Biografie dei consiglieri comunali di Roma/Giuseppe Pocaterra
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GIUSEPPE POCATERRA
Consigliere Municipale
L’epoca nostra è sciaguratissima per ogni sorta di cotali esempi: se quindi spesso avviene che si lamentino mali ordinamenti nelle famiglie, nei Comuni, negli Stati, ciò è da attribuirsi al modo con che gli uomini e quelle e questi costituiscono, ricercandosi la personale eminenza e non il bene generale; le forme accidentali di una gloria legata esclusivamente al nome, e non la gloria vera che sta nelle azioni della persona e nelle istituzioni di una società.
E quando lo storico s’incontra in qualcuno di quelli individui che dalla cerchia comune per merito proprio si elevano, trovasi quasi costretto a tributargli uno speciale onore, non perchè intrinsecamente ed assolutamente glielo si deva, dacché il bene è premio a se stesso, nè ha bisogno di trascinarsi carpone a piedi degli adulatori, ma perchè tale bene è raro e perciò maggiormente in istima e valore tenuto. — Turbinati del continuo nel vortice di delusioni sugli uomini e sulle cose, rotta dì per dì la catena degli affetti e della fede, distrutti quei vincoli che ci legavano ad un passato di ordine lo fosse pure di servitù, mentre lo scetticismo ci si serra addosso, provasi il bisogno istintivo di cercare e di trovare alcun che di bene, di nobile, di giusto; nè hassi coraggio a gittare cori dispetto il sacco delle prime credenze, a distruggere ogni idea di virtù e di merito: sentesi la necessità di trovare qualche persona, qualche cosa sulla terra che ancora faccia credere, mentre il tutto non è che finzione, ipocrisia, menzogna. — E pur troppo tali ricerche convien farle dal mezzo della scala sociale in basso, nè più sopra, nè più sotto; perchè nel fondo fermenta l’ignoranza e la brutalità dell’egoismo, al di sopra vi sta l’ambizione e l’interesse, giammai l’indipendenza da queste passioni, c la volontà ferma di fare da sè senza riguardo a ricordi od a speranze.
Con tali riflessi ci portiamo a scrivere di Pocaterra Giuseppe, attuale Consigliere Comunale.
La famiglia è di Cesena, e v’hanno tradizioni e ricordi ch’essa un dì fosse distinta per censo e qualità. — La instabile e cieca fortuna siccome tutto muta, così anche nella famiglia dei Pocaterra avvolse nel suo giro patrimoni e dignità, lasciandovi a sola grazia il nome, ora segnato nei pubblici atti, ora in semplice ricordo fra i cittadini. Per quali vicende ed in quanto tempo, non è da qui il rammentarlo: passò e basta.
Pocaterra Giuseppe nasceva in Roma nel dì 16 aprile 1829 di madre romana, e di padre ravennate. — Dopo i rovesci della fortuna i Pocaterra stabilitisi in Roma, si dedicavano al commercio, e vi destinavano pure il figliuolo, il quale nel 1836 andava a studio nelle scuole tenute dai fratelli della Dottrina Cristiana, e nel 1839 passò ad apprendere l’arte dell’orafo. Ma per l’arte non neglesse lo studio, e quando da quella in alcune ore del giorno trovavasi libero frequentava la pubblica scuola, dando larga speranza di ottimo profitto presso il sacerdote Romanini che gli era istitutore.
Nel 1848 arruolavasi il Pocaterra nella legione romana allorquando dopo la capitolazione di Vicenza faceva ritorno in Roma, quindi uni vasi alla difesa della città contro l’esercito francese calato in Italia per ricondurre sul trono papale Pio IX che viveva esule in Gaeta. Nel combattimento del 30 aprile, il Pocaterra seppe distinguersi così per coraggio e cuore da meritarsi speciali encomi, essendo riuscito a far deporre le armi al 20° reggimento di fanteria francese. — Nel dì 19 maggio combattè pure da forte a Velletri, dove i borbonici furono costretti a subire una disfatta; però appresso alla restaurazione compitasi in Roma, ritornò il Pocaterra alla tranquillità del lavoro.
Ed il nobile carattere del Pocaterra allora manifestassi più chiaramente, e sè fece prova della massima che volere è potere, poichè nè la fatica disdegnando, nè la assiduità in quella negligendo, fisso al banco per quindici ore e nove sole concedendone alla distrazione ed al riposo, venne creandosi uno stato che lo pose in onoranza fra gli orafi di Roma. — Nè a tale punto si ristette, o giudicò venuto il tempo di mettersi in quella quiete che ai laboriosi è diritto, ed ai bene provveduti è abitudine quantunque sfiacchi ed indebolisca carattere e fisico, ma dièssi a prediligere il disegno e la lettura, che la mente sempre educa ed al cuore è conforto ed all’animo inspirazione di nobili sentimenti. — Per tali doti aumentandoglisi sempre la stima dei propri concittadini, e fra tutti degli operai, nelle elezioni amministrative del 1872 venne da questi proposto e raccomandato quale Consigliere Comunale; nè l’ambizione lo ventilava con le sue ali di pavone, chè anzi riguardavasi dallo accettare l’incarico offertogli, quando dignità gl’impose di rompere gli ostacoli intendendo di essere da alcuni avversato come cittadino della patria e del pubblico bene indifferente.
Ed i voti di quanti lo stimavano intelligente e probo lo portarono in Campidoglio, ed assiduo attese quivi alle consigliari adunanze, e trattò gl’interessi con la coscienza dell’uomo che può dire fate come ho fatto io, ed alla classe laboriosa particolarmente sforzossi di recare vantaggio, vincendo la opposizione di coloro che male conoscono e peggio quindi giudicano dei bisogni e dei provvedimenti dovuti nelle società, perchè, moralmente o materialmente che intendere si voglia, è vero sempre il detto che «corpo satollo non crede al digiuno.» — Il Pocaterra fa parte di due commissioni amministrative di due pii luoghi avvocati al Comune, tiene alla carità vera più che alla filantropia superficiale, e per tale guisa aspira non alla pubblica ammirazione, ma allo plauso della propria coscienza.
Nè di Giuseppe Pocaterra noi vorremmo più oltre dire per ciò che alla sua vita di cittadino ha relazione, bensì il campo avremmo aperto a molti riflessi, i quali se ascoltati porterebbero quel vantaggio che a parole suona grandissimo, ma che nei fatti a poco si risolve.
Scrivemmo parecchie volte, ora questo ed ora quello Consigliere biografando, come il benessere di una famiglia, di un Comune, di uno Stato deva misurarsi non dalle esteriori appariscenze di una fittizia prosperità, ma dalla sostanza reale di un vivere se non agiato, certo il meno infelice. — Le piazze, i pubblici giardini, i luoghi di ameno ritrovo accolgono i ricchi, gli soddisfatti, ma spesso ancora coloro che non hanno un tetto sotto cui passare meno disgraziatamente la vita, una famiglia nel cui seno riposarsi senza le ambascie tristisssime della miseria. Accanto al ricco passeggerà negli ufficiali tripudi anche il povero, la bettola sarà spesso più frequentata del caffè aristocratico, le feste saranno clamorose; ma e che per ciò? I Monti di Pietà fanno fede della pubblica prosperità, come gli uffici dei notai e le carceri danno testimonianza di tanti che per crearsi una vita fittizia di godimento, immiseriscono ogni dì più finché la società filantropica offre a loro ultima risorsa un letto allo spedale, od il vitto e l’alloggio nelle prigioni. — L’apparenza inganna, e n’hanno certo colpa gravissima coloro che preposti alla pubblica cosa attendono a tener vivo l’inganno sullo stato vero di una popolazione, e stimano che ogni dovere sia compito perchè fanno belli i luoghi dove oziano i ricchi, e rendono ventilati ed imbiancate le mura degli ospedali e delle carceri dove colanotanti infelici. — I misteri delle soffitte, delle camere modeste, raramente si conoscono; l’occhio dell’uomo che modera la pubblica cosa si posa all’esteriore: il pubblico ride e folleggia, dunque è contento, e se ò contento è prova che non ha o non sente i bisogni. Così dai più si ragiona, e perciò si trascurano quei provvedimenti sostanziali che dovrebbero recare il vero bene ai poveri, e tutti migliorare nella vita morale e materiale. Il nobile, il ricco che non ha faccenda se non con il ministro di casa per ritirare senza un pensiero al mondo ciò che gli occorre per i quotidiani piaceri, questi non può conoscere nè dove si trovino realmente i bisogni, nè con quale intensità gravitino, nè se naturali come vadino soddisfatti, se fittizi ’come vadino moderati.
La rivoluzione francese del 1879 ha abbattuto la nobiltà, ma ha innalzato la borghesia, e questa a sua volta è divenuta altera e boriosa come quella: la nobiltà presentava una giustizia a modo proprio per diritto ereditario, la borghesia amministra a modo proprio la giustizia per diritto acquisito nell’uso sociale e nei posti che tiene: la prima era fiera ma aveva la generosità del sangue, la seconda è violenta, e per tema di perdere i diritti di recente data si accerchia nell’egoismo; quella poteva camminare o cedere alle esigenze del progresso, questa vi resiste tenacemente e lo vuole a sè soggetto: chi intanto ne va di mezzo è la massa che brulica nel fondo, che vegeta come pianta parassita perchè non potendo sviluppare la propria vita lavorando, vive consumando; quindi il disordine e lo squilibrio perenne fra produttoori e consumatori.
Noi scrivendo di un popolano non intendiamo cogliere la circostanza per levar bizza contro la borghesia: no, ma desideriamo rilevare il male che ancora esiste nelle costituzioni, perchè possano tutti aver presente che la vera nobiltà ha un valore, che la classe diseredata è una materia, e che la borghesia come è oggi non è nè moderazione della prima, nè benefizio della seconda.