Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1824)/Libro primo/Capitolo 4

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CAPITOLO IV


Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella Repubblica.


Io non voglio mancare di discorrere sopra questi tumulti che furono in Roma dalla morte dei Tarquinj alla creazione de’ Tribuni; e di poi alcune altre cose contro la opinione di molti, che dicono, Roma essere stata una Repubblica tumultuaria, e piena di tanta confusione, che se la buona fortuna e la virtù militare non avesse supplito a’ loro difetti, sarebbe stata inferiore ad ogni altra Repubblica. Io non posso negare, che la fortuna e la milizia non fussero cagioni dell’Imperio romano; ma e’ mi pare bene, che costoro non si avveggano, che dove è buona milizia conviene che sia buono ordine, e rade volte anco occorre, che non vi sia buona fortuna. Ma vegniamo agli altri particolari di quella città. Io dico, che coloro che dannano i tumulti tra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima cagione di tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che non considerino, come e’ sono in ogni Repubblica duoi umori diversi, quello del Popolo, e quello de’ Grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascono dalla disunione [p. 27 modifica]disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguìto in Roma; perchè da’ Tarquinj ai Gracchi, che furono più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio, e radissime sangue. Nè si possono pertanto giudicare questi tumulti nocivi, nè una Repubblica divisa, che in tanto tempo per le sue differenze non mandò in esilio più che otto o dieci cittadini, e ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora condannò in danari. Nè si può chiamare in alcun modo con ragione una Repubblica inordinata, dove siano tanti esempj di virtù, perchè li buoni esempj nascono dalla buona educazione, la buona educazione dalle buone leggi, e le buone leggi da quelli tumulti, che molti inconsideratamente dannano; perchè chi esaminerà bene il fine di essi, non troverà che egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del comune bene, ma leggi ed ordini in benefizio della pubblica libertà. E se alcuno dicesse: i modi erano straordinarj, e quasi efferati, vedere il Popolo insieme gridare contra il Senato, il Senato contra il Popolo, correre tumultuariamente per le strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la Plebe di Roma, le quali tutte cose spaventano, non che altro, chi legge; dico come ogni città debbe avere i suoi modi, con i quali il Popolo possa sfogare l’ambizione sua, e massime quelle cittadi, che nelle cose importanti si vogliono valere del Popolo; tra le quali la città di Roma aveva questo modo, che quando quel Popolo [p. 28 modifica]voleva ottenere una legge, o e’ faceva alcuna delle predette cose, o e’ non voleva dare il nome per andare alla guerra, tanto che a placarlo bisognava in qualche parte soddisfargli. E i desiderj de’ Popoli liberi, rade volte sono perniziosi alla libertà, perchè e’ nascono o da essere oppressi, o da suspizione d’avere a essere oppressi. E quando queste opinioni fussero false, e’ vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene, che orando dimostri loro, come e’ s’ingannano; e li popoli, come dice Tullio, benchè siano ignoranti, sono capaci della verità, e facilmente cedono, quando da uomo degno di fede è detto loro il vero. Debbesi adunque più parcamente biasimare il Governo romano, e considerare che tanti buoni effetti, quanti uscivano di quella Repubblica, non erano causati se non da ottime cagioni. E se i tumulti furono cagione della creazione de’ Tribuni, meritano somma laude; perchè oltre al dare la parte sua all’amministrazione popolare, furono constituiti per guardia della Libertà romana, come nel seguente capitolo si mostrerà.