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Canti (Aleardi)/Poesie volanti/A Ida Vegezzi Ruscalla

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Poesie volanti - Per albo Poesie volanti - A Re Vittorio Emanuele
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A IDA VEGEZZI RUSCALLA.


I.

     Fior subalpin di cortesia severa,
Ida, quand’io movea
Ieri, in sull’ora de la blanda sera
Al paradiso de la nota altura,
Arcana sorridea
Non so che festa in tutta la Natura.
Lampade eterne dell’azzurra vòlta
Gli astri infiniti e i mondi
Mandavan dai profondi
Cieli una gioia di sereni lampi;
Agili, brevi, fuggitive stelle
De la campagna, a nubi
Danzavano le lucciole. Novelle
Èro istintive, che tra bui meandri
Accese le lor fiaccole d’amore,
Invitavano i cúpidi Leandri
Veleggienti pel mar dell’aura bruna
A possederle in seno
Al calice d’un fiore.
Fuor da le siepi dell’obliqua via
La lonicera i molli evaporava

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Balsami usciti con l’Avemmaria;
E gli usignuoli prorompeano in balde
Sfide di canto. E forse,
Giudice imparzïale,
Li udia da un ramo la contesa amica,
Per dividere poi col vincitore
Il nido nuzïale.
Percorrea l’universo un’armonia
Di profumi, di note e di splendore.
E parea che fugaci Le lucciolette mi dicesser: «ama;»
Che gli astri eterni mi dicesser: «pensa;»
Che gli usignoli mi dicesser: «canta.»
Ida, tale dovea
Esser l’ora che a te mi conducea.

II.

Quando discesi, tutto
Vôlto era in lutto. Un tenebroso velo
Rubava il cielo. Se pupilla alcuna
Di que’ viventi incogniti che stanno
Più innocenti di noi forse e più lieti
Nei consorti pianeti,
In quello istante riguardò la terra,
Dovea parerle tetra
Nave solinga con le vele nere
Vagabonda per l’etra.
Gravi cadeano e rare
Goccie di piova, somiglianti a tristi
Goccie di pianto che, passando a volo,
Lagrimassero spiriti non visti,

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Ne la valle, là giù, quelle notturne
Lampe, color dell’oro,
Che fugan le tenèbre
A la città del Toro,
Immagine tenean d’una funèbre
Adunanza di ceri
Raccolti a pompa di regal mortoro :
Mentre l’onda del Po, che si frangea
A le pile dei ponti,
Coll’ indefesso murmure parca
Salmeggiasse ai defonti.
Il castello straniero
Del Valentino mi porgea sembianza
D’imperial fantasima francese,
Quivi posato con crudel iattanza
Vïolando il confin del mio paese.
E non so come quelle
Lampe parea dicessero: «Borbone;»
Quell’ onde eterne mormorasser : «Roma;»
Da quel castello una beffarda voce :
«Nizza» gridasse. — Tale esser dovea,
Ida, fanciulla cui dal ciel concessa
Fu de lo ingegno la superba croce;
Quell’ ora che da te mi dividea.
          Torino, 25 giugno 1860.