Discorsi della Società Nazionale per la Confederazione Italiana/Tecchio
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DELLA CONFEDERAZIONE ITALIANA
NELLE SUE ATTINENZE MILITARI.
DISCORSO
DELL’AVV. SEBASTIANO TECCHIO
DEPUTATO DI VICENZA
È breve il tempo, forse non è ancora un anno, che gli Italiani osarono nel collegio de’ popoli, sul viso de’ Principi, a dispetto del comune nimico, osarono pronunciare due nomi: Libertà e Independenza.
I due nomi, ne’ quali si appunta il diritto e l’orgoglio del Cittadino e della Nazione, parevano insino a quell’ora suggellati nel mistero de’ cuori.
Non dico che verso le sacre idee, da que’ nomi esplicate, mancasse la religione e la fede. Ma i sacerdoti andavano peregrini; e frattanto la luce, dinanzi all’altare, era muta, quasi lampana nel sepolcro.
Voi chiedeste libertà. Il grido solenne, levato sui margini della Dora, ripetuto dall’Arno e dal Tebro, ripetuto ai due lati del Faro, condusse nella maggior parte d’Italia e larghezze e miglioranze civili, le quali, comecché a libertà non raggiungano, certamente a quella si accostano.
Alle pacifiche vostre vittorie non a torto invidiarono la Lombardia, la Venezia, e Modena e Parma e Piacenza. Le quali Provincie (da oltre a 33 anni schiave dello straniero, o dei signorotti dallo straniero medesimo sovrastati) sognarono innanzi tutto di libertà: ma poco stante s’avvidero che l’Austriaco o non l’avrebbe conceduta mai, o non appena conceduta avrebbela rotta e frodata.Per lo che fu bisogno, alzate le fronti, acclamare la Indipendenza; e sulle squille della battaglia intuonare una volta la cacciata del barbaro.
Tutta Italia sentì quell’inno sin dentro alle viscere; quasi come a miracolo, si rizzò sovra i piedi: trasse le spade: giurò che le spade non tornerebbero nelle guaine fino a che dall’intiero paese, che si appoggia sull’Alpe e si specchia nel mare, non fossero i teutoni sgomberati.
Voi, primi d’ogni altro, o generosi Subalpini, correste oltre al Ticino: e il lampo de’ vostri manipoli bastò esso solo a volgere in fuga le belve nemiche, a ridurle tra il Mincio e l’Adige ne’ preparati covili. Voi seguitava, calata dagli Apennini, qualche falange di Toscani, che sì pietosa fama di sè doveano lasciare sui campi gloriosi di Montanara e di Curtatone. Intanto, varcato il Po, alcune legioni di Pontificii per ben due mesi tennero in rispetto il nimico nel Trivigiano e nel Vicentino. E quel Re, che oggi non potrei nominare senza ribrezzo, conobbe egli stesso per un istante il debito di soccorrere la causa italica con alquanti mille de’ suoi soldati — cui richiamava sì presto ahi! perché bevessero il sangue de’ propri loro fratelli.
Nel quale spontaneo e subitano commovimento di tutte parti della penisola parmi vedere la prova irrefragabile che tuttesse, eziandio le meno infelici, confessavano questo vero: Non potere in alcun luogo d’Italia durare a pezza la libertà quando lo straniero, mandato a confine, non abbia dovuto lasciarci possedere in proprio la independenza.
E chi, se Dio mi aiuti, non ci starebbe a pagatore di questo vero, ov’egli ponga mente alle condizioni, all’indole, all’abito dell’Impero Austriaco?
Codesto Impero, piuttosto che somigliare a reggimento di una Nazione, rappresenta la congerie di molti popoli, l’uno dall’altro diseguali e discordi, L’Austria, la Stiria, lo Illirico, il Tirolo, la Boemia, la Moravia e la Silesia, la Gallizia, l’Ungheria, la Transilvania, la Dalmazia, il Lombardo-Veneto sono altrettanti paesi, nella più de’ quali diversificano e la origine e la lingua e i costumi e le inclinazioni e le istorie; altrettanti paesi, la più de’ quali, anziché comportare la soggezione all’Impero, studiano e si adoperano a racquistare per singolo l’autonomia; altrettanti paesi, i quali per antiche memorie, e per gelosie di vecchi privilegi e di nuovi, a vicenda bruciano di odj palesi, o segrete ruggini covano.
Vincolo nessuno di amore tra que’ paesi: ciascuno guarda a sé medesimo come individuo, senza badare che il suo bene non riesca a sciagura degli altri: tutti, o la più, rodono il freno che li costringe, e dispettano la mano che mostra loro lo scettro.
Di che consegue la indeclinabile necessità che l’Imperatore, ove pure nol bramasse per rigidezza dell’animo, abbia a mantenersi per ragione di stato despota, assoluto, e tiranno.
Certo (a non parlare di tempi remoti) non vi è caduto della memoria come i Galliziani, tre anni addietro, sorgessero a rincontro dell’autorità imperiale: non vi è caduto della memoria come, al principio della nostra riscossa, volessero scappar di guinzaglio e Trento e Trieste e Zara e Ragusa; come, or fa pochi mesi, Praga rifiutasse chinare il capo se non di sotto alle bombe che la fulminavano: ed oggi medesimo gli Ungheri, non abbastanza impauriti delle orde guidate dal Bano, spodestano il Re che li inganna, e si governano a popolo.
Bene è vero che a cessar la tempesta l’Austriaco si faceva, nel marzo, promettitore di liberali riformagioni: ma nessuno potea dargli fede: e Vienna stessa, la reggia de’ Cesari, ad ogni tratto paventa che le concessioni del marzo non le siano ghermite, e il Monarca non si chiuda di nuovo nella clamide redata dal padre. —
Ora, appunto perché l’Austriaco mal saprebbe tenersi a dilungo sul trono quando non ribadisse a’ suoi sudditi i chiovi ed i ceppi, trovati già dal primo Francesco e cresimati nell’aula; troppo è chiaro, importargli assaissimo che i Principi italiani sì vicini alle terre Lombardo-Venete, al Tirolo, all’Illiria, si mettano nella stessa sua via; ammorzino ogni sospiro di libertade; di nebbie circondino gli intelletti; nieghino ai cittadini ogni esercizio delle armi, ogni voto nelle cose pubbliche; ristampino le sue leggi di sangue; e (lui mecenate e maestro) ascondano nelle tenebre i procedimenti loro e i giudizi.
Ei non vergognava di buccinare che libertà è contagiosa, e stultizia il desiderio delle costituzioni: confidava che il suo popolo si addormirebbe fra le catene, sol che le avesse comuni con altri: e nel giorno, che queste in alcuna parte d’Italia cadessero al suolo spezzate, intravedeva che al grande frastuono il suo popolo come un forte inebbriato si sveglierebbe.
Di qua è che nel nefasto negozio del 1815 stipulava a sé solo il diritto di guernire de’ suoi e Piacenza e Ferrara e Comacchio. Di qua è che gli cuoce sì fieramente nell’animo il non potersi frammettere nella vostra Alessandria. Di qua è che quandunque o Piemonte, o Napoli, o Modena, o le Romagne instarono alcuni benefizi dai loro Principi, ei mandò gli sgherani e i gregari a soffocare le voci moleste. Di qua è che nel Modanese venne tutore ed auspice alle immanità del Duca: a Firenze strinse di gelo la mente a Leopoldo, che parea meditare pel popolo qualche franchigia: nel Vaticano educò ad ogni durezza di cuore il decimosesto Gregorio: a Cosenza volle ricise le giovanili teste che aveano ardito sperare anzi tempo la nostra redenzione: e nei giorni a noi prossimi chiuse la mano all’unto d’Iddio, sì che più non rinnovi lo scandalo del benedire all’Italia! —
Queste cose, o Signori, e le moltissime, che in vero studio io trapasso, queste ho voluto toccare perché in ogni anima alla perfine, e nei marmi delle contrade, e sulle porte non ch’altro dei nostri templi, si scolpisca la tremenda sentenza, Che l’Austriaco, sino a quando ei calchi zolla di terreno alla destra dell’Isonzo, non è il padron solamente di quella zolla, ma di tutta la penisola è l’arbitro e l’oppressore.Le quali cose mi aprono dirittamente il cammino a pronunciare, Che noi zelatori di libertà, e per ciò stesso bisognosi di independenza, dobbiamo studiar modo potente, non che a sgominare il nimico nella guerra attuale, a sbandeggiarlo per sempre dalla magnifica cerchia che il dito della Natura ha per noi designata. —
Questo spediente, o Signori, altri vel pose dinanzi. Federate l’Italia: ragunate nell’Italia l’esercito federale. —
Non io presumo decidere se nella urgenza delle presenti necessitadi, — quando a spoltrire Roma e Firenze non sono ancora bastate le grida di Bologna e Livorno, chiedenti ai governi che provvedessero aiuti alla nostra guerra, — quando i cannoni di Napoli, anzichè sieno aggiustati di fronte all’Austriaco, sfolgorano la eroica Messina e minacciano la invitta Palermo; — non io presumo decidere se le armi di Carlo Alberto, poco meno che sole al cimento, abbiano virtù da purgare la terra che geme sotto la scure barbarica. Forse alquanto ne giova il nembo addensatosi sulla Lamagna; e, fermamente, la impresa sarebbeci guarentita se i nostri vicini d’oltre Pirene scendessero a liberare la fede altra volta giurata sui campi italici; scendessero a combattere nelle nostre schiere, come i nostri soldati pugnarono sotto i vessilli di Napoleone.
Ma, o sia che i soldati del Re vincano questa guerra per lo solo loro valore, o coll’aiuto d’altrui; potremmo noi riposarci sui còlti allori? o non avremmo piuttosto a temere ogni dì che il nimico, ristorate le sue ferite, non ritenti ancora il conquisto delle nostre regioni?
Per dileguare sì acerbo timore occorrerebbe, la prima cosa, pregare a Dio che transformi la Italia, e ce la torni men bella. Ma questa preghiera non muoveremo giammai. — Oh resti bella la Italia: bella del sorriso del suo cielo, delle sue ubertose pianure, dei colli che la ingemmano, de’ mari che la baciano: bella delle irte sue torri, dei magni suoi monumenti, e delle sue mille città: bella dello splendore de’ suoi figliuoli, e della gentilezza delle sue donne: bella dell’armonia di questa lingua divina, che Latini ci prenunziarono, e il secolo di Dante informò. Resti bella! ma pensi che le bisogna esser forte: e cerchi la forza nella federazione, che tutti congiunge, e congiungendo multiplica i nervi della milizia. —
Certamente, lunghesso il confine di Francia, ci protegge il colosso delle Alpi: ci proteggono le sapienti opere dell’arte che voi, o Subalpini, aggiungeste alle ardite creazioni della natura.
Rispetto al confine Elvetico, ci protegge essa dessa la Svizzera; la quale, siccome independente e neutrale, non potrebbe sofferire che altri corresse il suo territorio per osteggiare la Italia, e nel pericolo chiamerebbe i nostri prodi a difesa.
Ma terminata la linea Elvetica, la catena delle Alpi vie vie digrada, intantochè nel Friuli lascia libero il varco alla foga de’ barbari che troppe volte convennero alle rapine.
Colà dunque, se vive carità della patria, colà dirizzate lo sguardo, o Italiani: e senza più dare orecchio a cui ricanta che le Alpi assai vi schermiscono dalla rabbia tedesca, agguerritevi alla perfine!
Oggi la guerra è divenuta una scienza: oggi le strade, che solcano per ogni dove e le valli e gli altipiani e insino ai fianchi delle montagne, raro è che permettano alla prodezza sopperire al difetto del numero: oggi i trionfi, che in altre età e in altre terre guadagnavano le guerriglie, a buono e grande esercito paiono riserbati.
Nè l’esercito giudicheremo buono, nè grande, quando ciascuna massa, nella sua specie, non raggiunga la perfezione: nè perfette le masse, se la medesimezza dell’ordinamento non acconsenta che sia uno il comando, e facile il computo del terreno. —
E qui per appunto ravviso i vantaggi che della milizia d’Italia confederata ci è dato promettere.
Imperocchè, posta una legge comune, e studiate le singolari bontà che ne’ vari paesi italici variamente sono distribuite, ci vedremo tralle mani il quanto fa di mestieri a stabilire tale un esercito ed un’armata da mandarne vinto e scornato qualunque invasore.
In tutte le nostre terre del nord ci crescono i fanti: corrono i cavalieri dall’Italia meridionale: bersaglieri ed artiglieri, emuli ai bravi di Scozia, troviamo a josa negli Apennini, nelle cataste napolitane, e negli altri monti, nei quali l’uomo sortisce robusta la tempera, e l’occhio acuto si avvezza a far saggio delle distanze.
Or chiedi al mare il tributo. — Brulicano i marini sovr’esso l’enorme confine del nostro continente, e nel golfi che vantaggiano i nostri commerci. Di porti da guerra siam forniti a siffatta dovizia che ci mette innanzi ai Francesi, e ne pareggia ai Britanni: dico sovra tutti e Siracusa, e Napoli, e Ancona, e la Spezia, e Genova, e vorrei dire (se del grande affetto non mi tremasse la voce) vorrei dire Venezia.
Nè punto ci vengono meno i materiali da costruire e arredare i navigli. - Le bocche e le valli del Po sono opìme di canape: Agordo ci offre il rame: il ferro è largito dall’Elba; i pini dai boschi veneti e dalla Sardegna: e voi ben vel sapete, o Genovesi; voi che, usati alla dura scuola delle pescagioni marittime, quasi soli lottate coi ghiacci australi nei viaggi antartici del Perù e del Chilì. —
Da ultimo: rimane a vedere se l’erario della Confederazione valga a sopportare lo spendio delle truppe di terra e di mare che abbiam divisate.
Nel quale proposito sarebbe sufficiente avvertire Che la uniformità del governo militare aumenta la forza; e che di quanto la forza si aumenta per quella uniformità, di tanto può essere scemato il numero, e quinci il costo delle milizie.
Senza che: vi pare egli lecito il credere che l’Italia confederata, e ferma nel sistema doganale di che altri molto saviamente tenne discorso, — vi pare egli lecito il suspicare che l’Italia patirà penuria de’ danari che allo erario militare vogliono essere destinati?
Nelle Puglie, nella Sicilia, nel Piacentino, nel Milanese, nel Lodigiano, e in quel di Vicenza, di Padova e di Rovigo sovrabbondano i cereali; Genova, Torino, Chambéry, Firenze, Bologna, Napoli fioriscono di profittevoli industrie. Il territorio Lombardo-Veneto guadagna ogni anno dall’estero, per solo le sue sete greggie, più che 80 milioni di lire. Famosi gli zolfi di Girgenti e di Caltassinéta; i sali di Barletta e di Manfredonia; i lagoni di acido borico in Volterra e in Portoferrajo..... No che all’Italia, gremita di tante ricchezze, non difetterà la pecunia che basti all’esercito, basti alla flotta, basti alle linee strategiche ed alle piazze, la mercè delle quali è tempo oramai che questa patria sì caramente diletta assecuri i suoi lari, la sua vita politica, la independenza, la libertà. —
Intanto: sappia l’Austriaco che i nostri petti non sono dissimili dalle mura di Sparta: sappia l’Europa che dalle ceneri delle nostre città la Italia confederata trarrebbe scintille di vastissimo incendio: ricordi l’Europa che le Aquile Latine, spiccato ch’ebbero il volo dal Campidoglio, non raccolsero le ali se non alla estremità della terra.