto dalla lunghezza della galera.

Quanto ai rematori, quelli del primo e secondo sedile, erano seduti, quelli del terzo, dovendo maneggiare remi più lunghi, stavano in piedi. I remi avevano all’impugnatura contrappesi di piombo, ed erano appesi a correggie mobili, che rendevano possibili i più delicati movimenti, ma, d’altra parte, richiedevano una abilità maggiore, perchè una ondata violenta da un momento all’altro poteva cogliere il rematore sbadato e scaraventarlo dal suo sedile. Dalle finestre entrava aria in abbondanza, mentre la luce pioveva attraverso il graticcio che costituiva il pavimento del passaggio tra il ponte e i baluardi laterali. Sotto alcuni riguardi dunque la condizione di questi uomini non poteva dirsi cattiva. Ma non dobbiamo per questo credere che fosse una vita di piacere. Era loro interdetto di parlarsi. Giorno e notte occupavano i propri posti senza scambiarsi una parola, senza vedere i volti dei vicini. I brevi momenti di intervallo erano dati al sonno, o al cibo. Non ridevano mai; nessuno li aveva sentiti cantare. La vita di quei miserabili era come un fiume sotterreano che muova lentamente, a fatica, verso una foce ignota.

O Figlio di Maria! Oggi anche i soldati hanno un cuore, e tua ne è la gloria! Ma in quei giorni prigionia significava una vita di stenti sulle mura, nelle strade, nelle miniere, nelle navi. Quando Duilio vinse la prima battaglia navale del suo popolo, Romani maneggiavano i remi, e la gloria della giornata era divisa fra il rematore e il soldato. Questi banchi, che ora osserviamo, erano indizii delle mutate sorti di Roma, seguite alla conquista del mondo, ed illustravano insieme la politica e il coraggio dei Romani. Quasi tutti i popoli vi erano rappresentati da qualcuno dei [p. 135 modifica]loro figli, per lo più prigionieri di guerra, scelti per la loro forza. Qui un Britanno; più innanzi un Libio, più indietro un Sarmata, più in là uno Scita, un Gallo, un Greco. Forzati romani insieme a Goti, Longobardi, Ebrei, Etiopi, Egiziani, e barbari delle rive della Meotide. Qui un Ateniese, là un selvaggio dell’Ibernia rosso-chiomato, là un gigante Cimbro dagli occhi azzurri.

Il lavoro dei rematori era troppo materiale per dare occupazione alla loro intelligenza. Spingere innanzi il corpo, sollevare il remo, librarlo, immergerlo, ecco tutto; movimenti che raggiungevano la massima perfezione quando diventavano automatici. Anche la sollecitudine del pericolo derivante dalle onde riottose divenne col tempo meramente istintiva. Il risultato del lungo servizio era un armento di povere creature abbrutite, pazienti, avvilite; corpi muscolosi e intelligenze esaurite, che vivevano di memorie, poche in genere, ma care, decadendo finalmente ad uno stato semi-incosciente, in cui il dolore si ottunde e diventa abitudine e l’anima acquista una straordinaria tenacia.

Da destra a sinistra, un’ora dopo l’altra, il Tribuno volgeva i suoi sguardi, pensoso di tutto tranne dell’infelicità degli schiavi sopra i loro banchi. I loro movimenti precisi, uguali dall’una e dall’altra parte del bastimento, in breve divennero monotoni; allora egli si divertì ad osservare i singoli individui. Col suo stilo notava tratto tratto le deficienze di alcuni, pensando che avrebbe trovato fra i pirati dei sostituti migliori.

Non v’era bisogno di ricordare i nomi degli schiavi, che entravano nella galera come in un sepolcro; bastavano, per distinguerli, dei numeri segnati sopra i sedili ai quali ciascuno era destinato. Nel loro viaggio di esplorazione gli occhi del grand’uomo arrivarono finalmente sopra il numero sessanta, e vi si arrestarono.

Il sedile del numero sessanta era alquanto più alto della piattaforma e distava da lei pochi passi. La luce che scendeva attraverso il graticcio sul capo del rematore lo rivelava intieramente allo sguardo del Tribuno — dritto, e nudo fino alla cintola come i suoi compagni. Parecchi tratti parlavano tuttavia in suo favore. Era molto giovane, non più che ventenne. Arrio non era poi solamente dedito ai dadi, ma era conoscitore di uomini fisicamente, e, quando era a terra, amava visitare i ginnasi e le palestre per vedere ed ammirare gli atleti più famosi. Un professore gli aveva detto una volta che la forza dipendeva piuttosto dalla [p. 136 modifica]qualità che dalla quantità dei muscoli, e che qualunque esercizio richiedeva una certa dose di intelligenza come di forza. Avendo fatto sua questa teoria, come la maggior parte degli uomini che hanno un’idea fissa, cercava continuamente illustrazioni pratiche in suo appoggio.

Nel corso di questi studi raramente aveva incontrato un soggetto che lo soddisfacesse completamente; certo era che nessuno aveva arrestato i suoi sguardi così a lungo come questo.

Al dar mano ad ogni movimento del remo, il corpo ed il volto del rematore, apparivano di profilo all’osservatore sulla piattaforma; l’azione terminava col corpo spinto innanzi. La grazia e la facilità di questo movimento dapprima suggerivano dei dubbi intorno all’onestà dello sforzo; ma questi venivano subito dissipati: la fermezza con cui il remo era afferrato in ciascun movimento, il piegarsi che faceva sotto la spinta, rivelavano la forza impiegata; allo stesso tempo provavano l’arte del rematore, e indussero tosto il critico a riflettere dalla poltrona sull’unione di forza e intelligenza che formava il nocciolo della sua teoria.

Pensando a ciò Arrio osservò la giovinezza dell’uomo; senza provar soverchia tenerezza per questa scoperta, vide che la sua statura era alquanto superiore della media altezza, e che le membra, tanto le superiori che le inferiori erano, di singolare bellezza. Forse le braccia erano troppo lunghe, ma questo difetto scompariva sotto la mole dei muscoli, che in alcuni movimenti si gonfiavano come gruppi di corde. Ogni costola si disegnava chiaramente sopra al corpo rotondo; ma questa era la sana magrezza tanto ricercata nelle palestre. Finalmente, nel complesso dei movimenti del rematore, vi era una tale armonia, che oltre combaciare con la nota teoria del tribuno, stimolava vivamente la sua curiosità.

Provò il bisogno di vedere il volto dell’uomo, di cui non scorgeva che la testa formosa piantata sopra un collo, largo alla base, ma di grande pieghevolezza e grazia. I tratti osservati di profilo erano orientali, e avevano quella delicatezza di espressione che accompagna solitamente l’aristocrazia del sangue e dello spirito. Queste osservazioni resero più intenso l’interessamento del tribuno.

— «Per gli Dei» — pensò fra sè — «quell’individuo ha fatto colpo! Egli promette bene. Voglio conoscerlo.» —

In quella il rematore si voltò, guardandolo, e il tribuno potè contemplarne il viso.

[p. 137 modifica]— «E’ Ebreo ed è un ragazzo!» —

Sotto lo sguardo scrutatore fissato sopra di lui, gli occhi dello schiavo si allargarono e il sangue gli imporporò le gote. Il remo rimase inerte nelle sue mani, ma tosto il martello dell’hortator, cadendo rumorosamente, lo richiamò al dovere. Il vogatore trasalì, e, come se il rimprovero fosse stato personalmente indirizzato a lui, immerse il remo. Quando guardò nuovamente il tribuno, fu stupito di incontrare un sorriso.

Frattanto la galera entrava nello stretto di Messina, e, passando davanti alla città di quel nome, volse la prora verso oriente, finchè la nuvola sopra l’Etna divenne come una macchia sull’orizzonte.

Spesso mentre Arrio dalla piattaforma scendeva alla cabina, si voltava per studiare il rematore, dicendo fra sè:

— «E’ un giovane animoso. Un Ebreo non è un barbaro. Voglio conoscerlo meglio.» —