Elementi di economia pubblica/Parte quarta/Capitolo VIII

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Capitolo VIII - De' banchi pubblici, e delle monete di conto e credito

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Capitolo VIII - De' banchi pubblici, e delle monete di conto e credito
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Cap. VIII. — de’ banchi pubblici, e delle monete di conto e credito.

47. Noi abbiamo veduto come gli uomini divengano possessori delle ricchezze, e come queste ricchezze siano rappresentate da una misura comune chiamata moneta; abbiamo pure veduto che la moneta o danaro, oltre l’essere misura di tutti i valori, è un pegno ed una sicurezza di ottener quelle cose che da quella sono misurate. Varie mire possono avere i possessori di queste ricchezze: l’una, la custodia sicura di quelle, acciocchè non periscano e si disperdano; la seconda, una facile maniera di spenderle, cambiarle e contrattarle, risparmiando sempre, per quanto è possibile, la spesa del trasporto, che diminuisce l’utilità del fine che nel contratto si propongono; una terza, d’impiegar questa ricchezza, che è misurata con danaro e da lui rappresentata, sì che gli porti un periodico profitto, in quella maniera che impiegandola su di una terra, questa gli darebbe una costante riproduzione. Dippiù diverse mire possono aver quelli che han bisogno di queste ricchezze; perchè, non potendole ottenere gratuitamente, amerebbero di trovar chi gliele prestasse per mezzo di un pegno che assicurasse il prestatore, o per mezzo di un profitto che gli pagano: insomma, cercano che loro sia ceduto un valore in un tempo per restituire lo stesso valore in un altro. Finalmente lo Stato medesimo e il sovrano sono talvolta bisognosi di un soccorso straordinario per le occorrenze improvvise del di lui dominio, per il qual bisogno non trova opportuno talvolta di accrescere il tributo, perchè passando un certo limite sminuirebbe invece di annientare le proprie forze; diventa quindi egli medesimo in nome di tutto lo Stato, debitore verso alcuni particolari che sono in caso [p. 447 modifica]di prestargli il necessario danaro. Da queste e simili circostanze sono nati i banchi pubblici, che in ogni parte d’Europa sono stati e sono, cioè luoghi ove molti particolari hanno riunite le loro ricchezze, sia per custodirle semplicemente, che per darle ad imprestito sopra di un pegno o sopra di un annuo profitto, sia anche solo per contrattarle fra di loro, acciocchè tutto queste operazioni, combinate e riunite in un luogo solo da tutti rispettato e meritevole della confidenza universale, si rendessero più facili e più sicure e meno dispendiose a ciascuno in particolare.

48. Da questa origine e definizione dei banchi pubblici si deduce in primo luogo, che l’unione delle ricchezze e la circostanza essenziale che forma e caratterizza il banco, e che perciò non è egualmente essenziale che tutte queste ricchezze sieno materialmente riunite in un luogo particolare; basta che le ricchezze siano riunite, cioè che siano sicuri gli amministratori di trovare la ricchezza dove ella sia. Si possono formar banchi non solamente di danaro, ma anche di terre, le quali non potendo che essere nel luogo ove sono, non possono esser comprese sotto il titolo di un banco, se non coll’esser vincolate ad adempire ad un fine comune. In secondo luogo, è una unione di ricchezze particolari. Chiunque porta ad un banco la propria ricchezza, ossia il proprio danaro, o un valore qualunque, non lo porta gratuitamente, non abbandona la proprietà di questo valore, ma ve lo porta perchè così ottiene il fine che egli si propone. È dunque necessario che la sua proprietà non sia confusa, e che gli sia assicurato il fine per cui egli ha voluto portarla al banco e riunirla colle altre. Dunque il proprietario di questa ricchezza acquista un diritto riconosciuto dal banco sul banco stesso, che gli assicura il fine e la proprietà del valore confidatogli, a quelle condizioni che sono state legittimamente convenute. Questa assicurazione si fa registrando esattamente in un libro i nomi de’ depositanti, la qualità del deposito e le condizioni colle quali è stato fatto, e rilasciando al proprietario medesimo un viglietto autentico, che gli dà il diritto di riprendere o contrattare la somma convenuta ed enunziata nel viglietto medesimo. Il proprietario in questa maniera diviene [p. 448 modifica]un legittimo creditore del banco, e il viglietto e il pubblico registro divengono una misura e un pegno di valore, come lo possono essere le vere e reali monete, ogni qualvolta questo viglietto e questo registro possono essere realizzati in quella moneta e in quel valore che rappresentano, e a quelle condizioni colle quali sono stati fatti e ceduti. Se chi possiede la moneta cessasse di poter con essa acquistar le cose che gli bisognano, la moneta diventerebbe una materia superflua ed affatto inutile; onde chi fosse pieno di oro, se l’oro non fosse per sè stesso convertibile in alcuni usi, sarebbe ciò non ostante realmente povero. Dunque parimenti, se i possessori di viglietti o gli scritti al pubblico registro non potessero realizzare quel valore, e in quella maniera che si trovano registrati, il viglietto ed il registro sarebbero una carta tinta d’inchiostro e nulla più. Dunque il valore di questo viglietto o registro consiste nel credito che esso ha, ossia nella sicurezza di poter essere realizzato. Ma non si può sul banco medesimo realizzare, se non tanta ricchezza reale ed effettiva quanta vi è stata portata. Dunque tanti viglietti e non più possono i banchi lealmente rilasciare. Il sistema di Law è un esempio funesto d’essersi voluto allontanare da questo principio, che per esser troppo chiaro non perciò è stato esattamente eseguito, ma frequentemente anzi vi si è andato all’incontro: esempio non raro tra gli uomini.

49. Questi viglietti adunque, rappresentanti vera ed esistente ricchezza, possono circolare e passare da una mano nell’altra, come potrebbe farlo la ricchezza medesima, della quale non sono altro che rappresentatori. Gli uomini non hanno sovente bisogno di muovere la ricchezza dove ella si trovi, e dalle mani di chi realmente la custodisce, ma soltanto di acquistare il diritto che altri avevano sopra di essa, e i profitti che da quella ne derivano. I viglietti venduti adempiono meglio a questo fine di quello che se non vi fossero; perchè altrimenti bisognerebbe o trasportar la ricchezza medesima da un luogo all’altro, o che i contrattanti si trasportassero essi medesimi con certe formalità sul luogo della ricchezza, l’uno per cedere, l’altro per ricevere l’alienato diritto; e tutti questi trasporti e formalità divengono dispen[p. 449 modifica]diosi, e per conseguenza tendenti a sminuire il valore venale delle cose in favore degli agenti intermediarj; non in favore dei veri compratori o dei veri venditori.

50. Prima di passar più oltre giova qui il definire alcune delle circostanze che ordinariamente accompagnano il giro di un pubblico banco, cioè la così detta moneta di banco.

La moneta reale è un pezzo determinato di metallo, che in proporzione del suo peso e della sua qualità, misura ed assicura un determinato valore. Grani, denari, once, libbre d’oro, d’argento, di rame, sono le reali monete delle nazioni d’Europa. In origine non vi è stata che questa moneta, ma in seguito è avvenuto, che questa reale moneta ha servito a dare il nome a quella divisione di parti, che indicava il diverso rapporto delle monete reali tra di loro: mi spiego coll’esempio delle nostre lire. Ai tempi di Carlo Magno la libbra era una vera e reale moneta, cioè un peso di argento di dodici once circa, e il soldo era la ventesima parte di questo peso di dodici once; non eravi una moneta sola che pesasse dodici once, ma vi erano dei veri soldi, venti dei quali pesavano realmente queste dodici once, ed erano una libbra d’argento. Ma alteratosi il soldo, cioè riducendosi il soldo effettivo di argento ad essere la metà, un terzo, un decimo, fino un novantesimo dell’antico suo peso, questi venti soldi non misurarono più il peso di dodici once d’argento, ma sibbene il peso della metà, terzo, decimo, novantesimo di queste dodici once d’argento. Ritennero sempre però il nome di libbra che in quello di lira degenerò; e queste lire, che erano originate dalle vere antiche libbre, servirono a misurare il prezzo ed il valore di tutte le monete d’oro. In questa maniera è nata la moneta di conto, cioè un nome ed un numero significante il prezzo delle differenti reali monete. Ciò supposto, cioè che la moneta di conto non è una moneta, al nome della quale corrisponda realmente un tale e determinato pezzo di metallo coniato, ma una uniforme e semplice misura di tutti i differenti pezzi di questi metalli coniati, vediamo ora che sia la moneta di banco. Supponiamo che uno porti al banco, sia di deposito, sia semplice, sia di profitto, sia in qualunque maniera, lire trenta [p. 450 modifica]mila. È certo che egli porta questo valore, perchè in qualche maniera gli è utile il portarvelo. Ma se in qualunque maniera gli è utile, e giusto che egli paghi quelle spese che sono necessarie alla custodia, al registro, all’amministrazione qualunque, che la natura del banco possa esigere. Supponiamo ora arbitrariamente per comodo del computo, che lire trenta mila portate al banco costino al banco di spese sei mila lire per tutto quel tempo che stanno sul banco. Il proprietario per ricevere un credito di lire trenta mila dovrà pagarne trenta sei mila, o se paga trenta mila riceverà il credito di sole ventiquattro mila. Se colui che ha il credito dal banco di lire ventiquattro mila, rendesse questo suo credito, gli sarebbe pagato lire trenta mila da colui, al quale torna il cento di sostituirsi alle ragioni del primo creditore. Dunque lire ventiquattro mila sul banco equivalerebbero a lire trenta mila effettivamente, e tutte le monete che il banco pagherà saranno ragguagliate a questo valore, ossia secondo questo rapporto come 20 a 25; e quando i crediti si realizzeranno sul banco, il creditore sarà pagato con monete che in banco varranno ventiquattro mila lire, e fuori di banco saranno spese per lire trenta mila. Vede ognuno che in questo caso arbitrario egli è lo stesso come se il creditore del banco pagasse l’esorbitante interesse del venti per cento per salario al banco depositario. Non è questo il caso nè così considerabile la differenza tra la moneta di banco e la moneta fuori di banco, perchè ordinariamente l’una o il due per cento sono il salario dal banco che al più i creditori debbono pagare.

51. Abbiamo di già accennata una delle due utilità dei banchi, e questa è il potersi da quello conoscere il possibile aumento o il decremento dell’agricoltura; perchè sminuendosi sul banco gl’interessi, se i capitalisti ritirano i loro capitali, è segno che vi è un impiego migliore da sperare; se non li ritirano, è segno che l’agricoltura non è più suscettibile d’aumento. L’altra utilità accennata si è di potersi con quelli rimediare ad un pressante bisogno dello Stato, e per guarire un maggior male. Ma per ciò fare sono necessarj molti riguardi, perchè non si può farlo con una banca di semplice deposito senza alienare il deposito medesimo, cioè arrischiando [p. 451 modifica]un fallimento; mentre, quando si combinassero le circostanze che non venissero nuovi depositi a farsi sul banco, e li depositarj volessero contemporaneamente ritirare il deposito, il banco non avrebbe di che fare la restituzione. Non sempre si può fare apertamente dimandando il danaro, rilasciando tanti viglietti autentici che abbiano il corso del danaro; perchè questi viglietti non avranno corso, se non avranno credito; e non avranno credito se non con la sicurezza di potersi realizzare e convertirsi in danaro quando si voglia. Ben è vero che, in caso che questa sicurezza vi sia, un numero determinato di viglietti può tener luogo di danaro in quello spazio nel quale trovasi questa sicurezza. La moneta è un segno di un valore; un viglietto può essere segno parimenti di un valore. La moneta è un pegno di una mercanzia venduta che dà il diritto di comprarne un’altra; è dunque un pegno intermedio di un cambio di una merce con un’altra. Nel nostro caso, un determinato numero di viglietti autentici, non maggiore di quello che possa essere l’attuale quantità di valore che trovasi ad ogni momento in circolazione, può ottenere il medesimo fine quando abbia il credito, cioè divenire un pegno intermedio di un cambio di una merce coll’altra. Dunque a queste sole condizioni possono divenire una vera moneta; ma non saranno mai una mercanzia, se non in quanto sono realizzabili. La moneta si realizza da sè medesima, non avendone una nazione che non ha miniere giammai al di là di quello che debba averne, supposto il proprio commercio libero perfettamente. Ma sarebbe difficile il conoscere ed il fermarsi nei limiti del necessario nel rilasciare questi viglietti. Non avendo dunque i viglietti altro valore se non in quanto sono realizzabili, facilitano bensì la circolazione, ma non aumentano la massa reale dei valori circolanti, come qualche insigne scrittore avea supposto. Non si alzan dunque i prezzi delle cose; in questo caso non pregiudicano alla concorrenza e non fanno alcun cattivo effetto, sebbene tutti i cattivi effetti fossero capaci di produrre se non fossero realizzabili.

52. Finalmente, un banco che paghi un interesse ai sovventori, deve avere di che pagare questi interessi; il che quando il banco è per lo Stato o per il sovrano, che è lo [p. 452 modifica]stesso, non si può fare se non per mezzo d’un sopracarico, o alienando una parte del tributo già imposto, la quale operazione a molti gravi inconvenienti è soggetta. Perchè un sopracarico diminuisce a poco a poco la riproduzione, e per conseguenza le rendite tutte del sovrano e dello Stato, estinguendo negli uomini quell’interesse personale che gli stimola ad agire ed a superare gli ostacoli che naturalmente oppone la terra a chi la coltiva; onde non possono questi sopracarichi che essere un oggetto di straordinaria risorsa, non un metodo costante, mentre sarebbero distruttivi della nazione e della forza stessa che è nel sovrano. L’alienazione poi di un tributo deve produrre a poco a poco lo stesso effetto, perchè questo tributo, non essendo un sopracarico, è sempre regolato sui bisogni del sovrano e dello Stato; ma smembrando una parte della rendita che serve a questi bisogni, non diminuiscono i bisogni stessi; dunque, alienata una porzione di tributo, bisognerà imporre la porzione alienata. Questa adunque diverrà un sopracarico distruttivo della ricchezza e della produzione, e per conseguenza della forza fisica e reale della sovranità stessa. Da ciò si può incidentemente osservare quanto saggie, giuste e benefiche sieno le disposizioni di quei sovrani, che che ne dicono alcuni, le quali tendono a redimere ed a riprendere dalle mani del particolari quelle porzioni di tributo che furono già alienate; poichè, ridotte in questa maniera le rendite pubbliche al vero e solo loro proprietario, cioè al sovrano, allora egli medesimo vorrà e dovrà togliere tutto ciò che sopracarica la nazione; perchè questo sopracarico, ben lontano dall’arricchirlo si vedrà che lo impoverisce, facendo languire, anzi annientando una parte di quella maggiore riproduzione che la terra potrebbe sostenere, e della quale può e deve avere una porzione. Ma non è questo il luogo dove trattare di queste materie.

Da quanto abbiamo detto si sono potute vedere le utilità de’ banchi pubblici ed i loro inconvenienti, e come le banche di deposito, quelle de’ pegni, quelle di assicurazione possono servire a facilitare la circolazione, che mantiene il movimento ed il vigore delle fatiche utili e produttive, e come quelle d’interessi siano le più soggette ad inconvenienti e rischj.