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Della tirannide (Alfieri, 1927)/Libro primo/Capitolo XVII

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Capitolo XVII

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Capitolo Decimosettimo

Se il tiranno possa amare i suoi sudditi e come.

Nello stesso modo con cui si è di sopra dimostrato che i sudditi non possono amare il tiranno perché, essendo egli troppo smisuratamente maggiore di loro, non corre proporzione nessuna fra il bene ed il male che ne possono essi ricevere; nel modo stesso mi sará facile il dimostrare che il tiranno non può amare i suoi sudditi; perché, essendo essi tanto smisuratamente minori di lui, non ne può egli ricevere alcuna specie di bene spontaneo, riputandosi egli in dritto di prendere qualunque cosa essi volessero dargli. E si noti, cosí alla sfuggita, che lo amare, o sia egli di amicizia o d’amore o di benignitá o di gratitudine o d’altro, lo amare si è uno degli umani affetti che piú di tutti richiede, se non perfettissima uguaglianza, rapprossimazione almeno e comunanza, e reciprocitá fra gli individui. Ammessa questa definizione dell’amare umano, ciascuno rimane giudice se niuna di tutte queste cose sussistere possa infra il tiranno e i suoi schiavi; cioè fra la parte sforzante e la parte sforzata.

Corre nondimeno una gran differenza, in questa reciproca maniera di non-amarsi, infra il tiranno ed i sudditi. Questi, come tutti (qual piú qual meno, quale direttamente quale indirettamente, quale in un tempo e quale nell’altro) come offesi [p. 82 modifica] tutti e costretti dal tiranno, tutti lo abborriscono per lo piú, e cosí dev’essere; ma il tiranno, come un ente non offendibile dall’universale, fuorché per manifesta ribellione contro di lui, il tiranno non abborrisce se non se quei pochissimi che egli vede o suppone essere nel loro cuore insofferenti del giogo; che se costoro mai si attentassero di mostrarlo, la vendetta del tiranno immediatamente verrebbe ad estinguerne l’odio. Non odia dunque il tiranno i suoi sudditi, perché in veruna maniera essi non l’offendono; e qualora si ritrova in trono per caso un qualche tiranno d’indole mite ed umana, egli si può puranche usurpare la fama di amarli; né in tal caso, da altro una tal fama proviene, se non dall’essere la natura di quel principe per se stessa men rea di quel che lo sia per se stessa l’autoritá e la possibilitá impunita del nuocere che è posta in lui. Ma io, sbadatamente, quasi ometteva una validissima ragione per cui il tiranno dée anch’egli (e non poco), se non abborrire, disprezzare almeno quella parte de’ suoi sudditi che egli vede abitualmente e conosce, ed è questa: che quella parte di essi che gli si fa innanzi, e che cerca di avere alcuna comunicazione col tiranno, ella è certamente la piú rea di tutte; ed egli, dopo una certa esperienza di regno, ne viene manifestamente convinto. Quanto alla parte ch’egli non conosce né vede, e che in veruna maniera non lo offende, io mi fo a credere che il tiranno dotato di umana indole la possa benissimo amare: ma questo indefinibile amore di colui che può giovare e nuocere sommamente, per quelli che non possono a lui giovare né nuocere, non si può assomigliare ad alcun altro amore che a quello con cui gli uomini amano i loro cani e cavalli; cioè, in proporzione della loro docilitá, ubbidienza e perfetta servitú. Ma certamente assai minor differenza soglion porre i padroni fra essi e i loro cani e cavalli, di quella che ponga il tiranno, ancorché moderato, infra se stesso e i suoi sudditi. Codesto suo amore per essi non sará dunque altro che un oltraggio di piú da lui fatto alla trista specie degli uomini.