Dialoghi sopra l'ottica neutoniana/V

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Dialogo quinto

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IV VI


Esposizione del principio universale dell’attrazione, applicazione di questo principio all’ottica, e conclusione.

Furono interrotti il di appresso i nostri ragionamenti da una gentil compagnia di dame e di cavalieri, che vennero a visitar la Marchesa. Si misero in campo, in luogo di sistemi filosofici, le novelle che forniva la città, i casi delle gentili persone, e le mode che erano frescamente giunte di Parigi. Dove mostrò la Marchesa la perizia sua nel prognosticare dagl’indizi i più leggieri ciò ch’ era per avvenire nel regno più mutabile ed incerto di tutti; e mostrò che al bisogno sapea profondamente parlare di nastri e di cuffie; e da tale gentilezza di maniere era accompagnato ogni suo detto, che le veniva quasi perdonato il suo spirito, anche dalle persone del medesimo suo sesso. Così da noi fu lietamente trapassata buona parte di quel giorno; e verso la sera invitandoci un soave venticello, che rinfrescava l’aria, entrammo tutti in un’adorna barchetta, la quale col favore dei remi raggiunse ben presto alcuni navili di pescatori, che lontano da riva tese aveano lor reti, e poste insidie alle dilicate trote e ai carpioni del lago. Erano da noi con diletto grandissimo corse quelle chiare e limpid’acque, che bagnano costiere piantate di bei pergolati di aranci, e per lo fremito delle onde gareggiano talvolta col mare. Ritornati la sera assai tardi a casa al suono di corni da caccia, e al lume della luna, sotto a cui tremolar pareano le acque del lago, a giocar ci ponemmo; e quindi a una linda ed elegante tavola; né mancarono di bei motti e racconti, che condissero la cena. Il dopo pranzo del seguente giorno prese commiato la compagnia; e mostrandosi la Marchesa più volonterosa che mai di ripigliare il nostro ragionamento sopra l’attrazione, postici a sedere nella galleria, io mi feci a dire in tal modo: - Un effetto, che è continuamente negli occhi di tutti, e di cui occultissima è la causa, è che i corpi, quando da niuna cosa sono impediti, vanno in basso, e gravi perciò si chiamano. Della gravità fu il primo il Galilei a dimostrare le proprietà e le leggi nei movimenti dei corpi, che sono appresso alla terra; tanto di quelli che cadono abbandonati a se medesimi, che di quelli che corrono giù alla china, o che vibrano appesi d’in alto, e pendoli in aria. E per tali vie principalmente egli entrò nel campo della vera filosofia, dove da tutti è riconosciuto qual primo duce e maestro. Il Neutono scopri dipoi come tutti i corpi, anche i più lontani dalla terra, sono dotati di gravità gli uni verso degli altri; trovò di tale gravità universale le leggi primitive; giunse a vederne sino alla causa; e si levò a così alto volo, quasi direi, per uno abbattimento. Raccontano che un giorno che tutto solo era a diporto in un giardino, fosse in particolar modo colpito la mente al vedere d’un albero cadere un pomo. Onde concentratosi in una sua meditazione, prendesse a ragionare in tal guisa seco medesimo. - I diporti del Neutono - si fece qui a dir la Marchesa - erano, a quel che io veggo, come i giochi d’Achille. E ora sì che mi sarà mestieri studiare il passo più che mai, a potergli tener dietro in quel suo giardino. - Ed io continuai: - Tutti i corpi, diceva egli, che sono intorno alla terra, pesano verso la terra medesima. Di assolutamente leggieri, conforme altre volte credevasi, non ce n’è. Che se alcuni mostrano di andare all’in su, non avvien loro altrimenti che al sughero, che per esser meno pesante dell’acqua, da essa è levato in collo e forzato di starsene a galla. La causa della gravità non dee cercarsi, come immaginò il Cartesio, nel giro di un vortice che circondi la terra, nella impulsione del fluido sottilissimo, ond’esso è composto, il quale facendo ogni sforzo di slargarsi e occupare le parti più lontane dalla terra e più alte, cacci in basso i corpi che nuotano per entro ad esso. La gravità in tal caso dovrebbe operare all’agguaglio delle superficie, che i corpi presentano a cotesto fluido; e non all’agguaglio della materia, che internamente contengono. Non vi par egli, Madama, che la cosa sia così? - Pare veramente - diss’ella - che quanto saranno in maggior numero le parti esposte al di fuori, dove potrà operare cotesto fluido, tanto maggiore dovrà essere l’operazion sua. - E la quotidiana esperienza - io seguitai - pur ne mostra il contrario. Una foglia d’oro, per quantunque assottigliata e distesa ella sia, non è così grave certamente quanto è un granello di piombo: anzi in paragone di esso si può chiamare leggiera: segno manifesto che il più o meno di superficie non fa nulla per accrescere o diminuire la pesantezza de’ corpi; e però convien dire che la gravità penetri la sostanza, e operi sopra ciascheduna particella della materia. La causa adunque della gravità non è una forza che operi estrinsecamente; ma una forza che ricerca internamente i corpi e muove dalla terra, la quale gli chiama e gli alletta tutti al suo centro. Una tal forza giugne assai alto e, senza punto scemare, nelle regioni dell’aria. Ché non potria ella giugnere più alto ancora, e stendersi sino alle trenta, sessanta, novanta mila leghe? che tale è la distanza della luna. E se arriva fin là su, non sarà ella la causa che ritiene la luna nell’orbe suo, e fa sì che ella giri intorno alla terra? Che ben sapete, Madama, come ogni corpo che muove di moto circolare vorrebbe, non meno che fa il sasso nella frombola, allontanarsi dal centro intorno a cui gira, e scappar via; e se pur gira, è in virtù di una forza che il frena e il tiene ad esso centro quasi obbligato ed unito. Fermo il Neutono in questo pensiero - io continuai dopo un po’ di pausa - prese in sua scorta la geometria; e trovò che se un corpo, il quale sia in moto, è tirato verso un centro, percorrerà intorno ad esso aie proporzionali a’ tempi. - Ben io - disse la Marchesa - avea incominciato a seguire il Neutono; ma s’egli s’imbosca con cotesta sua geometria, io lo perdo tosto di vista. - Non dubitate, - io risposi - Madama, che faremo in qualche modo di seguirlo anche là dove più si vorrebbe nascondere. Figuratevi un corpo che gira intorno ad un altro, che del suo moto si può dire il centro; e figuratevi ch’e’ giri non già per un cerchio perfettamente tondo, ma che abbia un po’ del bislungo, di maniera che esso centro non sia giusto nel mezzo del cerchio, ma si rimanga un poco da un lato. Segniamo ora con la fantasia un punto del cerchio, dove in questo instante si trovi il corpo che gira. Da quel punto figuratevi tirato un filo o sia una linea al centro: similmente tal punto dove sarà, per esempio, due ore appresso, tiratene un’altra. Quello spazio triangolare, che resta compreso tra le due linee che si stendono dal corpo che gira sino al centro, e la porzione di cerchio da lui corsa nelle due ore, chiamasi aia. E queste tali aie, che, girandosi il corpo, sono formate in tempi uguali, sono uguali tra loro. Con che voi chiaramente vedete, Madama, ch’esso ora va più veloce, e ora meno; e in tempi eguali non avrà già corso due porzioni di cerchio eguali, ma due porzioni di cerchio tali che le aie formate nel modo che abbiam detto verranno ad uguagliarsi tra loro. E se un tempo sarà la metà, il terzo, il doppio di un altro tempo, anche le aie formate in quei tempi saranno la metà, il terzo, il doppio; che tanto è a dire, le aie sono proporzionali ai tempi. E il Neutono ancora trovò, che se all’incontro un corpo percorre intorno a un centro aie proporzionali ai tempi, egli sarà tirato verso quel centro. - E la luna, - disse la Marchesa - girandosi intorno alla terra, percorre mo’ ella coteste vostre aie proporzionali ai tempi? - Questo è ciò - io risposi - ch’ella fa per appunto. E vi dirò ancora più, che la terra e tutti gli altri pianeti fanno anch’essi il medesimo intorno al sole. - Adunque - riprese subito la Marchesa - hanno anch’essi una gravità verso il sole, o. come voi dite, sono tirati dal sole. - Ed ecco, Madama, - io risposi - che avete compreso da voi medesima cotesta attrazione neutoniana, che da prima pur vi riusciva così nuova cosa, e pareva non vi andasse gran fatto a verso. Vedete la luna gravitar verso la terra per la ragione medesima che fanno i corpi che ne sono dattorno; non in virtù di un fluido, che ve la spinga, ma in virtù d’una forza, che muove dalla terra ed a sé la chiama. E come mai la luna nelle regioni del cielo potrebb’ella essere attorniata da un fluido? Troppo la grande resistenza proverebbe nel procedere innanzi per l’orbe suo; verrebbe il suo moto a rallentarsi in poco d’ora e ad estinguersi: né altrimenti saria de’ pianeti, se girassero intorno al sole per uno spazio pieno di materia. - E non potrebbe - disse la Marchesa - cotesta celeste materia essere cotanto pura, cotante fina e sottile, che poco o niuno impedimento facesse al moto della luna? E s’ella fosse per assai più volte, che noi immaginar non potremmo, più sottile dell’aria? - Fate pure, - io ripresi - Madama, ch’ella sia così sottile, così fina e così eterea, come è la materia del Cartesio. E già vedrete che s’ella riempie di se medesima ogni spazio, è tutt’uno che s’ella fosse una massa tutta solida e massiccia. La resistenza che provano i corpi nel muovere per entro a un fluido, tanto è maggiore quanto maggiore è il numero delle particelle del fluido, che, per procedere innanzi, hanno da muovere di luogo; dovendo pur essi altrettanto perdere di moto quanto ne danno. Or che sarebbe, se la luna movesse per mezzo a una materia, che ogni spazio riempiesse del cielo? Dovrebbe ad ogni instante smuover di luogo, per farsi la via, una infinità di particelle, che glie la contrastano; troverebbe nel cammino tale impedimento, che, cessato in brevissimo spazio di tempo il proprio suo moto, e stimolandola del continuo la forza della gravità, verrebbe a piombar sulla terra; e lo stesso fariano i pianeti verso il sole, talché sino dal bel principio delle cose sarebbe venuto finimondo. Ma non dubitate, Madama; ne libera da ogni timore il sapere che la luna e i pianeti muovono per entro alle vaste solitudini del voto, dove nulla impedisce, nulla rallenta il loro movimento. Spinti dal Creatore in linea diritta, per essa avrebbono continuato mai sempre a muovere innanzi; quando per cammino sentito non avessero l’attrazione del vastissimo corpo del sole, che quasi in soglio siede immobile colà in mezzo dello spazio. Gli fa questa declinare dal retto loro sentiero, e per una linea curva gli fa rivolgere intorno al sole. La più grande orbita di tutte, che ha non vi saprei ben dire quanti milioni di milioni di miglia di circuito, viene in trent’anni descritta, come già sapete, da Saturno; ed essa comprende quelle degli altri pianeti: Giove, Marte, la Terra, Venere e Mercurio, i quali penetrati tutti dalla virtù magnetica del sole danzano in vari giri intorno da lui, come nel suo Paradiso cantò il Miltono, quasi profetizzando agli uomini i misteri dell’attrazione. Da essa sono altresì governate le comete, le quali, benché vadano quale per un verso e quale per l’altro, benché girino intorno al sole per orbite assai più bislunghe che non fanno i pianeti, ubbidiscono però puntualmente alle medesime leggi; e quanto già furono al Cartesio ribelli, altrettanto sono docili al Neutono. Per l’attrazione similmente i pianeti secondari girano intorno a’ loro primari; la luna cioè intorno alla terra, intorno a Giove le sue quattro lune, e intorno a Saturno quelle altre sue, che son cinque. In somma il gran fenomeno del giro de’ pianeti, per cui i filosofi fabbricato aveano degli epicicli, dei vortici, ed anche creato delle intelligenze onde reggergli e governargli, si riduce al moto di un sassolino, che uno scagli con mano. Dopo aver esso da noi ricevuto la pinta, muoverebbe, quanto è a sé, per linea diritta, se la forza della terra, che lo trae del continuo in basso, nol deviasse per una curva. E già se noi da un luogo altissimo gittando un sasso, gli potessimo dare tal forza che, deviando per la curva, non si scontrasse nella terra, e l’aria non gli resistesse, verremmo a fare un’altra luna: voglio dire ch’e’ girerebbe intorno intorno alla terra, come fa appunto la luna. - Ben pare - disse la Marchesa - che la natura opera molto col poco. Una medesima forza, una medesima cagione produce effetti, che pur paiono e parvero anche a’ filosofi quanto tra lor differenti! Già non si può mettere in dubbio che l’attrazione non governi i moti di Saturno, e non faccia qui da noi cadere un pomo. Maravigliosa cosa è a vedere come un motivo, per così dire, semplicissimo continua sempre lo stesso, e domina in tutto il gran concerto del mondo. - Ora, - continuai io - siccome la legge delle aie proporzionali ai tempi, a cui nel descriver la sua orbita ciascun pianeta ubbidisce, fu cagione, che il Neutono scoprisse la forza attrattiva nel sole, così un’altra legge, per cui i pianeti spendono più tempo in compiere le loro orbite, secondo che sono più lontani dal sole, e ciò con certa proporzione tra le distanze e i tempi, fu cagione ch’egli scoprisse che la forza attrattiva va scemando con certa misura, via via ch’ella si allontana dal sole. E la misura è questa: ch’ella scema non di quanto cresce la distanza dal sole, ma il quadrato del numero esprimente la distanza di esso sole; il che si chiama la ragione inversa dei quadrati delle distanze. - Ohimè! - disse la Marchesa - che noi torniamo ad entrare nel bosco. - Per intendere una tal cifera di geometria, - io seguitai - basta sapere che il quadrato di un numero è il medesimo numero moltiplicato in se stesso: come per esempio il quattro è il quadrato del due, perché due via due dà quattro; il nove è il quadrato del tre, per la medesima ragione che tre via tre dà nove; e così discorrendo. Nota adunque la distanza in che si trova la terra dal sole, e insieme nota la distanza in che si trova Giove, che l’una è cinque volte maggiore dell’altra, voi potrete sapere di quanto la forza attrattiva del sole alla distanza di Giove è indebolita, rispetto alla forza di esso sole alla distanza della terra. - State ad udire, - disse la Marchesa - se io so raccapezzarlo. Voi mi dite adunque che la forza attrattiva è minor di tanto di quanto è maggiore il quadrato della distanza. Il quadrato di uno, che voi fate esser la distanza della terra dal sole, è uno. - E alla distanza uno, - ripigliai io - uno parimenti è la forza. - Il quadrato del cinque - soggiuns’ella subito - è venticinque: e però la forza attrattiva del sole in Giove è venticinque volte minore che nella terra. - Forse, - diss’io - Madama, non sapete, che adesso voi avete sciolto un problema; e potete dire, come quell’antico geometra, ho trovato, ho trovato. Anzi ne avete sciolti tre dei problemi: vedete senso che si asconde sotto il velame delle vostre parole. Con la stessa legge per appunto che scema l’attrazione, scema e il calore e la luce. - La luce adunque, - disse la Marchesa - e il calor del sole sono anch’essi venticinque volte minori in Giove che qui in terra? - Né più né manco: - io risposi - a segno che noi trasportati in Giove interizziremmo del freddo pel solleone di quel pianeta; e gli abitanti di Giove trafelerebbono del caldo nel cuore del nostro inverno, e trovandosi qui tra noi offesi dalla luce del sole, non potrebbono vivere che in compagnia della nostra più leggiadra gente, che fa di notte giorno. - Vedete - disse la Marchesa - quante cose belle io ho trovate a un tratto, senza pur saperlo! - Non avviene così di rado - io risposi - che nella buona filosofia quello solamente si trovi e non più, che uno di cercar si propone. La verità è più feconda che altri non crede. Ma perché abbiate ancora maggior certezza del modo con che diminuisce a varie distanze il vigor della luce, e meglio veggiate come avete colto nel segno, ne potremmo prendere questa sera, se vi sarà a grado, una esperienza non meno decisiva che facile a farsi. In una stanza non vi ha da essere altro lume, salvo che una sola candela accesa: ed uno si pone tanto lontano da essa, che a mala pena possa rilevare i caratteri di una lettera; se già una non fosse di quelle lettere che si leggono a qualsivoglia lume. Indi, se egli si porrà a doppia distanza, vedrete che a poter rilevare i caratteri, come avea fatto innanzi, non basta raddoppiare il lume coll’accendere nel medesimo sito una simile candela, ma converrà quadruplicarlo; che è appunto il quadrato della distanza due. Che se ad ottenere il medesimo effetto convien rinforzare il lume proporzionatamente al quadrato della distanza, di altrettanto convien dire che l’istesso lume, allontanandosi dal principio suo, perda della sua virtù. - Io mi penso - soggiunse qui la Marchesa - che questa regola de’ quadrati si estenda anche a cose ben lontane dalla filosofia. Il quadrato dell’otto non è egli il sessantaquattro? - Appunto - io risposi. - Pensate ora voi, - ella soggiunse tosto - di quanto nello spazio di otto giorni dopo una partenza debba perder di virtù il dolce lume, il dolce fuoco, di che in presenza si mostrano tanto accesi gli amanti. - Guardate poi, - diss’io - Madama di non esser causa, che si guasti la generalità della vostra regola voi. - Ma seriamente parlando, - diss’ella - la forza attrattiva del sole va calando, secondo che crescono i quadrati delle distanze. E lo stesso sarà senza dubbio della forza attrattiva della terra. - Che la cosa - io risposi - sia così in Saturno e in Giove, lo veggono manifestamente i matematici mercé di quelle lune o satelliti che vi girano intorno. Poiché quella medesima proporzione tra le distanze e i tempi delle loro rivoluzioni, che osservano i pianeti che vanno intorno al sole, la osservano ancora i satelliti, che vanno intorno a un pianeta. Dal che se ne ricava che la forza attrattiva di Saturno e di Giove cala nella proporzione medesima che quella del sole. Ma per tal via non è già possibile verificarlo nella terra; non avendo ella un’altra o più lune, onde comparare i tempi delle loro rivoluzioni con le loro distanze da essa terra. - Se non fosse - disse la Marchesa - che per quanto ho raccolto da voi, i Neutoniani fanno tanto il poco caso delle probabilità, parmi che non sarebbe da mettere in dubbio che la cosa proceda allo stesso modo anche nella terra. Ma così stretto è l’instituto della loro filosofia, che anche le probabilità le meglio fondate non occorre metterle in campo. - Certo è - io risposi - che non si sarebbono mai dati pace, se un’altra via trovata non avessero da giugnere alla dimostrazione: e ciò fu comparando il moto de’ gravi cadenti qui presso alla terra col moto della luna. Se fosse possibil mai, ch’ella venisse a cadere sopra la terra, sono assicurati, e sapete, ch’e’ non si assicurano per così poco, che la forza che di là su la tirerebbe in basso sarebbe tremila e secento volte minore della forza che tira in basso i nostri gravi quaggiù. La luna è lungi dal centro della terra sessanta mezzi diametri della medesima terra, o sia sessanta di quelle misure, delle quali i corpi ne sono lungi una sola; e il quadrato di sessanta è tremila e secento, né più né meno. - Molto bravamente - disse la Marchesa - sono arrivati i neutoniani alla dimostrazione: ed egli mi pare proprio un danno che non sia possibile che la luna venga a cadere sopra la terra. Potrebbono dare in tal modo quasi l’ultima mano a’ loro computi, a vedergli confermati più che mai. E che bella occasione non sarebbe anche cotesta per gli altri filosofi? potrebbono poggiare a lor diletto per quei monti e scendere per quei valloni, che vi veggono per entro col cannocchiale: e a moltissimi poi sarebbe dato di riavere, senza fare il viaggio di Astolfo, l’ampolla del loro senno che perdettero qui in terra in tante vane speculazioni. - Quella - io ripresi a dire - che vi sarebbe in tal fatto di più curioso si è che la terra non si starebbe mica ad aspettar la luna a piè fermo; ché, movendo anch’essa, le si farebbe incontro. - Come incontro? - tosto soggiunse la Marchesa. - È egli forse fermato questo patto tra’ pianeti: che qual di loro venisse a muovere verso dell’altro, l’altro dovesse andargli incontro, quasi per fargli accoglienza? - Al certo, - io risposi - se ci fosse un tal patto, molto bene sarebbe garantito dall’attrazione vicendevole che hanno tra loro. Se in due tavolette di sughero si fanno galleggiar sull’acqua un pezzo di calamita ed uno di ferro, a poca distanza l’uno dall’altro, vedesi non meno correre il ferro verso la calamita, che la calamita verso il ferro: e se si ritiene questo o quella, qual de’ due non ritenuto corre verso l’altro. Ancora l’ambra, che strofinata ha potere di attrarre a sé varie specie di corpi, appesa ad un filo in modo che stia libera in aria, si fa incontro essa medesima a que’ corpi che se le presentano, e gli seconda in tutti i loro movimenti. - La cosa adunque, - disse la Marchesa - riesce a questo: poiché il sole attrae i pianeti, anche i pianeti attraggono il sole: i primari attraggono i secondari, e sono da essi attratti; i secondari si attraggono similmente l’un l’altro. - E finalmente - io soggiunsi - i corpi

tutti tirati sono, e tutti tirano,

come disse ad altro intendimento il maggior nostro poeta. - Ma tante e sì diverse attrazioni - ripigliò la Marchesa - non dovrebbono elleno, incrocicchiandosi e quasi combattendo tra loro, causare nella universalità delle cose una qualche confusione? - Sì, - io risposi - se subordinate non fossero alle leggi più severe e più strette, che già non è pericolo sieno per trasgredire giammai. L’attrazione in ciascun pianeta è maggiore o minore secondo che più o meno contiene di materia; e lungi da esso se ne va scemando, secondo che cresce il quadrato della distanza. Muovendosi come fanno, e trovandosi tra loro ora più ed ora meno vicini, va continuamente variando l’effetto dell’attrazione degli uni sopra degli altri. Quindi ne avvengono alcune irregolarità ne’ loro movimenti, o vogliam dire disordini, che già non isfuggirono al Neutono, il quale, armato sempre della più fina geometria, seppe assoggettargli al calcolo e assegnarne sino agli effetti più minimi. Quando i pianeti si trovassero tutti dalla medesima banda, non si crederebbe egli, Madama, che dovessero sconcertare non poco il sistema celeste, operando tutti con l’attrazion loro di compagnia contro al sole? - Sì certo - rispose la Marchesa. - Terribile sarebbe una così fatta congiura, e tale da mettere in gran pensieri la immobile maestà del sole, non forse egli dovesse discendere dal soglio, e dei pianeti non essere più il re. - Così pare veramente; - io soggiunsi - e Dio sa ancora quali altre funeste conseguenze apprendere potesse uno umore tanto o quanto maninconico. Ma considerando che il sole, vastissimo come egli è, contiene in sé più materia che tutti gli altri pianeti presi insieme; e considerando che i pianeti più vicini al sole, che più fortemente operano sopra di lui, sono anche i più piccioli, altri può viver sicuro. Quand’anche le forze di tutti i pianeti unite fossero contro al sole, vano sarebbe ogni loro sforzo. Egli è dimostrato che non lo smuoverebbon dal proprio sito che di un solo al più de’ suoi diametri. Simile al Giove di Omero, che sfida la turba degli altri dei, e se ne sta fermo ed immobile, tenendo in mano l’un capo della catena d’oro, mentre all’altro capo adoperano tutti ogni lor possa, collegati insieme contro di lui. - Bella e grandiosa immagine, - disse la Marchesa - onde da quell’antico poeta fu come adombrata l’armonia e l’ordine, che i più acuti nostri filosofi ravvisano nell’ universo. - La luna - io continuai a dire - è più di ogni altro corpo celeste soggetta nel suo movimento a disordini e a irregolarità; e ciò a cagione principalmente della situazion sua. Oltre all’attrazione della terra sente fortemente quella ancora del sole: e questa quando più gagliarda e quando meno, secondo che, girando intorno alla terra, e trovandosi ora in opposizione ed ora in congiunzione col sole, si trova essere ora più ed ora meno da esso sole lontana. Da tutto ciò ha da nascere che la sua marcia ora si acceleri, ora si ritardi; che la figura e la positura dell’orbe suo vadano cangiando; mille irregolarità in somma, o scambietti nel movimento suo, i quali tribolavano del continuo e facevano dare al nimico i devoti di Urania che non arrivavano a penetrarne il perché. Il Neutono gli ha saputi ridurre sotto regola; ha mostrato come quelle cause che disordinano la luna, quelle medesime altresì dentro a un certo tempo la riordinano; ed egli solo ha il vanto di aver posto a quel licenzioso pianeta la briglia e il freno, come altri disse, de’ computi. Ben è vero, - io continuai - che novellamente in Francia fu chi pretese di mostrare che la luna ricalcitrava al Neutono pur assai; mentre, stando alle leggi dell’attrazione, ella avrebbe dovuto compiere in diciotto anni certo suo particolare e importantissimo movimento, e in effetto lo compie in nove. - Il sistema dell’attrazione - disse la Marchesa - trovò dunque anch’esso in Francia un altro Mariotto. Se non che, qui non si quistionava del fatto, ma della ragione del fatto medesimo: e la disputa era di un grado assai più alto, e più degna della speculazione e dello ingegno de’ filosofi. - Trattavasi - io risposi - di far nuove leggi a potervi ridur la luna. Il sistema del Neutono non si adattava a tutti i fenomeni: conveniva almeno mettervi mano per racconciarlo; e dal racconciare al rigettare un sistema non ci è un gran tratto, bene il sapete. Tanto più dipoi pareva che fosse da temere per l’attrazione, quanto che entrato era in lizza uno de’ paladini della geometria già partigiano del Neutono, il quale fu allora predicato come un altro Labieno, che per la giustizia della causa vedevasi costretto ad abbandonare le parti di Cesare. - E che fece la Inghilterra? - ripigliò con impazienza la Marchesa. - Non entrò anch’ella tosto in campo? Mise altre volte in chiaro la poca diligenza del Mariotto: avrà ora messo in chiaro la fallacia presa dal matematico. Un qualche suo Astolfo avrà, mi penso, dato di piglio a quella lancia d’oro, che fa uscir di sella quanti ne tocca. - Fosse sicurezza, o altro, - io risposi - ella non prese parte alcuna nella disputa; quasi prevedesse quello che succeder dovea. - Ma certo, - soggiunse la Marchesa - ella non poteva sperar di vincere senza prima combattere; quando il Francese per avventura non avesse abbandonato il campo, e non si fosse dato egli medesimo per vinto. - Così avvenne giustamente, - io risposi. - Rifatti d’indi a qualche tempo suoi computi sottilissimi, intralciatissimi, dove di mille minuzie era da tener conto, si accorse alla fine da qual piede zoppicassero. Trovò che, giusta le leggi dell’attrazione ridotte al più scrupoloso esame dovea la luna compiere quel suo moto nel tempo giustamente che lo compie né più né meno; e rimise solennemente in seggio il Neutono. - Bel trionfo, - disse la Marchesa - che fu cotesto per il Neutono e per li partigiani suoi, ch’ebbero vittoria senza né meno venire a giornata. - Quale fu maggior trionfo pel Neutono, - io replicai - quanto il turbamento che, secondo che predetto egli avea, si cagionarono vicendevolmente ne’ moti loro Giove e Saturno? Sono questi i più grossi tra’ pianeti: e nello avvicinamento o congiunzion loro, benché vi sieno ancora tra mezzo parecchi milioni di miglia, pur debbono, secondo la ragione della materia che contengono, sensibilmente operare l’uno sopra dell’altro. Venne una tal congiunzione a cadere al principio della presente nostra età. E siccome a tal tempo il sistema neutoniano non faceva che comparire nel mondo, e avea però di molti contrari, ben potete immaginare, Madama, qual fosse l’aspettazione di coloro, a cui preme sovra ogni altra cosa saper fatti tanto da noi lontani, e come si aguzzassero per ogni lato di Europa gli occhi scientifici. Stavano essi tutti rivolti al cielo, per veder pure se avveniva sì o no un tal turbamento, ch’esser dovea il paragone della verità del nuovo sistema e della fede che era da porvi. Certo sì, ch’egli avvenne, Madama. Il turbamento, che cagionò Giove ne’ moti di Saturno, e quello che vicendevolmente Saturno cagionò ne’ moti di Giove, furono talmente notabili che si trovarono forzati a riconoscerli e a confessarli quegli medesimi, che, fatte delle scommesse contro dell’attrazione, avrebbono voluto non vedergli. - Non a torto certamente, - ripigliò qui la Marchesa - da voi dicevasi l’altro dì che l’attrazione si manifesta singolarmente ne’ fenomeni celesti, che l’hanno narrata al Neutono, ed egli alle genti. In ogni angolo dell’universo ella domina visibilmente; ogni movimento de’ pianeti ne prova ad ogni instante la esistenza, le proprietà ne dichiara e le leggi. Pare veramente che il cielo sia il suo regno: tanto più che qui in terra ella sdegna talvolta a manifestarsi, quando pur pare a me che manifestar si dovesse. Ma che fo io? non già ch’io intenda levar dubbi contro a un Neutono, ch’io voglia, come si dice, apporre al sole. Pur dirò la difficoltà che mi va ora per l’animo, acciocché da voi sgombrata mi venga ogni nebbia d’inganno. Come è mai che un leggier corpicciuolo, una piuma, per esempio, trovandosi vicino a un torrione o altro gran corpaccio, di cui grandissima sia l’attrazione, non la veggiamo andare ad unirsi con quello? - Madama, - io risposi - come è che in un romanzo ogni sentimento cedesse all’amor della patria, in una bella ogni altra passione ceda alla voglia di piacere? Come è che in mezzo al mormorio delle acque del lago, quando è irritato dal vento, da noi non si oda il ronzar di un insetto? - Comprendo - disse la Marchesa - il senso delle vostre figure. L’attrazione della terra è di tutt’altre vittoriosa, e fa di loro

quel che fa il dì delle minori stelle.

- Così fa giustamente - io risposi. - Con tale e tanta forza ella invade e penetra la piuma, che non le lascia per niun conto sentire le attrazioni particolari di qualunque altra cosa le sia d’appresso. La virtù attrattiva si agguaglia alla massa o alla materia che i corpi racchiudono in sé, come già sapete. Or qual picciola cosa non è un torrione, rispetto a tutta quanta la gran massa della terra quanta ella è? Fate pur conto che la particolare attrazione, non dirò di un torrione, ma di una montagna, e confini pure col cielo, come di quella sua dice l’Ariosto, riesce affatto insensibile, è un niente. Ma dove l’attrazione - continuai io a dire - si dispiega singolarmente agli occhi di tutti qui in terra, è nel maraviglioso fenomeno del flusso e riflusso del mare. Fu esso in ogni tempo uno dei grandi obbietti delle speculazioni dei filosofi, sul quale furono dette assai strane cose. Sapete voi, Madama, la ragione che ne danno i Cinesi? Arde, dicon essi, sino dal principio del mondo la più crudel guerra tra due gran popoli in origine fratelli, l’uno abitante delle montagne, l’altro del mare. Non rifinano mai costoro di combattere; le armi son giornaliere; ora è perdente, ed ora diviene signor del campo il popolo che abita lungo il mare: ed ecco il mare che ora monta ed ora dibassa. - In verità, - disse la Marchesa - che se la filosofia de’ Cinesi va tutta di un tal passo, noi saremmo troppo cortesi verso quella nazione, così altamente stimandogli come sento che comunemente si faccia. E non potrebb’egli avvenire che della grande opinione che abbiamo di loro, essi fossero in buona parte debitori a quelle migliaia di miglia, che sono tra il loro paese e l’Europa? come forse gli antichi hanno un qualche obbligo anch’essi a quei tanti secoli, che da noi gli dividono. La lontananza del luogo, dove uno dimori, o la lontananza del tempo in cui visse, non furono mai solite diminuire la fama altrui. - Certo si è, - io risposi - Madama, che il genio de’ Cinesi non è gran fatto filosofico. Quantunque la stampa sia tra loro una invenzione antichissima, e quantunque il governo non sia punto avaro agli uomini che sanno di ricompensa e di premio, non hanno mai le scienze sotto il cielo di Pechino aggiunto al termine della mediocrità: anzi si può dire che vennero loro insegnate da’ nostri Europei, che non erano in esse di gran maestri. I loro studi favoriti sono la lingua, di cui, per essere un mare senza riva, non vengono mai a capo; e le leggende di quanto scrissero in ogni cosa e pensarono i loro maggiori, da’ quali dissentire è delitto: studi atti a formare degli antiquari e de’ parolai, non a destar l’ingegno, o a promovere la ragion dell’uomo. Noi faremo, se così vi piace, Madama, una picciola setta contro ai Cinesi; gli avremo in pregio per le loro porcellane e per i loro ventagli; ma non ne faremo niun conto per i loro sistemi di filosofia. Le ragioni per altro del flusso e riflusso del mare, che diedero alcuni de’ nostri filosofi, non furono più filosofiche di quelle che ne danno i Cinesi: l’assorbire, per esempio, e poi mandar fuori delle bigonce d’acqua senza numero, che fa ogni dì non so qual gorgo dell’oceano, detto il bellico del mare, o la respirazione, che ha di sei in sei ore il gran corpaccio della terra. - Non tutte però le ragioni - disse la Marchesa - de’ nostri filosofi esser dovettero, mi penso, di quel calibro. - Coloro tra noi - io risposi - che meglio osservarono le cose naturali si accorsero che tra le vicende del flusso e riflusso del mare e i moti della luna vi correva una assai stretta corrispondenza ed amistà. Tentarono alcuni di spiegare in che cosa ella consistesse; ma vani furono i loro tentativi. E il metter veramente in chiaro qual sorta di azione possa aver la luna sul mare, come ella ne abbia governo e balìa, era riserbato al Neutono. E certamente attraendo la luna, come pur fa, il nostro globo, di cotesta attrazion sua se ne ha da vedere alcun segno nella parte fluida e cedevole, che in gran parte ricinge tutto intorno esso globo. Le acque marine sottoposte alla luna dovranno pure alcun poco levarsi in alto, ubbidendo all’attrazione di essa; la quale non è mica insensibile, come quella del torrione o della montagna di poco fa. E volete, Madama, vederne uno, assai bello esempio? Voi sapete come l’ambra, bene strofinata che sia, ha potere di attrarre a sé varie specie di corpi. Tra essi è anche l’acqua. Ora se un pezzo di ambra bene strofinata si presenti a qualche distanza sopra una conca piena di acqua, l’acqua si solleva in alto a guisa di monticello o di cupola, quasi facendo ogni suo sforzo di unirsi con l’ambra. - Un più bel modo - disse la Marchesa - non ci potrebbe esser di questo, per rappresentare così a picciolo la luna e i suoi effetti sopra del mare. Egli sembra che voi adoperate come gli architetti, che, a mostrare ciò che ha da riuscire in grande la fabbrica, ne fanno in prima il modello. L’acqua dunque, che trovasi essere sotto il pezzo di ambra, si alza in un colmo; e secondo che il pezzo di ambra si andrà muovendo qua e là vedrassi pur muovere e mutar sito il colmo d’acqua. - Nell’istesso modo per appunto - io seguitai - voi già comprendete, Madama, come, secondo che la luna cammina in cielo, dovrà tenerle dietro quaggiù il colmo d’acqua, ch’ella innalza nel mare sotto di sé. - Io comprendo - disse la Marchesa - che il mare che ricinge tutto intorno la terra, si ammozzicchierà sotto la luna; e piglierà, se non erro, come la forma di un uovo, la cui punta sarà sempre rivolta alla luna medesima. E quest’uovo - io dissi allora - vel figurate voi schiacciato nella parte di sotto? voglio dire nella parte opposta a quella, dove è la luna. - Tale giusto mel figuro - disse la Marchesa. - E naturalmente - io ripresi - per la ragione che la virtù lunare, penetrando addentro e ricercando tutto il globo terrestre, pur dee tirare a sé quelle acque che sono di sotto. - Appunto: - diss’ella - voi avete messo in chiaro quella ragione, la quale io non vedeva se non confusamente. - Ma pigliate guardia, - io ripresi a dire - se considerando meglio quella stessa ragione, le acque di sotto non dovessero ricrescere anch’esse e si avesse a far ivi un altro colmo o rialto nel mare. - Sì; rispos’ella - se ci fosse un’altra luna di sotto, che attraesse per un verso contrario a quella di sopra: e ben veggo che, se noi avessimo tante lune quante ne ha Giove o Saturno, avverrebbono di simili bizzarrie. Ma come mai la medesima luna potrebb’ella operar così contrari effetti, che ella in un luogo avvicinasse le acque a sé e da sé le allontanasse in un altro? - Ma le acque - io ripresi - che sono di sotto, non vengono anch’esse, come quelle di sopra, tirate dalla luna più o meno, secondo che le sono più o meno vicine? - Così è - ella rispose. - E le acque - io ripresi - che sono più sotto di tutte non sono anche le meno vicine alla luna? - Veramente, - disse la Marchesa - io doveva comprendere che sentendo meno delle altre la virtù della luna, debbano anche correre verso di essa con minor forza, e restare più addietro delle altre. - Ed ecco - io ripresi - l’altro colmo che dee farsi nella parte dell’altro emisfero, che è dirittamente opposta a quella a cui la luna soprastà. La mole adunque delle acque marine viene a pigliare una figura ovale e bislunga con due colmi l’uno diametralmente opposto all’altro, che secondano sempre da levante a ponente il moto giornaliero della luna: e in questo appunto, nel trapassare cioè di quei colmi d’uno in altro luogo, consiste il crescere e il calare, il flusso e riflusso del mare. Sulle coste dell’oceano vedesi tutto giorno come il volger del cielo della luna

cuopre e discuopre i liti senza posa.

In alcuni luoghi dove sottile è la spiaggia, il mare se ne ritira per lo spazio di più miglia, e vi torna poi sopra con gran furia ad inondargli: talché dentro allo spazio di poche ore potrebbono nel medesimo luogo venire a giornata due eserciti e due armate navali. Il Mediterraneo e l’Adriatico hanno essi ancora il flusso e riflusso, ma più debole; e in queste nostre lagune vedesi la marea ora portar per un verso ed ora per l’altro le gondolette, intanto che il gondoliere canta a un bel raggio di luna la fuga di Erminia o gli amori di Rinaldo. Ma dove le maree fannosi grandissime è nel mare Pacifico e nell’Oceano orientale: e ciò atteso la vastità di quei mari, dove niuna cosa impedisce il libero corso delle acque; e atteso sovra tutto la situazione di essi, che sentono più gagliarda l’attrazione del pianeta che loro dirittamente soprastà. E queste maree molto maggiori anche si fanno, quando il sole si trovi in tal posizione con la luna, ch’egli operi di conserva con essa a far ricrescere e gonfiar l’acque. - Adunque non è vero - disse la Marchesa - che la luna sia sovrana assoluta del mare. Che il sole vuole aver parte anch’egli nel di lei regno. - E dove non ha egli parte - io ripresi. - Egli che, come lo chiamò il poeta, è il ministro maggiore della natura, e, secondo le più esatte osservazioni degli astronomi, è per più di sessanta milioni di volte più grande che non è il pianeta che ne aggiorna le notti e ne costeggia. Sebbene la distanza sua grandissima dalla terra altro veramente non fa se non se invigorire o debilitare la forza della luna; e secondo la situazione, in cui rispetto ad essa si trova, ora ne scema l’effetto contrariandolo ed ora lo accresce col secondarlo. A ciascuno di essi vengono esattamente dal Neutono assegnate le parti sue nella operazione del flusso e riflusso. Vi dice in quali tempi dell’anno e del mese debba essere maggiore o minore, in quali luoghi debba essere più o meno sensibile; e viene da lui felicemente spiegato in ogni sua più minuta particolarità un fenomeno, la cui difficoltà fece dire come uno de’ più celebri antichi filosofi si buttasse in mare vinto dalla disperazione di poterlo capir mai. - Con la scorta del Neutono - disse la Marchesa - non si corre pericolo, a quel ch’io veggo, di dare in disperazione per cosa niuna. Né vi ha così astruso fenomeno, che non si possa arditamente affrontare. - Quali altre prove, Madama, - io continuai a dire - non potrei io darvi dell’attrazione, le quali si manifestano a color che danno opera alle scienze naturali, alla fisica, alla medicina, alla chimica? Ma basterà per tutte il testimonio di quel filosofo olandese per nome Mussembrochio, tanto riputato a’ dì nostri nell’arte sperimentale, e tanto eccellente,

che sovra gli altri come aquila vola.

Egli ebbe solamente a dire che, a farla da uomo libero anche nella filosofia, dovea pur confessare di aver per lunghi anni osservato in ogni maniera di cose movimenti ed effetti tali, che non possono né spiegare né intendere per via della pressione esterna di fluidi sottilissirni; ma che la natura grida ad alta voce essere infusa ne’ corpi una virtù, per cui si attraggono insieme, indipendente dall’urto e dalla impulsione. E oramai mi penso, Madama, che più non farete le maraviglie, se io vi ripeterò come entra ancora nelle cose dell’ottica e ci ha che far l’attrazione. - Veramente, - rispose la Marchesa - che difficoltà potrei io ora avere, a credere che i corpi attraggono la luce, che passa loro dappresso, se ho veduto la luna attraer le acque del mare, e i pianeti attraersi l’un l’altro in quelle loro strabocchevoli e sterminate distanze? - La refrazione - ripres’io allora a dire - non è ella anch’essa un effetto di cotesta virtù attrattiva, come lo è la diffrazione? E non viene ella dallo essere i mezzi, per li quali passa la luce, dotati di tale virtù più o meno, secondo il più o il meno della loro densità? Sino a tanto che un raggio di luce scorre per il medesimo mezzo, come sarebbe l’aria, per esser tirato da tutte parti con egual forza, non declinerà né da questo lato né da quello; ma procederà oltre seguitando la prima direzion sua. Ma se tra via egli viene a scontrarsi nell’acqua o in altro mezzo dotato di maggior attrazione che non è l’aria, non può fare che, ubbidendo alla maggior forza, non si accosti al perpendicolo nel tuffarsi dentro dell’acqua; e al contrario dovrà succedere, come in fatti succede quando dall’acqua torna ad uscire nell’aria. Sentendo una maggiore attrazione dall’acqua che dall’aria, è di necessità che si franga col discostarsi dal perpendicolo, buttandosi verso la superficie medesima dell’acqua dond’esce. Non sembra a voi, Madama, che dal Neutono si spieghi con felicità grandissima la refrazione, che diede anch’essa a’ filosofi cotanta briga, e fu cagione che quello dicessero che meno si concorda col vero? Ma perché non poss’io mostrarvi, con la geometria alla mano, come dalla medesima attrazione debbano nascere gli accidenti tutti e le particolarità, che accompagnano il refranger della luce d’uno in altro mezzo? E meglio allora conoscereste se abbia veramente il Neutono dato in brocca - Per me, - diss’ella - a cui non è dato di discernere così addentro e di geometrizzare, un bellissimo riscontro mi pare esser vero: che dovendo la virtù attrattiva esser maggiore dove maggiore è la densità del mezzo, ivi ancora si trovi esser maggiore la refrazione. - Nell’aria, - io ripresi a dire - nell’acqua, nel vetro e in più altri corpi così solidi come fluidi, le virtù refrattive si mantengono nella scala delle densità. Ma da una tal regola bisogna eccettuarne quei mezzi, che hanno dell’oleoso e sono di lor natura infiammabili. Quantunque di minor densità, sono però dotati di maggior forza e gagliardia nel refrangere; come hanno sperimentato i fisici coll’olio, più valente a torcere i raggi della luce che non è l’acqua, benché di essa più leggieri. - Ohimè, - ripigliò la Marchesa - io m’era formata in mente il mio ragguaglio delle refrazioni secondo la densità dei mezzi; e con questa eccezione voi venite a turbare il mio concetto; e non poco. Si direbbe veramente che coteste eccezioni non da altro sono buone che da guastare. Dove caschino nel discorso ne sogliono spuntare il frizzante senza mai contentar coloro in grazia de’ quali vengono fatte; e confessate pure che nella filosofia fanno gran torto alla verità, rendendola men generale. - Le eccezioni - io risposi - di questa natura altro non sono, a parlar giustamente, che novelle verità, e provengono dallo scoprimento di più cause, le quali si danno come mano l’una all’altra a produr certi effetti, e vanno di compagnia. Cotesta maggior forza di refrangere, di che, in proporzione della loro densità, sono forniti i mezzi oleosi e infiammabili, nasce dalla relazione, e quasi conformità, ch’essi hanno maggiore degli altri con la luce. La luce opera più efficacemente in quelli coll’agitargli, riscaldargli, e persino coll’accendergli e fargli levare in fiamma; ed eglino all’incontro operano più efficacemente nella luce, divertendola dal suo cammino. Pare assai probabile che in questa faccenda ci abbiano una parte grandissima le parti sulfuree e infiammabili, delle quali sono miniera i corpi tutti, qual più e qual meno. Sapete voi, Madama, che quasi tutti i corpi sono fosfori? voglio dire che, tenuti al sole ed anche al chiarore dell’aria, e poi recati al buio, si veggon quivi luccicare poco o assai: e i diamanti, che tanto prontamente si accendono, e però mostrano di esser pregni di zolfo, hanno di fatto molto maggior lena nel piegar la luce che non comporta la loro densità. - Tutto questo - disse la Marchesa - mi riesce assai nuovo ad udire; e, sopra tutto, che i diamanti tenuti al sole si accendano. Io ho adunque in dito un fosforo, senza saperlo! Mettiamolo al sole, ve ne prego, e faccianne or or la prova. - E così dicendo, si trasse l’anello del dito, e mel diede. - Come è del piacer vostro - io risposi. E fatta bene accecare una stanza vicina alla galleria, dissi alla Marchesa esser mestieri ch’entrasse là dentro, intanto che io teneva il diamante al sole, perché ne’ luoghi scuri, slargandosi a poco a poco la pupilla, gli occhi divengon atti a ricevere una maggior copia di raggi e a sentire dipoi qualunque lume per debole che sia; dove all’incontro ne’ luoghi illuminati la pupilla si ristringe, acciocché dalla soverchia copia di raggi l’occhio non rimanga offeso. Entrò tosto la Marchesa nella stanza ed io dopo di aver tenuto per qualche tempo il diamante al sole che già declinava verso ponente, gliel recai dentro, avvertendola prima, intanto che aprivasi la porta, a dover tener gli occhi ben chiusi; e, non senza gran maraviglia e diletto, ella vide assai vivamente risplendere in quel buio il suo diamante. Rientrati che fummo nella galleria, io ripigliai a dire in tal modo: - Ora voi, Madama, con cotesto vostro anello confermato avete una verità che già discoprì in Bologna una gentil donna. - Forse -diss’ella - la discopritrice ne fu quella filosofessa da voi celebrata in versi. - Nel fu - io risposi - una dama degna di altri versi che de’ miei, e degna di esser conosciuta da voi. Tenera di parto, ella se ne stava in una bella alcova con le cortine del letto ben chiuse, in luogo inaccessibile, come in tal caso è costume, a’ raggi del giorno. Quivi essendo visitata da un dotto medico e gentile per nome Beccari, il domandò un giorno, tosto ch’ e’ si fu posto vicino al letto, che importasse quel lumicino ch’egli avea in mano. Da prima egli non potea comprendere qual cosa potesse dare occasione a una tale domanda; disse che egli non avea altrimenti né lumicino, né altra simile cosa in mano; e forse anche l’assicurò col Petrarca che non era bisogno di lume

là dove il viso di madonna luce.

La dama dal canto suo pur assicurandolo che gli vedea luccicare non so che tra le mani, gli aprì la mente, e gli fece nascere un bel dubbio, se per avventura ciò ch’ella prendeva per un lumicino fosse un anello, ch’egli avea quel giorno in dito. Tocco da’ raggi di fuori dovea forse luccicare come un fosforo in quella oscurità, e facilmente lo vedevano gli occhi della dama, i quali avvezzi per uso a quella oscurità medesima, vi poteano discernere che che sia. E un tal dubbio divenne ben tosto per via d’iterate prove una certezza. Incominciò di quivi il Beccari una lunghissima serie di esperienze, che arricchirono la fisica di quantità di fosfori, mostrando essere chiusa e disseminata ne’ corpi una luce, che soltanto aspetta di essere come accesa da quella di fuori, e risvegliata per risplendere anch’essa. E forse cotesta luce, che più abbonda ne’ mezzi infiammabili, e che hanno più del sulfureo, è la causa della conformità ch’essi hanno maggiore con la luce medesima, e di quella loro più forte azione sopra di lei. Ma dovunque risegga principalmente la virtù del refrangere, quello che parrà incredibile ad ognuno, e che potea mostrare la sola esperienza accompagnata dal più fino ragionamento, si è che il medesimo mezzo, per esempio il vetro, sia dotato di forza attrattiva e di repulsiva. E siccome per l’una refrange i raggi della luce dentro a sé ricevendogli, così gli riflette per l’altra, quasi da sé rigettandogli. - Che cosa è - disse la Marchesa - cotesta nuova forza, che voi chiamate repulsiva? non mi pare, che ancora ne faceste parola. - Questa forza - io risposi - ci è anch’essa mostrata da quella madre prima di ogni nostro sapere, da quella che fu chiamata fonte a’ rivi di nostr’arti: in una parola dalla esperienza: e non di rado la veggiamo esser compagna dell’attrazione. Due pezzi di calamita, secondo che si presentano l’uno all’altro, ora si attraggono ed ora si repellono. L’ambra, il vetro e più altre cose, bene strofinate che sieno, tirano a sé, e poco stante da sé rigettano de’ leggieri corpicciuoli, come minuzzoli di carta, pagliuzze, fiocchetti di bambagia. Nelle operazioni chimiche si manifesta, al pari dell’attrattiva, la virtù repulsiva: ed essa è pur cagione che le evaporazioni, o gli aliti, i quali da un picciolino corpicciuolo, per via del calore o della fermentazione, vengono alzandosi, piglino nell’aria un così gran luogo come fanno, ch’è proprio una maraviglia a vedere. Da che altro può egli avvenire che le particelle della materia, le quali erano prima contenute dentro a uno spazio ristrettissimo, non trovino poi luogo che basti ad espandersi; se ciò non avviene da una virtù, che in esso loro si dispieghi, di repellersi e di allontanarsi tuttavia le une dalle altre? E non solo qui in terra, ma in cielo ancora gli effetti si manifestano di cotesta virtù repulsiva. Ne sono un chiaro indizio quelle immense code, di che si ornano le comete, dopo aver bevuto dappresso i raggi del sole. Quantunque nelle rivoluzioni loro ubbidiscano, come sapete, alle medesime leggi che i pianeti, pure non si rivolgono per orbite quasi circolari, come fan quelli, ma per ovali sommamente bislunghe; di modo che ora si trovano assai vicine al sole, ed ora da esso per grandissimi spazi lontane. Quando gli sono vicine, il calore, che dentro ricevono oltre misura grande, ne fa alzare una quantità di vapori, che dalla forza repulsiva allontanati gli uni dagli altri tengono in cielo sotto sembianza di coda dei tratti grandissimi; talché essa coda apparisce infinitamente maggiore che non è il corpo stesso della cometa donde svapora. Nel mille secento e ottanta andò una cometa vicinissima al sole, e un grado ne concepì di calore senza comparazione più intenso che quello non è di un ferro arroventato. Buona parte di essa sfumò in vapori, talché la coda, onde si rivestì, pigliava in cielo un tratto di ben ottanta milioni di miglia. Tristi a noi, se nel tornare dal sole tale fosse stato il cammino di quella cometa, da dover costeggiare il nostro globo. Tocco da quell’infocamento, sarebbesi in brev’ora abbrustolato, divampato, arso ogni cosa quaggiù. E se pure una falda soltanto di quella sua coda avesse strisciato sopra la terra, saremmo stati picciol tempo dipoi sommersi in un diluvio d’acque; cotal giunta e quasi piena di vapori avrebbe essa recato nella nostr’aria. Ma io non vi voglio, Madama, mettere di simili paure, contro alle quali, se non altro, ne dee far sicuri la brevità della vita. - Iddio ci guardi - disse la Marchesa - da così fatti vicini, e dagli effetti di quella forza repulsiva, che ne gli rende vieppiù terribili e rovinosi. Ma ora mi ritrovo di bel novo tutta smarrita all’udire che ne’ medesimi corpi vi si accoppino due qualità tra loro tanto contrarie, come è l’attrazione con la repulsione. - Qualità forse necessarie - io risposi - perché tali sieno le cose quali realmente sono. Se dominasse soltanto la forza attrattiva, senza che niun’altra imbrigliata la tenesse, già non pare che tra le parti della materia esser vi potessero dei pori o dei vani; ogni cosa andrebbe ad unirsi insieme; in una picciolissima mole ristringerebbesi l’aria, l’acqua e la terra; quanto costituisce e forma questo nostro globo terraqueo si ridurrebbe in una picciola pallottolina, a quella guisa che ridurrebbesi in una massa il sistema solare, se i pianeti, oltre alla forza che hanno di tendere verso il sole, dotati non fossero di quell’altra ancora di allontanarsi per linea diritta da esso. E dal giusto temperamento di tali contrari, o sia dalla discordante concordia delle cose, ne risulta l’ordine e la forma del mondo. Ma come siasi di così fatta speculazione, a voi sembra, Madama, un grande enimma il dire che l’istesso vetro è dotato di virtù attrattiva e di repulsiva; che un corpo si arroghi in certa maniera privilegio dell’uomo di volere a un tempo e di disvolere. Più forte enimma, mi stimo, vi parrà ancora chi dicesse che quelle due forze, che paiono così contrarie, sono in sostanza una sola e medesima forza, che diversamente si dispiega. - Oh Dio, - disse la Marchesa - questo mi riesce sopra ad ogni altra cosa difficile ad intendere. Se tutt’altri che voi mi avesse detto che la forza attrattiva e la repulsiva è tutt’uno, averei creduto sentire quel medico di Molière, secondo cui arrosto e lesso è la medesima cosa. In fine io altro non arrivo ad intendere, se non che il tirare a sé e il discacciare da sé sono due cose contrarie; e naturalmente venir debbono da cause contrarie. - Ed io ripigliai: - Il rivolger a ogni momento gli occhi verso di una persona non è egli contrario a non ve gli rivolger mai? il parlottare continuo con uno a non gli dire mai un parola? e pure simili contrarietà vengono il più delle volte, ben il sapete, dalla medesima causa, che differentemente si spiega. - Oh, questo - disse la Marchesa - è un altro ordine di cose; e non credo già io che con tali argomenti mi vogliate far neutoniana. - Proviamo, - io risposi - se meglio vi persuaderà il dirvi che la virtù attrattiva e la repulsiva ben mostrano essere di una stessa origine, e quasi sorelle, a parlar così, per le analogie o similitudini che si osservano tra loro. Amendue vanno insieme, e sempre che l’una si dispiega con poca o con molta attività, il somigliante fa l’altra. Sino a tanto che i raggi scorrono pel medesimo mezzo, non succede né refrazione né riflessione, né forza attrattiva si manifesta né repulsiva. Così l’una come l’altra accade nel confine di due mezzi tra loro differenti in densità. Quanto più differiscono i mezzi, la refrazione, come sapete, è maggiore; e lo stesso pur avviene della riflessione. Osservate quanto più viva è la immagine di un oggetto ripercossa da uno specchio di vetro che dallo specchio dell’acqua. I raggi che hanno maggior disposizione ad esser refratti, hannola altresì maggiore ad esser riflessi. A riflettere gli azzurri, che refrangono più facilmente dei rossi, basta nelle particelle della materia una sottigliezza che non è valente a riflettere i medesimi rossi; e i raggi più refrangibili, come ben vi dee ricordare, sono anche più riflessibili. Sono questi, Madama, bastanti argomenti, per farvi anche in questa parte divenir neutoniana? - Molto - riprese a dir la Marchesa - è da ammirare la sottigliezza e, insieme, la precisione di un tal discorso. Pur nondimeno, a parlarvi liberamente, a me sembrava assai più naturale attribuire la causa della riflessione non a quella forza repulsiva che dite ora, ma al dare che fa la luce, secondo che pur diceste, nelle parti solide de’ corpi, donde è rimandata indietro, come una palla che dà in terra. Ciò è pur facile ad intendersi, e naturale ad avvenire. - Ed io ripresi in tal modo: - Madama, io usai allora il linguaggio de’ filosofi volgari per condiscendere al nostro immaginare. Ma sapete voi quale inconveniente dovrebbe nascere, essendo vero ciò che par tanto naturale? E’ non ci sarebbe specchi al mondo, non ci sarebbe cosa che ne potesse presentare la nostra immagine. - Oh questo sì, - disse la Marchesa mezzo sorridendo - che ci tocca nel vivo. - Perché possiate vedervi - io seguitai - dentro allo specchio, conviene che i raggi, come già avete inteso, i quali dal vostro volto vanno a esso specchio, se ne ritornino a voi con la stessa stessissima inclinazione con cui vi andarono, senza che dalla riflessione sieno turbati per niente, o disordinati in qualunque modo si sia. Ora, quando ciò avesse da avvenire in virtù dei raggi riflessi dalle particelle componenti la superficie dello specchio, sarebbe necessario, non è dubbio, che la superficie tutta si fosse perfettamente liscia e pulita; altrimenti, se vi ha delle asprezze, delle ineguaglianze qua e là, che vale a dire se le parti della superficie formano come altrettanti rialti, o piani variamente inclinati, i raggi riflessi non potranno più dirigersi verso il medesimo luogo; ma, seguendo appunto la inclinazione di ciascuno di que’ piccioli piani, verranno sparpagliati da ogni parte, né potran rendere la immagine dell’oggetto che loro si affaccia. - E gli specchi - disse la Marchesa - non sono eglino così puliti, come voi dite che hanno da essere? - No certamente - io risposi - e con effetto se voi guardaste col microscopio le superficie di quelli, le vedreste scabrose ed aspre, non altrimenti che all’occhio nudo è lo specchio delle acque, quando sono increspate dal vento. Considerate ora da per voi, Madama, con qual disordine sarebbe dagli stessi specchi riflesso il lume, quando venisse riflesso dalle particelle della superficie, e non da una forza che muove e risulta dal totale del corpo; e in paragone di questa le piccioline forze di esse particelle, le quali, quanto è in loro, pur vorrebbono gettare i raggi per ogni verso, si rimangono affatto insensibili. - Ma voi - soggiunse la Marchesa - mi fate forse più paura che non merita il pericolo. Coteste scabrosità, benché ingrandite dal microscopio, pur sono in sé picciolissime. E se son tali, come si può egli venire in chiaro che nelle particelle della luce debbano partorire di così gran disordini? - Le scabrosità degli specchi - io ripigliai - ci si rendono quasi palpabili per mezzo degli microscopi; ma non già le particelle della luce: e da ciò si può arguire la incredibile loro picciolezza, che per quanto vengano ingrandite anch’esse da quegli ordigni, pure isfuggono la nostra vista, e ci rimangono del tutto invisibili. Anzi tanto è lontano, Madama, ch’elle cader ne possano sotto i sensi, che fate pure di provvedervi del più valente microscopio e armatevene l’occhio, e i pori di cotesto vostro diamante, pe’ quali passa la luce in grandissima copia, vi rimarranno anch’essi invisibili. Che più? Le particelle della luce sono verso le scabrosità degli specchi come altrettante pallottole di bigliardo, che dessero contro a cotesti nostri altissimi monti. E buon per noi che sieno più che minutissime. La forza de’ corpi risulta dalla quantità di materia che contengono in sé, o sia dalla massa e dal velocità con cui muovono; talché un granello di piombo può aver forza di fare altrui un mal gioco per la velocità soltanto, che gli dà la polvere d’archibuso da cui è spinto. Ora le particelle della luce sono spinte con tale incredibile velocità,

che ’l muover suo nessun volar pareggia.

Secondo la bella scoperta di un danese per nome Romero, in un mezzo quarto d’ora, e non più, viene da esse corso lo spazio di quasi cento milioni di miglia nel venire dal sole alla terra. Vedete i più bravi corsieri d’Inghilterra, che in un minuto hanno già fatto un miglio, essere al paragone più tardi che testuggini. Poiché adunque tale e tanta è la loro velocità, convien dire che la massa di ciascuna sia quasi che infinitamente picciola: altrimenti la luce scagliata dal sole menerebbe qui in terra la rovina del cannone, anzi che drizzare e aprire i fioretti nel loro stelo, anzi che sviluppare, come fa, e muovere soavemente ogni cosa. - Piacemi - disse la Marchesa - non avervi prestato fede così di leggieri. Egli è pure la buona regola in qualunque sia incontro a non si mostrar troppo corrive a credere. Si vengono ad avere in tal modo delle maggiori prove di ciò che è vero, o di ciò che si desidera lo sia. Ed ora molto buon grado debbo sapere a voi, che rispondendo alle tante mie domande, fate che il dubitare non meno mi giovi che il sapere. - Ed io risposi: - Non ad altri che a voi medesima ne dovete aver grado, Madama, che sapete muover que’ dubbi, che conducono alla verità. - La verità è adunque - disse la Marchesa, fatto un po’ di pausa - che la luce è rimandata da’ corpi, non già dopo avere in essi percosso, ma prima ch’ella giunga a toccarne la superficie. Strana cosa ad udire! Non bastava adunque che si mostrasse la vanità di quanto avea detto il Cartesio, che pur pareva tanto naturale, sulla causa del moto dei pianeti, sulla origine della luce e de’ colori, che si dovea anche smentirlo sulla riflessione della luce, che pareva la più natural cosa di tutte. Altro non manca se non dire che siccome la luce, che riflessa è da’ corpi, non urta contro alle parti solide di quelli, così la luce, che dai corpi è trasmessa, non passa altrimenti per i loro pori. - Io già non sono - risposi allora - per negare al Cartesio così risolutamente anche tal cosa; ma dirò bene, che la esperienza dimostra, sapete che bisogna star con lei,

che alla trasparenza non fa nulla la quantità o l’ampiezza de’ pori. Anzi un foglio di carta imbevuto che sia d’acqua, o inzuppato d’olio, si fa tosto diafano e traspare; che vuol dire turate i pori della carta, e al lume aprirete la via. - Da che nasce mai questo? ripigliò ella - che quanto chiara è la prova, altrettanto m’immagino, ne sarà oscura e misteriosa la causa. - Non da altro, - io risposi tosto - che dalla uniformità o similitudine tra la densità della materia nuovamente intrusa ne’ pori della carta e la carta medesima; la quale uniformità non trovavasi, quando i pori della carta erano pieni d’aria. Così dalle particelle dell’olio o dell’acqua trapassano liberamente i raggi in quelle della carta, quasi durassero a andare per lo medesimo mezzo, o trapassassero da vetro a vetro, quando l’uno combacia perfettamente l’altro. Dove al contrario, se il lume nel traversare un corpo trova ad ogni instante per la diversità della materia dove riflettere e dove refrangere, molti raggi tornano indietro, molti altri se ne sperdono, e pochi o niuni ne passan oltre. Né già per altra causa lo sciampagna di trasparente diventa opaco, quando mesciuto d’alto si leva in ischiuma; che tanto è a dire, quando tra le sue particelle ad intruder si viene maggior copia d’aria. - Non picciolo è l’onore - disse qui la Marchesa - che voi fate allo sciampagna, facendolo servir di prova alle più recondite verità della filosofia inglese; esso, che sino ad ora ebbe soltanto virtù di spirare di bei motti e delle canzonette all’allegria de’ Francesi. - Vedete ancora - io soggiunsi - verità, che si contiene entro alla schiuma di quel vino: una prova certissima che lo spazio immenso, per cui muovono i pianeti, è voto di qualunque materia per quantunque rara e porosa finger mai si potesse; un argomento per render più libere e spedite le vie del cielo. La luce, non ostante quella sua incredibile velocità, che non è da noi lo immaginarla, ci mette a venire dalle stelle sino a noi un tempo considerabilissimo; tanto ne sono elleno per uno strabocchevole e quasi che infinito spazio lontane. Ora se la luce, nel venir dalle stelle a noi, scontrasse qua e là in quel lunghissimo suo viaggio delle particelle di materia, che nuotassero in cielo, dovrebbe infiacchirsi, venir meno di mano in mano, come il più numeroso e fiorito esercito, che per li continui disagi del cammino vien meno, e si disfà in una lunghissima marcia. Ma che dico venir meno? egualmente che faccia nel tragittar la schiuma dello sciampagna, dovrebbe sperdersi del tutto, ed ispegnersi a cagione di quelle tante riflessioni e refrazioni senza fine, che avrebbe a patire; ed a noi sarebbe tolta la vista di quelle innumerabili stelle, che col scintillare e col brio della lor luce ne rallegran le notti. - Ed ecco - disse la Marchesa - anche per questa novella prova, sgombrato il cielo di qualunque cosa al libero corso de’ pianeti recar potesse impedimento od ostacolo. In fatti non hanno essi a trovare per via se non l’attrazione che gli governa, e la luce che gl’illumina, gli seconda, gli vivifica: la luce, che al suo apparire mette da per tutto vigoria e letizia, e in sé contiene gli smeraldi, i rubini e i zaffiri, di che la natura colora e arricchisce l’universo. - A tante, e così nobili scoperte, - io ripresi a dire dopo alcuna pausa - che di tanto hanno avanzato la scienza dell’ottica, il Neutono aggiunse molte curiose quistioni, quasi proponendole all’esame de’ più sottili filosofi: tra le altre, se la differente refrangibilità originata non sia per avventura dalla differente grandezza de’ corpicciuoli, onde composti sono i raggi della luce. Non si direbbe egli che i più piccioli corpicciuoli di tutti debbono esser quelli, che il color violato ne mostrano il meno forte di tutti, e che più degli altri refrangendo, meno anche resiste all’attrazione dei mezzi? Più forti del color violato, ed anche meno refrangibili si trovano essere di mano in mano l’azzurro, il verde e il giallo: e però i loro corpicciuoli saranno più grandicelli di mano in mano; sino a tanto che si arrivi al rosso, il quale essendo il colore di tutti gli altri il più acceso, e insieme il meno refrangibile, dovrà essere ancora di corpicciuoli di tutti gli altri più grandicelli formato. Tali cose egli non ardisce asserire, per verisimili che paiano; e proponendole sotto forma di domanda, egli ne insegna quello che è da pochissimi: a saper dubitare. - Raro veramente - qui entrò a dir la Marchesa - convien confessare che fosse un tal uomo. Non volle attribuire più che non si convenisse a quello che ha soltanto sembianza di vero; non volle punto abusare dell’autorità sua; e quello e non altro affermò, che può far buono con la dimostrazione. Quanto onore non dee egli fare alla specie filosofica! E ben pare la natura il formasse di un altro conio che gli altri uomini. - A segno - io risposi - che un Francese celebre per la sua dottrina era solito domandare a coloro che lo aveano veduto et udito, se era pur vero che avesse anch’egli le mani, e i piedi, una persona, come l’abbiam noi. Quello poi in che sommamente differiva dagli altri uomini era una rara e singolare modestia. Richiesto un tratto per quali vie fosse giunto a discuoprire tante e tanto ammirabili cose, rispose non aver fatto se non quello che fatto avrebbe tutt’altr’uomo datosi a pensare con pazienza. Lontano dal volere imprendere guerre letterarie, cercando insieme con la verità la quiete dell’animo, cosa, diceva egli, veramente sostanziale; i più bei frutti del suo ingegno lasciavagli nell’oscurità, non curando di manifestarsi e di rivelare ciò ch’egli era. L’Hallejo, grande astronomo e amico di lui, viste per ventura quelle maravigliose discoperte, che troppo lungo tempo erano rimase nascoste, lo sforzò a pubblicarle; ed ei si vantava di essere stato l’Ulisse, egli che, tratto quello Achille dall’ombra, lo avea collocato nella luce aperta del sole. Appena si mostrò in pubblico che si levò tra quei pochi, a’ quali era dato d’intenderlo, un grido di applauso, che risuonò di mano in mano tra ogni schiera di gente; e ben presto ebbe del suo nome ripieno il mondo; e il Neutono, quasi suo mal grado, godé vivente, e in grembo della sua patria, di quella gloria di che gli uomini grandi godono solamente appresso le nazioni forestiere mentre vivono, e appresso i loro compatrioti dopo morte. Ma ben era il dovere che in singolar maniera esaltato venisse colui il quale avea recato l’uman genere a quell’ultimo grado di sapere, a cui gli è forse dato di giugnere. Che se noi non ne sappiamo più là, non è colpa del Neutono, ma della picciola portata del nostro ingegno, o piuttosto del poco numero di sensi onde fornito è l’uomo. Sono essi quasi le porte per cui entra nell’anima ogni nostro sapere: e se di alcuno altro senso, oltre a quelli che ne sono caduti in sorte, ne fosse stata cortese la natura, di nuove cognizioni saremmo venuti acquistando senza dubbio, di nuove qualità avremmo scoperte ne’ corpi, le quali un novello lume ci recherebbono nelle oscurità della filosofia. - Sembra però - disse la Marchesa - che sendo noi arrivati a conoscer così addentro nelle più fine tessiture della luce, e ne’ globi lontanissimi dei pianeti, sembra, - dissi - che il raziocinio del Neutono abbia supplito in certa maniera a’ sensi, che mancar potrebbono all’uomo. - Pur chi sa, - io risposi mezzo sorridendo - se in Giove non ci abbia viventi, che, per via di sensi a noi ignoti, veggano distintamente ciò che costituisce la varietà del colore ne’ minimi corpicciuoli che scaturiscono dal sole; e non veggano ancora in qual maniera il loro globo per mezzo all’ampiezza del voto attragga quello di Saturno, e ne turbi il movimento; più perspicaci, e lincei che i nostri filosofi non sono? - Molto felice - disse qui la Marchesa - sarebbe la loro condizione; e un idiota di Giove potrebbe esser collocato alla testa delle più famose università e accademie della terra. Ma forse voi fate come quei viaggiatori, che vanno tanto magnificando le virtù di certi popoli del nuovo mondo, che ce gli farebbono credere più che uomini, e non sono altro in sostanza che selvaggi. - Non per tutto questo, - io risposi - noi avremmo da portare invidia agli abitanti di Giove. Si potria dare che vedessero meglio di noi che cosa sono in se stessi i colori, ma non ne godessero come noi, quando misti gli vediamo su una bella guancia; e se più distintamente di noi conoscono le attrazioni del cielo, forse quelle più dolci della terra non sono da essi così vivamente sentite come da noi. Se si ha a dar fede al piacevole storico di quei mondi, in quel pianeta, dove non sono rattristati da Marte, non han però Venere che gli consoli: e in ogni cosa ci sono dei compensi; e ben noi saremmo i male accorti a volerci sopra i nostri difetti tormentar l’ingegno, e pigliar malinconia. Non ci mancheranno né piaceri, né cognizioni, se dei sensi, che ne sono toccati in sorte, faremo quell’uso che si conviene. E già voi, Madama, ne sapete assai più che, al dire di molti, non è mestieri a una dama; voi che sopra un versetto, sopra una luce settemplice avete pur voluto un comento, che bastar potrebbe a un poema sulla filosofia neutoniana. - Come, - disse mezzo sorridendo la Marchesa - potrei io dunque credere di saperne tanto da esser anch’io del bel numero de’ seguaci del gran Neutono? - E come no? - io risposi. - Voi avete animosamente affrontato le difficoltà di quella filosofia; avete per essa rinunziato a quel sistema, che tanto vi rideva alla fantasia; avete vinto in certo modo la vostra fantasia medesima, che parea ripugnare ad alcune più astruse verità. Debbo io dirvi, Madama, che non siete da meno degli Argonauti, che, lasciato quanto aveano di più caro, si avventurarono per un mare ignoto e a domare impresero tanti mostri, per fare il conquisto del famoso vello d’oro? - Parlando fuor di burla, - soggiunse la Marchesa - io non avrei creduto mai di divenire tanto dotta da dovere istudiarmi a parere ignorante dinanzi alle persone: che pur troppo dagli uomini è alle donne messa in conto di delitto ogni minima ombra di sapere. - E se si avesse un giorno - io ripigliai - da far palese al pubblico cotesto vostro sapere? - Vorreste voi forse - diss’ella - farmi un mal giuoco, rivelando, che io vi abbia richiesto di quello, che meno a donna si conveniva? - Chi sa, - io risposi - Madama, se io non mi proverò anche un giorno a scriver la storia di questa nostra villeggiatura. E sol che mi venisse fatto di ritrarvi al naturale, non mancherebbono, son certo, lettori alla mia storia, né seguaci alla filosofia del Neutono. In ogni modo, Madama, voi sareste la Venere, che presterebbe il cinto a quella austera Minerva; ed ella si mostrerebbe alle genti non meno leggiadra che dotta.