Cristoforo Colombo (Correnti)/IV
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IV.
Vedemmo di qual gente uscisse Colombo. Nutrito di forti tradizioni, iniziato fin dalla prima adolescenza agli studii cosmografici dell’Università Ticinese, crebbe in mezzo alle felici allucinazioni degli eruditi, che nei libri antichi cercavano profezie d’arcana sapienza;
crebbe in mezzo alle ansietà d’un commercio, il quale, come catena elettrica, faceva risentire all’Italia ogni scossa del mondo orientale. Il problema ch’ei sciolse era pure il problema che il Senato veneziano ed il genovese agitavano nelle loro gravi consulte; l’argomento a cui consacrò la sua vita era pur l’argomento che entrava in tutti i colloquii famigliari del popolo mercantile e marinaresco d’Italia; la via ch’ei trovò era pur quella via che le cognizioni scientifiche di que’ tempi, raffrontate e raccolte da una mente indagatrice, indicavano come più breve, più acconcia, o sopratutto più libera — libera come il mare. Colombo non è dunque un miracolo inesplicabile, nè uno spirito isolato senza patria, senza genesi. Ma ciò che si toglie alla puerile maraviglia, si cresce alla feconda ammirazione. Se è vero che molti fra gli antichi, come Aristotile, Possidonio e Seneca, aveano apparecchiati i primi germi dell’idea di Colombo; se è vero che quest’idea sfavillò nella sua pienezza alla mente di Paolo Toscanelli, è più vero ancora che Colombo solo si conquistò il diritto di dire, come disse nella sua lettera del 1493, «ottenni cosa che finquì le forze mortali non aveano potuto conseguire; perchè se di queste isole alcunchè fu detto o scritto da altri, tutto finì in ambagi e in congetture; nessuno disse d’averle vedute, onde quasi pareano favole..... e prova ne sia che quanti udivano il mio disegno, tutti il volgevano a scherno....... di modo che le scienze e le autorità poco mi giovarono presso gli uomini». — E veramente se la scienza e le autorità fossero bastate, Toscanelli avrebbe scoperta l’America; ma quando un’idea deve passare nei fatti, un’altra forza si richiede, un’altra virtù. Non ha molti anni, gli Italiani accoglievano riverenti Riccardo Cobden, illustre non per altro, come egli medesimo confessava argutamente, che per aver saputo, fortunato ed instancabile ripetitore, persuadere al suo popolo quelle verità che già la scienza da molto tempo avea trovate e insegnate. — Se Colombo non fosse grande per la sua idea, sarebbe grande per averla saputa ripetere e persuadere; e per essere la terza volta grande, gli avanzerebbe ancora il merito dell’esecuzione, che bastò ad immortalare Vasco di Gama.
In niun caso meglio che in questo si vide qual sia l’ufficio del genio, e quanta forza possa dare la volontà alla intelligenza. La grande idea traluce a molti; ma lontana, fuggevole, incompiuta. I disattenti passano oltre, gli impazienti appena guardano e tosto si sviano dietro più facili imprese: gli uomini speculativi osservano e notano come una curiosità; i troppo cauti, come avvenne alla corte di Portogallo, adombrano per la stessa semplicità e grandiosità d’un disegno, che par loro troppo bello per esser vero. Intanto i bisogni si fanno più acuti e più insistenti; e direbbesi che intere generazioni invochino il nuovo mondo. I libri sono, o pajono pieni di presagi; le stesse onde del mare, le stesse nebbie del cielo diventano eloquenti; la fata Morgana mostra ogni anno agli attoniti marinai apparenze di spiaggie e di monti lontani in fondo al mare: i popoli si ricordano delle favole e dei sogni dei padri loro: ma tutto ciò somiglia ad un guizzar di luce interrotto e sparpagliato per una vasta oscurità. Colombo solo fa centro dell’anima sua a questi fatti disgregati ed è il punto luminoso in cui le minute faville convergono e si svolgono in fiamma vivace. Infaticabile nella speranza, non valendosi del dubbio che per consolidare la sua fede, interroga, confronta, ravvicina, riconcentra le cognizioni italiane di tre secoli e le osservazioni che i marinai avevano sparsamente fatto dall’Islanda alla Guinea; e da ciò appunto che a tutti gli altri pareva confusione ed incertezza ci fa balzar fuori la ritrosa verità. Egli stesso ebbe coscienza di questa sua missione; nè io voglio lasciare di qui riportarvi la splendida testimonianza che ei rese al suo genio: «Fin dalla tenera età (dice egli nelle sue lettere) vivendo la vita del marinaio, desiderai di sapere i segreti di questo mondo, e per oltre quarant’anni cercai tutte quelle regioni che fino ad oggi si navigano, e conversai con gente savia, ecclesiastici e secolari, greci e latini, indiani e mori e di molte altre selle: e il Signore trovai molto propizio a’ miei desiderii; da lui ebbi spirito d’intelligenza; egli mi fece dell’arte navigatoria molto intendente; d’astronomia mi diè quello che bastava, e così di geometria e d’aritmetica; l’animo mi fe’ ingegnoso e le mani atte a disegnar la sfera, e in essa le città, i monti, i fiumi, le isole, i porti, tutti nel loro convenevole sito. In questo tempo io misi studio in vedere tutti i libri di cosmografia, di storia, di filosofia e d’altre scienze; dimodochè nostro Signore m’aprì visibilmente l’intelletto, acciò ch’io navigassi di qua alle Indie; e m’ispirò forza di volontà per condurne a fine l’esecuzione».
Vissuto in un secolo mercantile, poetico, devolo e cavalleresco, Colombo riflette armonicamente questi quattro caratteri. Partiva per trovar l’oro di Ofir e le isole delle Spezierie, per accumular tesori a liberazione del Santo Sepolcro, per recare la legge e l’alleanza dei cristiani ai popolosi regni del gran Kan, per fondare un’immortale dinastia di vicerè e di ammiragli devoli alla Casa della regina Isabella, questa prediletta figlia di Dio, com’ei teneramente la chiamava. Un’anima grande non si rifuta ad alcuna delle idee del suo tempo, non si rivolta contro di esse: ma le trasforma, le purifica, le ingrandisce. In mezzo all’alterna vicenda dell’anarchia e della servitù, che non gli lasciano la patria onorata e sicura, innanzi alle minaccie dell’islamismo rinvigorito per l’innesto della tartara barbarie, e mentre le fiorenti colonie di Genova cadevano sotto il ferro dei Giannizzeri, o patteggiavano servilmente col Sultano, mentre sovrastavano all’Italia le armi turchesche già romoreggianti nel Friuli e nelle Calabrie, mentre, intercise le consuete vie ai commerci, rincarivano le spezie e gli aromi, e i metalli preziosi incomportabilmente scarseggiavano, Colombo sembra dimenticare i terrori e i dolori della sua patria, sembra tutto rinchiudersi in una speculazione esclusiva: ma il suo pensiero è pur sempre cristiano ed italiano: respingere i barbari, liberar la via delle Indie, trovare alleati potenti contro i Musulmani; quest’è il suo voto, voto ch’egli espresse con religiosa solennità. Udite, o signori, le sue proprie parole, estremo eco del medio evo, trasformazione di nobili pensieri in un nobile cuore: «All’epoca in cui intrapresi di partire per la scoperta delle Indie, dice Colombo nel suo testamento, aveva intenzione di supplicare il Re e la Regina perchè tutto il denaro che si trarrebbe dalle Indie fosse consacrato a Gerusalemme: e di questo poscia li richiesi: se il fanno, meglio; altrimenti ed in ogni caso, mio figlio Diego o qualunque fosse suo erede dovrà raccogliere tutto il danaro di mia ragione per accompagnare il Re se andasse al conquisto di Gerusalemme; o almeno per tentare egli stesso l’impresa con tutte le forze che gli riuscisse di mettere insieme».
Sarebbe puerile tessere, a modo di panegirico, una difesa di Cristoforo Colombo: nè io mi proposi di lodarlo, ma sibbene cercai di comprenderlo. Perciò non voglio negare ch’ei patteggiasse i titoli di Don, di Vicerè e di Almirante, e li volesse ereditarii, e ansiosamente divisasse come perpetuare questi onori nella sua famiglia; nè voglio negare ch’ei razzolasse avidamente l’oro e le altre preziosità; nè che vendesse schiavi molti selvaggi. Ma dirò altresì che la stessa esorbitanza della sua domanda parve alla Corte spagnuola segno di alto animo, e prova di fermissima convinzione; dirò ch’egli, reduce dal suo ultimo viaggio, vecchio, senza asilo, senza stipendio e indarno supplicante per sè, instava perchè l’erario soddisfacesse le paghe ai suoi marinai; dirò ch’egli non vide mai l’oro cogli occhi dell’avarizia: «L’oro dic’egli, è cosa eccellente; di lui si formano i tesori; esso ci fa compiere le buone opere in questo mondo, ed accorcia alle anime il cammino del paradiso». Ma non l’acciecò mai quella idolatria dei metalli preziosi, di cui fu vittima la Spagna, e con istinto veramente italiano raccomandava ai suoi padroni, che più delle miniere curassero i campi fecondi di Haiti. Agli indigeni poi fu umanissimo, anzi amorevole: e pietoso della loro ignoranza comandò ai marinai che contrattando con loro avessero riguardo all’equità: e mentre in Europa si disputava se a quelle creature si avessero ad accomunare i diritti della umanità, ei diceva: «No; non sono inerti, nè rozzi; ma anzi d’ingegno perspicassimo, poichè d’ogni cosa cercano darsi una qualche spiegazione». Vendette, è vero, Colombo, pressato dal Fisco spagnuolo, o da inique circostanze, i prigionieri Caraibi, generazione d’uomini indomabili e sanguinarii; ma agli altri, che trovò pacifici ed ospitali, sempre ebbe rispetto, e, quand’altro non potea, compassione: e soleva ripetere che essi erano la vera ricchezza delle terre da lui scoperte: e moriva dolente e spaventato e pieno quasi di rimorsi per lo infierire degli immanissimi Spagnuoli contro di loro, e scriveva con paterne viscere nel suo testamento, nessun dispendio doversi giudicare eccessivo per salvare le anime, ed illuminare i cuori dei selvaggi.
Queste cose io ricordai che potranno adombrare di lontano il carattere di Colombo. Poco mi resta a dire del suo ingegno, perchè non crediate che fosse uomo; di poche lettere, come invidiosamente scrisse un suo contemporaneo genovese. Di lui ci rimase un’operetta intorno al modo di usare la tavola navigatoria, e sappiamo ch’egli avea raccolto una ragguardevole libreria: e una lettera di un ambasciator veneto ci rivela che nel 1501 non era in tutta la città di Granada chi sapesse disegnare una carta geografica se non Colombo. Primo egli distinse col raffronto degli autori e delle carte la Thule di Plinio, di Tacito e di Solino (Isole Feroè) dall’Islanda, a cui i posteriori geografi avevano applicato lo stesso nome: primo egli scoprì la deviazione dell’ago magnetico, e cercò di rendersene ragione, e sospettò che in quel fenomeno avesse parte la temperatura, ciò che è confermato dalle recenti dottrine: primo egli spiegò la forma parallelepipeda delle grandi Antille colla persistente violenza delle correnti equatoriali: ipotesi a’ nostri dì rinnovata dall’Humboldt; e, infine, se crediamo all’Oviedo, primo egli introdusse e perfezionò l’uso dell’astrolabio di mare.
Nelle sue idee politiche è un misto di lealtà popolana e di esaltazione cavalleresca, che si rivela nel suo poetico affetto per la regina Isabella. Io cercai studiosamente nella sua vita di trovare qualche traccia di sentimenti repubblicani, che mi parevano non poter mancare in un uomo nato in mezzo alla genovese democrazia. Ma o che la disciplina marinaresca l’abbia educato a modi stretti ed assoluti o che gli uomini straordinarii apprezzino sovra ogni cosa il potere rapido e forte, a me non venne fatto trovare, scorrendo tutte le sue lettere, altro indizio che ricordasse il reggimento popolare fuorchè quell’infausto proverbio chi serve el comun non serve nessun, e in queste parole dette pensatamente da un tal uomo, mi parve di leggere la sentenza di morte delle repubbliche italiane.
Nè qui posso lasciar di riflettere che le stesse qualità, per cui fu grandissimo Colombo, assai volte gli nuocquero: il che dico volentieri a persuadere che non v’ha uomo, per quanto miracoloso, il quale non porti seco nella sua stessa forza un germe di debolezza, nelle sue virtù medesime un pericolo ed un principio d’illusione. Quella volontà forte, imperatoria, inflessibile, che vittoriosa ad ogni ostacolo guidò Colombo nel suo primo viaggio di scoperta, lo cacciò poscia quasi sempre contro insormontabili ostacoli. Due volte spinto dal vento propizio verso il Messico, e invitato dalla fortuna a prevenire Cortez, ed a salvare forse dall’estremo eccidio la civiltà messicana, e la Spagna da un’incancellabile infamia, ei non volle dichinare una linea della via che s’era predesignata, e perde l’occasione. Altra volta cercando uno stretto lunghesso la terra ferma, si ostinò d’incontro spiaggia pericolose, lottò 90 giorni col mare, soffrì inuditi travagli, per 10 mesi durando sempre nel fermato proposito, da cui non lo stornarono gli uragani fino allora non esperimentati, e la novità dei luoghi e la ferocia degli abitanti e l’inutilità dei suoi sforzi; nè mai diè volta finchè quasi non gli si disfecero le navi rose dalle brume e scommesse da tante procelle. Fu allora che trattosi a stento sul lido di Giammaica, fra i selvaggi insospettiti, e i suoi marinai tumultuanti e ribelli, uscì in quel sublime lamento, che in vari modi espresso, suona sulla bocca di tutti i genii quasi a protestare contro la disarmonia degli umani destini. «Le terre, dic’egli nella sua lettera rarissima, che qui alle Altezze Vostre appartengono (scriveva al Re ed alla Regina di Spagna) sono più vaste e ricche di quelle di tutti gli altri cristiani insieme; ed io non ho ormai più capello sulla mia testa che non sia incanutito, ed ho speso tutto quanto restavami, e m’è stata tolta ogni cosa e venduta fin la casacca. Credete, io sono infelicissimo; fino adesso piansi sugli altri, ed ora il cielo siami misericordioso, e la terra pianga su di me..... isolato nella mia pena, infermo, aspettando ciascun giorno la morte, circondato da un milione di selvaggi crudeli e nemici, lontano dai sacramenti della Santa Chiesa; se la mia anima si separerà in questo luogo dal corpo, se ne andrà senza suffragi in perdizione».
Qual meraviglia se in mezzo a questi ineffabili dolori lo spirito libero ed ardente sorvola alle pressure del tempo e piglia autorità e forma di una parola superiore e divina. E in verità Colombo fu visitato dalle allucinazioni, stava per dire fu consolato da quelle esaltazioni impersonali dell’anima che, sfuggita alle miserie della individualità, si raddoppia e si divinizza. Abbandonato dagli uomini e bersagliato dall’iniqua fortuna ei sente nel cuore una voce pietosa e severa che lo rimbrotta lento servo di Dio, gli ricorda la gloria acquistata, le chiavi dell’Oceano a lui donate, le terre ricchissime concessegli da ripartire, e segue domandando: «O stolto e tardo a credere, chi ti ha afflitto? Dio o il mondo? Quel che ora l’avviene è la ricompensa delle fatiche sostenute e servendo altri padroni; ma non temere; sia saldo! tutte queste tribolazioni sono scritte sul marmo e non ti avvengono senza ragioni».
Una mente scossa da gioie e dolori sì grandi non potea certo durare in una volgare tranquillità; però non è a meravigliarsi se Colombo traviò dietro idee poeticamente singolari, e se dopo avere con sì lucida insistenza dimostrata la sfericità della terra, dopo avere annunciata una nuova êra alla civiltà cristiana, nei suoi ultimi anni, quando niuno più dubitava delle verità che egli stesso aveva tanto contribuito a dimostrare, quando già cominciavano i nuovi tempi da lui presentiti, egli compose il singolarissimo libro delle profezie, nel quale sostenne non essere la terra di forma precisamente sferica, ma allungarsi invece sotto la zona equatoriale fino a pigliar la forma di una pera, ed ivi su quel rialzo sorgere il paradiso terrestre: avvicinarsi già la fine dei tempi, e non restare alla storia più che un ultimo periodo di 165 anni. Chi cercasse i motivi di queste strane divagazioni, non li troverebbe certo affatto indegni di Colombo. Per tutto il medio evo arabi e cristiani avevano popolarmente creduto che i grandi fiumi, di cui s’ignorava l’origine, come il Nilo ed il Gange, avessero una arcana sorgente nel Paradiso Terrestre; e che di là per reconditi meati defluissero sulla terra. Edrisi, celebre geografo arabo, pigliando un dimezzo tra la tradizione e la scienza, ammise la rotondità della terra, non perfetta però e con qualche declivio per ispiegare il decorso delle grandi masse acquee. Dante, non so se per libertà di fantasia, o se per qualche preconcezione scientifica, aveva pur sovrapposto al globo terraqueo quella amplissima piramide australe, dove digradasi il purgatorio, e sulla cui vetta ride il paradiso terrestre. Nelle carte di Tolomeo rimaneggiate dallo spirito ecclesiastico, e che io studiai nell’edizione di Roma del 1492, ove trovansi nell’indice raccolte tutte le tradizioni e le leggende della geografia teologica, lessi presso Sarapa, ultimo luogo segnato sull’emisfero di Tolomeo, a 180 gradi di latitudine orientale, e precisamente sotto l’equatore, queste singolari parole: Qui comincia l’orizzonte del Paradiso Terrestre; e S. Tommaso aveva detto che il Paradiso Terrestre «Est locus corporeus in Oriente. . . . Et est conveniens habitationi humanæ quia habet aerem temperatum et plantas semper floridas». Ora Cristoforo Colombo che andava cercando le regioni equinoziali, e credeva trovarle brulle ed arse come aveva vedute le costiere africane, incontrò invece le spiagge di Paria irrigate dall’Orenoco, rivestite da una splendida vegetazione, sorrise da un cielo temperato; e perciò credette d’aver toccata la sponda opposta di quella misteriosa regione paradisiaca che le tradizioni clericali indicavano vicina all’India.
Non cerco i motivi teologici e le autorità, che suggerirono a Colombo l’idea della prossima fine del mondo, idea che ad ogni tratto allora riproducevasi anche nelle menti volgari. Ma vorrei toccare i motivi più profondi che forse a ciò lo sedussero. Una delle grandi tentazioni di chi opera cose straordinarie è quella di credere ad una arcana predestinazione, ad un destino o amoroso o cieco ma sempre indeclinabile. I grandi uomini, avvezzi ad esercitare le menti acute sulla catena delle cause e degli effetti, inclinano per natura al fatalismo: e la storia contemporanea ce ne offre un esempio singolare. Colombo credette che in lui si fossero compiute le antiche profezie, che annunciano vicina la fine del mondo, allora appunto che in tutti i popoli sia penetrata la luce del cristianesimo. Egli proclamò finita l’opera che appena era principiata e credendosi giunto in un paese miracoloso presso l’albero della scienza del bene e del male in mezzo a tante cose nuove, straordinarie, imprevedute; sentì che era imminente una profonda mutazione nelle idee e nei fatti; sentì che incominciava una nuova era nella vita dell’umanità. Nota argutamente l’Humboldt che l’epoca da Colombo indicata per la fine del mondo cade fra gli anni che corsero dalla morte di Cartesio a quella di Pascal. E non si compiva forse allora, ma di tutt’altro modo, la profezia di Colombo? Non moriva forse allora nelle forti mani di Richelieu e di Luigi XIV il medioevo? Non si risolvevano allora per sempre le dottrine scolastiche e sotto l' unificazione delle grandi monarchie non scomparivano allora quelle indipendenze locali che per lunghi secoli avevano fatta sì discorde, e sì tenace la vita dei popoli? Non era allora la filosofia che con Cartesio diveniva prepotente, dogmatica? Non era allora la tradizione, che con Pascal difendeva la fede insegnando il dubbio?
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