Donne illustri/Donne illustri/Madama de Girardin
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MADAMA DE GIRARDIN
uello che piace e seduce in madama Émile de Girardin si è ch’ella non uscì mai dal costume e dal fare della donna. Ella non si tagliò i capelli, non si vestì da uomo, non fumò, non cercò gli scandali: ella non affettò, d’altra parte, austerità di vita, o serietà pedantesca di scienza; come nelle sue lettere, scritte sotto il nome di visconte di Launay, ella mescolò le profonde osservazioni, le argute critiche, e le notizie della moda; così nella vita ella accoppiò gli studii e la gloria della poesia e la graziosa disinvoltura delle piacevoli conversazioni, l’eleganza degli abbigliamenti, e la cura di quelle frivolezze squisite che sono fregio e grazia al bel sesso. Nel suo salone ella si mostrava atta ad intendere
i discorsi più ingegnosi di Lamartine e di Hugo, e a competere in fatto di gusto con le più capricciose signore. — Ella era bellissima, e questa è forse la principal ragione di quella sua femineità, che si suol perdere tra la polvere dei libri, nell’aer greve dei circoli dei riformisti o nell’abbandono delle passioni colpevoli. La donna non cerca di trasformarsi se non quando le doti naturali non rispondono ai suoi aneliti di fare spicco e di signoreggiare gli animi. — La Girardin, ricca d’ingegno e di avvenenza, non avea che a restare nella sua naturalezza e spontaneità per essere riconosciuta e salutata regina.
Ella nacque nel 18o5 a Aix-la-Chapelle da Sofia Gay, poetessa di qualche nome. Delfina, così si chiamò, eredò da lei l’ingegno poetico, ma cresciuto a mille doppi. La madre, buona e affettuosa, non temè di eclissarsi nella maggior luce della figlia; sibbene la educò ed ammaestrò con amore, e la fece entrare giovanissima nella via delle lettere e della fama. A diciassette anni Delfina mandò all’Academia Francese un poemetto in lode delle suore di Santa Camilla, che nell’epidemia di Barcellona s’erano segnalate per zelo e spirito di sagrifizio. Piacque senza-fine e creò meraviglia; i suoi trionfi erano grandi massime quando ella leggeva, bianco-vestita, con le chiome aurate, lo sguardo affascinante e l’ispirazione d’una Musa. I motivi dell’ispirazione abbondavano. La morte di Napoleone, che espiava una vita straordinariamente grande mescolata di molto male: la morte del generale Foy, che rappresentava l’idea della libertà trionfante sopra il dispotismo militare e il fanatismo borbonico; l’insurrezione della Grecia, che apriva il periodo delle rivendicazioni d’indipendenza delle nazioni, furon temi ch’ella colse e svolse con assai plauso: e dappertutto segnalando l’opera e la gloria della Francia, ella fu detta La musa della patria, e Carlo X le assegnò una pensione di 1500 lire. Ella godè di questi trionfi anche tra noi, Corinna reale, quando a Roma recitò una poesia pel ritorno de’ Romani liberati dalla cattività d’Algeri. Ma non crediamo che la sua immortalità si fondi tanto sui suoi poemi e sulle sue liriche, e neppure sulle sue tragedie Judith (1842) e Cléopâtre (1847), e forse neppure nelle sue grandi commedie, L’école des Journalistes (1839) e Lady Tartufe (1853), ma nei romanzi in parte, Le Lorgnon, Le marquis de Pontanges, La canne de monsieur de Balzac, Marguerite, e in quelle commediole Le chapeau d’un horloger e La joie fait peur, massime in questa, ch’è la cosa più delicatamente condotta e più tenera che si possa vedere. Ma forse, come questo proverbio, che consiste ad apparecchiare una madre a non soccombere alla gioia di riabbracciare un figlio creduto morto, sarà sempre rappresentato con grande effetto; così si leggeranno sempre le lettere che citammo del visconte di Launay, scritte nella Presse dal 1836 al 1848. Ella aveva sposato nel 1831 Émile de Girardin, e conferì anch’ella al buon successo del giornale fondato da lui, dettando quel Corriere di Parigi che fu l’esempio di tanti altri, ma che non fu mai superato per finezza, garbo, e quel misto di profondità e di gaia frivolezza che già notammo. Ella mostrò in quelle lettere anche il senno politico, presentendo la rivoluzione del 1848, sopratutto la guerra sociale, e la forza di carattere, che fece fallo a tanti uomini, le abbondò quando combattè acerbamente Cavaignac che le aveva imprigionato il marito. A rileggere le lettere scritte sotto la dittatura di quel generale, alla luce degli ultimi incendi di Parigi, apparisce chiaramente quanta preveggenza avesse questa donna, e come ella vedesse ridursi tutte le lotte francesi in invidie ed agonie di ricchezza, in insurrezioni sanguinose e impossenti, in repressioni feroci, in fucilazioni e deportazioni, in rovine. Ella vide poi il rinnovamento del dispotismo di Napoleone III, e forse le dolse che il suo Emilio gli avesse fatto la via. Certo non le piacque il nuovo forzato silenzio, il nuovo eccessivo ma inelegante lusso, i vizi fomentati, le ire riardenti, gli apparecchi di nuove rovine coperti da riordinamenti fallaci. Felice tuttavia che non vide la caduta della gloria, della ricchezza e della pace della Francia nelle ultime guerre prussiana e civile, morendo nel 1855; e che ella continua coi suoi scritti a consolare e a dilettare qualche spirito che nella lettura ama astrarsi dalle sventure e onte della patria, ed a far fede del buon genio della Francia, che dovrà finalmente vincere:
Se anime son quaggiù del ben presaghe.