Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito Livio/Libro primo/Capitolo XXIX

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Capitolo XXIX

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CAPITOLO XXIX

[Quale sia piú ingrato, o uno popolo o uno principe.]

Se bene la ingratitudine si usa qualche volta per avarizia, qualche volta per sospetto, si usa anche per altra cagione, come è per ignoranzia e per malignitá, che ha per radice la invidia; e considerando bene tutte queste origine sua, non credo ne sia piú alieno uno popolo che uno principe, anzi tutto el contrario. Parliamo, come dice lo scrittore, di quella ingratitudine che si usa contro a coloro che si sono maneggiati in faccende publiche, la quale è in dua modi: o non gli premiando come meritano, o offendendogli in cambio del remunerargli; questa è piú perniziosa, quella è piú frequente, e ne l’una e l’altra chi esaminerá diligentemente troverrá el popolo non errare manco che ’l principe, anzi a giudicio mio piú. E prima, quanto alla avarizia, la quale rarissime volte causa ingratitudine in altro che in remunerare, credo che se poco ci pecca el populo, el quale per instinto suo è raro e piccolo remuneratore, che anche non molto ci pecchi el principe, perché ha infinite occasione di remunerare gli uomini sanza toccare la borsa sua, e di cose ancora che non ritengono in sé ma sono soliti dare agli altri. E sanza dubio, se bene e’ príncipi lascino spesso per avarizia o per essere di natura ingrati, che è un’altra cagione che si può aggiugnere alle preallegate, di premiare chi ha bene servito, sono anche, a comparazione delle remunerazione de’ popoli, infiniti gli esempli de’ príncipi che hanno remunerato. Né mi si alleghi in questa parte e’ magistrati, che el popolo spesso dá successivamente a’ suoi cittadini quando si sono portati bene, perché lo fa piú per opinione o speranza di esserne bene servito, che per gratitudine de’ benefíci ricevuti.

Quanto al sospetto, credo che per lo ordinario molto piú leggermente e con minori fondamenti insospettisca uno populo [p. 36 modifica] che uno principe, perché usa manco diligenzia ed ha minore modo di riscontrare una calunnia falsa; e come comincia a insospettire, disonora sanza rispetto di chi ha sospetto, sanza usarci drento arte o circunspezione alcuna; dove uno principe che non sia al tutto imprudente va qualche volta simulando, e se si astiene di confidarsi di lui in quelle cose che gli potrebbono fare pericolo, non si guarda dalle [altre], avendo avvertenzia di non lo disperare. E certo infiniti sono gli esempli e delle republiche e de’ príncipi che per sospetto hanno usato ingratitudine; e se [Roma] errò in questo manco che le altre republiche, ci errò molto piú che non dice el Discorso, come di sotto si dirá; né gli esempli di Camillo e di Scipione sono escusabili per quella via. Confesso bene che in questo caso sono piú gagliardi e’ morsi de’ príncipi, perché piú facilmente assai vengono al coltello ed alle esecuzione forte, che non fa el popolo.

Quanto agli altri duoi capi della ignoranzia e della malignitá fondata in su la invidia, credo che sanza comparazione el popolo sia piú ingrato, perché e per essere distratti gli uomini a varie faccende, e per altre cagione, manco intende, manco distingue e manco cognosce, che non fa uno principe; e quanto alla invidia, cade piú facilmente negli uomini popolari, a’ quali ogni grandezza punto eminente o di nobilitá o di ricchezze o di virtú o di riputazione è ordinariamente molesta; né cosa alcuna dispiace loro che vedere altri cittadini che abbino piú qualitá di loro, e questi sempre desiderano abbassare. Non interviene cosí in uno principe, che non gli accade avere invidia a chi è inferiore di lui; e però dove la grandezza degli altri non sia tale che gli generi sospetto, non gli sará molesta né la batterá per questa malignitá.

Restano gli esempli allegati nel Discorso; perché quello che fece Muziano contro Antonio Primo non è esemplo di ingratitudine di uno principe verso el suddito, ma di dua che vivono sotto uno principe, de’ quali ciascuno cerca tirare a sé proprio la riputazione delle cose fatte; ed el non v’avere provisto Vespasiano non nacque da sospetto che avessi di Antonio [p. 37 modifica] Primo, ma dal dispiacergli la natura insolente di Antonio, e molto piú dal rispetto grande che aveva a Muziano. Non serve ancora al discorso nostro lo esemplo di Consalvo Ferrante, al quale el re Don Ferrando non si potette chiamare ingrato, avendolo remunerato in modo che di povero cavaliere aveva stati per trentamila scudi; e se gli tolse el governo del regno, ne fu causa che per molte ragione ebbe giusto sospetto di lui per le differenzie che nella successione del regno potevano nascere tra lui e gli eredi del re Filippo; ed inoltre è certo che Consalvo governava el regno con tanta autoritá, che al re non ne restava altro che el nome regio. In modo che non si chiama ingrato quello principe che provede che chi l’ha beneficato non lo possa offendere, e di godersi lui quello che ha acquistato per mezzo suo, faccendolo con quello modo che fece el re Don Ferrando; perché Consalvo visse di poi sempre in Spagna ricco ed onoratissimo tra gli altri grandi.

Quanto agli esempli della ingratitudine di Roma, se in quella se ne truova manco che nell’altre republiche, ne è causa che ebbe el governo piú ordinato che molte altre, benché anche quella non manca degli esempli suoi; come in Camillo, lo esilio del quale si può male scusare, come in Fabio Massimo che per avere preso el vero modo di difendere Roma da Annibale, fu con tanta ignominia fatto pari al maestro de’ cavalieri, come in Cicerone oppressore della coniurazione di Catilina, come in Metello, Publio Rutilio ed in molti altri uomini clari ed innocenti che furono in vari tempi condannati o mandati in esilio. E mi maraviglio che el Discorso scusi el caso di Scipione, volendo attribuire al sospetto quello che nacque meramente da invidia e da ignoranzia; perché nel tempo suo Roma si reggeva in modo che non aveva da temere di alcuno cittadino, né la grandezza di Scipione fu spaventosa, non essendo fondata in su sètte né séguito di uomini, ma in quella autoritá che gli dava nella cittá la virtú ed e’ meriti suoi. La quale non fu mai tale né che fussi padrone delle deliberazioni publiche, né che a modo suo si creassino e’ magistrati; in modo che mai non dispiacquono agli uomini savi [p. 38 modifica] e’ progressi suoi, e se Catone gli fu opposito, nacque o da inimicizia particulare, o da quella inclinazione che lui ebbe sempre contro alla nobilitá, non da utilitá publica; la santitá di chi, non scusa questa ingratitudine, perché e’ costumi di Catone furono santi, per essere pieno di quella antica severitá ed austeritá, ma non mancò giá di nota di ambizioso, di persecutore della nobilitá, di lingua immoderata e di acerbitá di natura, e lo mostrò in questa cosa, che morto ancora Scipione e cosí cessato ogni colore di potere allegare el sospetto, fu piú acerbo contro a Asiatico suo fratello.

Né voglio pretermettere che quello che dica el Discorso è molto alieno dalla veritá, che in una republica non ancora corrotta sia utile alla libertá che el popolo qualche volta offenda chi doverrebbe premiare, e sospetti di chi doverrebbe confidare; perché ogni ingratitudine, ogni ingiustizia è sempre perniziosa, e la republica debbe essere temperata in modo che sempre e’ buoni siano onorati e gli innocenti non spaventati. Confesso bene questo essere minore errore, lo astenersi qualche volta per sospetto di confidare de’ buoni, che non è el rimettersi in mano de’ cattivi; ma questa ragione non fa che el minore male sia bene, quando non s’ha necessitá di eleggere o l’uno o l’altro.