Demetrio Pianelli/Parte seconda/III

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III.


Demetrio, appena il vecchio matto se ne fu andato, si volse tutto mortificato verso il cavalier Balzalotti e, con voce tremante un po’ per dispetto e un po’ per soggezione, balbettò qualche scusa.

— È troppo buono, Pianelli, glielo dico sempre: e sa che cosa significa a Milano essere troppo buono?

Così prese a dire il cavalier Balzalotti, che a quella scena s’era divertito mezzo mondo e che non era troppo in vena di lavorare quella mattina.

— È troppo ingenuo lei, troppo poco pratico del mondo. Non tocca a me dare dei pareri, perchè il proverbio dice: metà pareri e metà denari; ma se mi avesse dimandato in principio, gli avrei detto: Se ne lavi le mani. Che diavolo! non conosceva anche prima come stavano le cose?

— Sa, ci si trova implicati.... Una povera famiglia.... [p. 146 modifica]

— Segno di buon cuore, ma il buon cuore in certi casi non basta. Ci vuole il bastone in certi casi. A me non me ne viene in tasca niente, figuriamoci, ma mi rincresce vedere un galantuomo nell’acqua fino alla gola. Lei si mangerà il fegato, butterà via quei pochi risparmi messi in disparte per la febbre e infine si farà odiare e maledire. È il solito, creda a me.

— Comincio bene ad accorgermi — mormorò Demetrio.

— Altro che! La gente riceve più volentieri una bastonata che un beneficio, e poi che gente! È un pezzo che conosco i coniugi Pianelli e saprei dire cento storie di lord Cosmetico e della bella pigotta.

— Di, di?

— Come? non sa che mezza Milano li chiama così? bisogna proprio cader da un abbaino, caro Pianelli, per pigliare a occhi chiusi certe matasse da dipanare. Non dico che suo fratello non fosse un giovinotto allegro e simpatico: tutt’altro. Non per nulla uno si fa chiamare lord Cosmetico. Non dico nemmeno che sua cognata non sia una bella donna; posso anche giurare che poche contesse hanno due spalle e due braccia più ben fatte. Suo fratello, da buon farfallone, si abbruciò le ali a questa candela. Lei lo sa meglio di me. Il lusso non era mai abbastanza: casa [p. 147 modifica]Litta addirittura. E quando un impiegato non ha che il suo magro ventisette del mese, creda a me, cioè, lo sa benissimo che è, dirò così, come la botte delle Danaidi. Feste, teatri, scampagnate, perle, vestito di raso, diamanti. Ohè! Ci si rovinano i principi, specialmente quando si vuole star sull’orgoglio e non far parlare la gente. Con tutto ciò la gente non ci crede lo stesso, e quando non trova la somma in una maniera, rifà i conti in un’altra, in partita doppia d’entrata ed uscita....

Il cavaliere, che durante questa predichetta aveva continuato a spazzolare colla manica la sua bella calotta di velluto, giunto al malizioso epilogo, socchiuse gli occhi piccini e mise in vista i magnifici avorî della sua dentiera Winderling.

Demetrio, che udiva per la prima volta e da una persona cotanto autorevole, amico del suo bene, ciò che formava probabilmente da cinque o sei anni la cronaca del Carrobio, rimase incantato, a bocca aperta, come il villano innanzi a quei quadri detti dissolventi, che sfumano l’uno nell’altro.

— Il buon cuore è una bella cosa, ma alle volte il cuore è buono per i merli. È una settimana che io vedo venire innanzi e indietro gente d’ogni colore e d’ogni faccia. Che cosa ha speso a quest’ora? e quanto gli [p. 148 modifica]resta ancora da pagare? e quando avrà pagato tutti i debiti vecchi, chi pagherà i nuovi? perchè, non si lusinghi che sua cognata possa rassegnarsi a una vita di sacrifizio e di lavoro. Non so nemmeno se sappia cucire insieme un paio di calze.... Dietro di lei c’è questo vecchio gufo, come credo aver capito, che è capace di minacciare un processo, lo spoglieranno della camicia, diranno che ha tradita la vedova e gli orfani derelitti e in fine si farà canzonare dalla gente.

Demetrio, come imparasse per la prima volta i principî d’una scienza nuova e meravigliosa, stava a sentire, con tanto d’occhi aperti, come impiombato coi piedi sul pavimento.

— Canzonare è una parola, per non dir peggio. Perchè, — qui il cavaliere abbassò un tantino la voce e fece un passetto verso il subalterno, — perchè, se non si offende, mi capisce, la gente è cattiva, si sa, e potrebbe supporre che lei pensa alle spese chi sa con quali intenzioni, o che — che so io? — che lei ci abbia quasi il suo interesse....

Le orecchie di Demetrio, a queste parole, diventarono rosse come il fuoco; e la fiamma, che scese tra pelle e pelle fin sulle guance giallognole, andò a spegnersi sulla linea del naso. Un piccolo tremito invase tutta la persona, e le mani si apersero nell’aria quasi automaticamente, senza che il povero [p. 149 modifica]ignorante sapesse lì per lì rispondere una parola, nemmeno un grazie, per degli avvertimenti che lo arrestavano sull’orlo di un abisso.

Tutto aveva pensato, tranne a questo caso, che la gente potesse supporre quello che forse supponeva già e che era nei suoi diritti di supporre.

Sicuro che era così! il lusso, la tranquillità, l’ironia con cui l’aveva accolto sua cognata dovevano avergli aperto gli occhi, se egli non fosse stato una vecchia talpa cieca, ignorante di tutte le cabale del mondo, un bestione, sciocco e paziente come un cammello, e come un cammello sempre rassegnato di portare la casa degli altri sulla gobba.

Tanto per giustificarsi un poco davanti al suo superiore e benefattore, dopo aver masticato un pezzo le parole, provò a dire:

— E quei poveri figliuoli?

— Ecco, — soggiunse il morbido consigliere — ai figliuoli forse è il caso di pensarci un poco; ma è inutile ingannare con false carità dei poveretti, a cui non si ha da poter lasciare che gli occhi per piangere. I figliuoletti vorrei metterli in qualche orfanotrofio, in qualche istituto di beneficenza. Non è questo che manca a Milano, e io stesso per quanto posso esser utile, se crede.... conosco il presidente degli orfanotrofi e luoghi pii annessi. [p. 150 modifica]

— Lei, lei è troppo.... — balbettò Demetrio, agitando la mano stesa nell’aria.

— In quanto poi alla bella vedovina — scusi, Pianelli, se mi permetto di parlarle col cuore in mano, da padre — in quanto a lei, vorrei lavarmene a tempo le mani, in due acque, se non basta una, e lasciarla, dirò così, al suo angelo custode...., le parlo da amico, da padre, e, se crede, anche da suo superiore....

Gli occhi di Demetrio si trovarono pieni di lagrime prima ancora ch’egli sapesse perchè piangesse. La voce paterna del suo capo, la ragionevolezza de’ suoi consigli, lo stato d’irritazione in cui l’aveva lasciato quell’altro vecchio pazzo e, in mezzo a tutto ciò, più forte di tutto ciò, un improvviso sentimento della sua materiale e rustica ignoranza, finirono coll’avvilirlo.

In che modo aveva sempre vissuto fino adesso, per non accorgersi di ciò che era scritto sulle cantonate di Milano?

Un sentimento di pietosa confidenza lo condusse a fare innanzi al cavaliere tutta la confessione de’ suoi imbarazzi. Tenne gelosamente nascosto il motivo che aveva spinto Cesarino a finirla colla vita; ma fece capire ch’egli non poteva rifiutarsi di pagare qualche grosso debito d’onore, per salvare, se non altro, il nome di quei poveri figliuoli, che [p. 151 modifica]infine si chiamavano Pianelli.... Avrebbe fatto tesoro dei preziosi consigli: e, se gli permetteva di approfittare qualche volta della generosa protezione, sarebbe venuto forse ad importunarlo....

— Ma venga quando vuole: se posso levare una spina da un piede, non sto a farmi pregare.... per bacco!


*


Beatrice, costretta di nuovo a provvedere a tante incombenze, alle quali prima soleva pensare suo marito o la Cherubina, si sentiva imbarazzata nella sua incapacità e nella sua gran vestaglia a nastri azzurri. Non sapeva dove mettere le mani, nè come muoverle, e, dato fondo alle ultime venti lire rimaste, per disordine, in un cassettino dei pettini, si trovò improvvisamente senza un soldo.

Il sor Isidoro, passando da Milano, andò a trovarla; consumò i resti del pranzo del giorno prima, vuotò l’ultima bottiglia di barolo rimasta in dispensa, e se ne andò dopo aver fatto giurare a sua figlia che non avrebbe più ricevuto in casa quel mascalzone che rispondeva al nome di Demetrio, un asino calzato e ritto in piedi, che aveva osato dire che un Isidoro Chiesa era un gran buon uomo. [p. 152 modifica]

Demetrio non c’era bisogno di cacciarlo via. Ci pensò lui a non lasciarsi vedere. Dopo il suo colloquio con Beatrice, dopo la scenata col Chiesa, dopo la predica amorosa del capo ufficio, bisognava essere un gran babbuino per lasciarsi tirare ancora in Carrobio.

Dopo tre o quattro giorni i ragazzi, non abituati a far senza di certe formalità, cominciarono a gridare, a picchiare, a piangere.

Arabella, smorta come un lino, taceva, si muoveva per la casa, comprimeva un certo che sulla bocca dello stomaco, e, di tanto in tanto, andava sul balcone a dare un’occhiata per il lungo di tutta via Torino, se mai vedesse, in mezzo al viavai immenso di tanta gente e di tante carrozze, un uomo che somigliasse un poco allo zio Demetrio.

Beatrice fece chiamare Ferruccio un paio di volte, un bel ragazzo svelto, che faceva il tipografo nella stamperia dell’Osservatore Cattolico. Arabella gli aveva promesso una grammatica francese e il bel ricciolone correva come una freccia, quando sentiva la sua voce in cima alle scale.

Ma dal momento che non c’erano più quattrini in mano, il fornaio, il lattivendolo, il pizzicagnolo non davano più nulla ai signori Pianelli.

Demetrio aveva dato delle belle parole a tutti; ma i signori bottegai non ne volevano [p. 153 modifica]più di belle parole. Ferruccio tornò con la cesta vuota.

Beatrice si fece restituire da Arabella un piccolo cinque franchi d’oro, che il babbo le aveva regalato per il suo compleanno: e, bene o male, si tirò innanzi un altro paio di giorni. Ma la povera donna si sentì abbandonata, e le venne da piangere.

Uscì, vestita come potè, con l’idea di andare a parlare al Direttore delle Poste, e lasciò in casa Arabella sola a custodire i ragazzi.

Il commendatore era andato a Roma. Sulla scala s’incontrò col signor Martini, che finse di non conoscerla.

Timida ed imbarazzata, non osò cercare del Buffoletti o di qualche altro amico di suo marito. Passò invece dalla via del Mangano, dove abitava l’Elisa sarta, e salì fino al terzo piano per ordinarle i vestiti di lutto. Poi, un pensiero le suggerì di andare in cerca della Pardi e di chiederle un prestito di qualche centinaio di lire; ma l’Elisa sarta aveva riferite le ultime parole dette dalla Pardina sul conto della sora Pianelli, e tra le due vecchie amiche di Cernobbio c’era oggi dell’aria cattiva.

Passò il giovedì e tutto il venerdì senza che venisse anima viva.

Pioveva. L’aria e le case avevano di lassù [p. 154 modifica]un aspetto grigio e triste sotto l’acquerugiola silenziosa, che stillava senza forza sui muri, impregnando il cielo di vapori stagnanti.

Arabella contava le ore sui battiti del suo cuore e correva per la ventesima volta a guardare dal balcone nella strada.

Passavano carri, tram, carrozze, carriole a mano, con quel frastuono pieno e grosso di una città che vive bene, mangia bene, digerisce bene.

Passò un fiume di gente, uomini, donne, soldati, preti, ragazzi, in tutti i sensi: passò un funerale colla musica in testa...., passò un carro pieno di masserizie.... Un cavallo spinto a corsa scivolò e cadde sulle zampe davanti. Accorse molta gente, fu tirato in piedi, partì zoppicando, la gente si diradò, la grossa fiumana riprese il suo corso solito, ma lo zio Demetrio non si lasciava vedere.

Una volta sola il cuore della bambina si risvegliò a un battito di speranza e fu nel vedere Giovann dell’Orghen, un poveraccio, che lo zio Demetrio aveva mandato una volta a casa con un biglietto. Sperò che venisse ancora da parte sua: ma Giovann dell’Orghen voltò e scomparve dietro San Giorgio.

Si ritrasse dal balcone tutta fredda e stillante acqua e stava per chiamare ancora Ferruccio, quando una forte scampanellata ridestò improvvisamente un grido di speranza [p. 155 modifica]e di gioia nei poveri bambini, che stavano per addormentarsi nella gelida malinconia di quella giornata piovosa e senza minestra.

Era il maestro di pianoforte.

Il Bonfanti dalla strada aveva veduto Arabella sul balcone ed era venuto su, prima per fare una visita di condoglianza e poi per sapere quando la scolara avrebbe ripigliate le lezioni. Egli era in credito d’una ventina di biglietti e non osava dire: pagatemi; ma sperava che, lasciandosi vedere, fosse un mezzo per non essere dimenticato del tutto.

Le altre volte il povero Cesarino, che era un fanatico di Verdi, pregava il maestro dopo la lezione di rimanere a mangiare la minestra. Il Bonfanti non credeva d’avvilirsi restando, e pagava poi generosamente col sonare e col cantare a memoria mezzo il Trovatore e mezza la Traviata. Era anche questa un’occasione di mettere le mani sul piano, perchè, dal giorno che il povero maestro era andato all’ospedale col vaiuolo, aveva dovuto vendere anche quel poco cembalo e le tirava verdi, il pover’uomo, verdi come il sambuco. Da tre mesi l’organo di San Sisto era in riparazione: e si può dire che egli vivesse sulle Benedizioni di San Lorenzo.

— Se la signorina non si sente di prender lezione, vado io di là, se permettono....

E colla confidenza del vecchio amico di [p. 156 modifica]casa, il maestro passò nel salottino e cominciò ad arpeggiare sulla tastiera tanto per far venire l’ora solita che il riso andava in tavola. Egli sperava, coll’ingenuità dell’artista, che la signora Beatrice avrebbe continuato le buone tradizioni del suo povero marito, anche in considerazione di quella ventina di biglietti che non erano mai stati pagati. Solo che, nelle battute d’aspetto e nei brevi intervalli tra un arpeggio e l’altro, gli pareva d’intendere un gran silenzio, non solo in cucina, ma in tutta la casa, mentre le altre volte c’era quel dolce tintinnìo di posate.

Non sapendo come spiegare questo insolito ritardo, il maestro provò a cantare, colla sua voce stanca di vecchio baritono, l’a-solo del re Filippo.

Dormirò sol nel manto mio regal....

— Scusi, maestro, c’è la mamma che si sente male.... — venne a dire Arabella.

— Oh, se avessi saputo.... Che cosa ha?

— Un po’ d’emicrania.

— È il tempo. Allora ci rivediamo martedì?

— Glielo saprò dire, non so.... — balbettò Arabella arrossendo.

— Ad ogni modo, non esca per ora dagli arpeggi. Adagio, conti a voce alta, e giù bene i polpastrelli. [p. 157 modifica]

Arabella cogli occhi gonfi di pianto disse di sì col capo.

— Me la saluti, la signora mammina.


*


Il Bonfanti, discepolo della classica scuola del Pollini, era ancora di quei vecchi maestri che sanno distinguere l’arte dalla ginnastica e dall’acrobatismo, e rideva di chi vanta la forza e la precisione come il non plus ultra d’un bravo pianista.

— Che mi fa la forza e la precisione? — diceva. — Anche una locomotiva ha della forza e della precisione; ma una locomotiva non sarà mai una grande pianista.

L’interpretare una pagina di musica, il saperla colorire è questione di sentimento, e il sentimento non si esprime se non colla delicatezza del tocco; e il tocco non si acquista che col metodo e colla pazienza. Tutta l’arte è nei polpastrelli! In virtù di questo metodo, teneva i suoi allievi sei mesi e anche un anno sulle cinque note, che il Thalberg (il celebre Thalberg ch’egli aveva conosciuto a Monza nella villa del vicerè Raineri) aveva definito discorrendo con lui le senk vertù teolegal de la musik.

Dopo le cinque note bisognava aver [p. 158 modifica]pazienza e diligenza sulle scale. Dopo tre anni di studi, il Bonfanti, si vantava che i suoi allievi non sapevano ancora suonare niente, nemmeno una mazurchetta, mentre i maestri guastamestieri, per secondare l’ambizione delle scolare e delle mammine, fanno sonare il pezzo concertato quando l’allievo non sa ancora mettere giù i polpastrelli.

In questa maniera egli procurava di tenere alta la bandiera della buona scuola e delle tradizioni classiche, anche a dispetto dei tempi, che adagio adagio lo lasciavano morire di fame.

Discese le scale, si fermò un momento sulla porta a strologare il tempo, e mormorò:

— Potevo almeno farmi dare un ombrello.

E andò a fare quattro passi.