Del veltro allegorico di Dante/LVI.

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LVI.

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LV. LVII.

[p. 106 modifica]LVI. La morte di Uguccione della Faggiola non fu la minore delle sciagure di Dante; il quale sul cominciare del 1320 lasciò Udine per avvicinarsi a Firenze. Ma dovendo ripassar per Verona, credesi che le antiche abitudini lo avessero vinto, e condotto a disputare pubblicamente in quella cittá intorno alla natura dell’acqua e del fuoco (gennaio 18). La quale disputazione viene da non pochi rivocata in dubbio: né io per essa, che leggesi col nome di «quistione fiorita», starò punto mallevadore. Mi è oscuro del pari se lo Scaligero fosse in Verona, o se quivi Dante Io rivide allorché tornava dal Friuli. Dalla Marca trivigiana il poeta passò in Ravenna, ove vivea tuttora Giovanna della Faggiola e dimoravano le altre sue figlie Catalina ed Agnesina, sorelle di Chiara contessa di Carpigna. Erano giá venuti meno in otto anni dal 1310 al 1318 Guido III da Polenta padre di Francesca e i suoi figli Bernardino ed Ostasio, dei quali si è favellato. Un terzo si chiamò Bannino e fu padre di Guido IV: è ignoto se stilla loro patria regnarono questi due Polentani. Ma ottennero la signoria di [p. 107 modifica] Ravenna i figli di Ostasio, Guido V Novello e Rinaldo arciprete ravennate: ai figli di Bernardino toccò il dominio della vicina cittá di Cervia.

Piú prossima è a Ravenna l’antica e grossa terra di Bagnacavallo, che da remotissimi tempi diè il nome ai conti Malvicini o Malabocca, dei quali erano ultimi nel principio del secolo decimoquarto Ludovico e Caterina: quegli mori senza figliuoli, ebbe questa in marito Guido V signor di Ravenna. L’Alighieri, mosso da non so quale sdegno, avea lodato Bagnacavallo del non piú produrre alfin di tai conti (Purg. XIV, 115). Assai meglio conosciuto che questo motto era da Guido V il canto intorno a Francesca di Rimini: e bastava solo per destare in lui desiderio vivissimo del poeta. Non ha guari per dubbio gentile alcuno temè, non fosse stata scortesia di Dante il rammentare ad un padre il caso della figliuola, Francesca. Ma quando a Guido Novello (nipote, non padre di Francesca) piacque di accogliere PAlighieri, giá da gran tempo era venuto in fama V Inferno. E al ravennate non poteva increscere che altri avesse reso immortale sua zia, della quale certamente nel volgo non si taceva. Cento anni dopo la morte di lei, Andrea Malatesta uscito dalla medesima famiglia di Giovanni lo zoppo, e signor di Cesena e di Bertinoro, sposò Pingarda degli Alidosi: l’ottavo anno delle loro nozze non era finito, ed egli spense col veleno la fiamma di sua moglie per Alberigo Casino, condannando costui nella torre di Bertinoro al supplizio stesso del conte Ugolino. Bassa ed inonorata giacerá questa coppia, cui non toccò in sorte un poeta: piú colpevole l’altra fu sollevata dall’Alighieri ad essere in ogni tempo spontanea cagione di rimembranze dolcissime.

Non così Dante ricovrava in Ravenna (aprile), Castruccio Castracani degli Antelminelli rompea la guerra, che condusse lui al sommo della fortuna ed i guelfi alle massime paure del!’esterminio. Favoreggiò i disegni del signore di Lucca la morte del conte Gaddo della Gherardesca (maggio 1), cui succedé in Pisa il paterno zio di esso, Ranieri di Donoratico. Fiero ed indomabile animo distinguea Ranieri tra i piú feroci [p. 108 modifica] ghibellini: era stato marito di Beatrice figliuola del re Manfredi, ed avea tolto a modello Uguccione della Faggiola; deplorati sempre gli avvenimenti che sospinsero costui fuori di Pisa. Ranieri Gherardesco rimise in onore gli amici del Faggiolano; ei fece trucidare in appresso Coscetto del Colle, primo autore della mutazione di Pisa. E tosto si strinse in amicizia con Castruccio; la di cui figlia Sancia prese a marito uno dei Gherardeschi.

Ratto Castruccio cavalcò in soccorso dei ghibellini che assediavano Genova (agosto): ma poiché i fiorentini gli venivano a tergo, ricalcando i suoi passi, ei pose il campo nelle pianure di Val di Nievole illustrate giá dal coraggio di lui e di Ranieri della Gherardesca. Grave presagio turbò allora i fiorentini, mostrato loro in Castruccio il levarsi di pressoché un nuovo Uguccione. La perdita del quale Uguccione sembrò quasi fermare il corso delle vittorie di Cane Scaligero, che i padovani afflissero in quei giorni con memorabile rotta sotto le mura della loro cittá. Nondimeno leggieri fatti furono questi a paragone degli altri, che ogni di rendeano piú famoso l’assedio di Genova. In essa, e nelle montagne che la circondano, parevano principalmente ristretti la causa e gli estremi sforzi dei guelfi e dei ghibellini: Matteo Visconti era divenuto il primo e il maggior fra costoro, né piú facevasi menzione in quell’anno dello sconfitto Scaligero, che ancor godea del nome di capo. E però contro Matteo Visconti si dichiaravano le ire di Giovanni XXII e di Roberto re, il quale dimorava tuttavia in Avignone; studiosissimo d’impedire che la corte pontificia riconoscesse alcuno dei due rivali all’imperio, Ludovico il bavaro e Federigo d’Austria. Il Cardinal del Poggetto, giunto in Italia (1321), dava principio alla sua legazione formando atti e processi per pubblicar Matteo eretico e negromante; bandivagli quindi la croce addosso, e facea venire ai danni di lui Pagano della Torre patriarca di Aquileia con grosso nerbo di genti. Simili processi ordiva il legato contro i Buonaccolsi e Can della Scala ed altri ghibellini; che invano protestavano tutti, sé essere ortodossi né volersi punto allontanare da alcuno dei dogmi della fede cattolica.