Epistolario di Renato Serra/A Luigi Ambrosini - gennaio 1905

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A Luigi Ambrosini - gennaio 1905

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A Luigi Ambrosini - gennaio 1905
Alla madre - 20 ? 1904 A Emilio Lovarini - 22 gennaio 1905

Cesena, gennaio 1905.


Mio carissimo,

ho tardato alquanto a risponderti; ma quì, per tutti i giorni passati, gelus omnia tenuit: anche le dita intirizzite e la mente torpida del tuo amico.

Oggi finalmente è cominciato il disgelo (uso un termine polare; ma ti assicuro che fa proprio al caso); e i motivi di scriverti mi assalgono fissi e insistenti, come dai tetti le gocciole dello stillicidio.

E comincerò a risponderti. Ho letto e accolto come una cosa cara l’articolo su ’l Carducci1. E’ bello; ritirato dal volgare uso degli articoli cosiddetti critici; degno dell’argomento.

L’impostatura dell’articolo - descrittivo, più che critico, della figura del C. prosatore - è fin dalle prime righe netta e forte; e il tuo dire in certi momenti (più al principio e alla fine, mi pare), ha felicità di movenze e d’imagini (p. di manzoniani) nuove e tutti i segni, come dici tu, della gran gesta. Molto bene hai raccolto le varie note descrittive intorno a un concetto astratto, essenziale e animatore per ogni via della prosa carducciana; la questione o l’idea della lingua, che, in ordine al tono del discorso, storicamente e imaginosamente, così e non altrimenti voleva esser trattata. S’intende che la questione riposa sopra una analisi, che avrebbe bisogno d’esser troppo sottilmente distesa e ragionata; ma questo non era luogo a ciò.

Tutto per altro non finisce di piacermi in quel pezzo che v’hai innestato dal componimento2, se la memoria non m’inganna, dell’estate scorsa. Non ti pare che le figure dei prosatori italiani sian dintornate troppo generalmente e senza speciale convenienza col soggetto di Carducci? Invece di dirne generalmente le lodi dovevi forse calcare più su certe note che preparassero e facesser quasi aspettare il passaggio: io C. è un po’ figliuolo, un po’ fratello di questi.

Pedanterie. Ma io credo che nulla dia più forza all’ingegno come la cura e il travaglio di scrutare e fermare il disegno logico dei pensieri; di aggiungere, se posso dir così, la coscienza piena di tutti li aspetti delle idee.

In ciò è, credo, la virtù eterna dell’arte e dello stile classico; che non cede all’onda delle parole e delle imagini l’una l’altra rievocantisi nei congiungimenti fatti tenaci dal comune uso; ma rompe, rilavora e ripensa tutta quanta la materia ideale così da dare alle cose fuggitive la vita eterna. Virgilio o Dante non son mai così grandi e nuovi come in dire certe cose comuni nella lingua di tutti, ma sviluppate dai nodi della volgarità così signorilmente, da scoprire tutta l’altezza e la libertà dello spirito.

Per le fessure della pietra piatti

nel primo verso che mi ritorna a mente io sento quel ripensamento originale di una imagine e di parole così profondo da dar loro una vita indimenticabile. Oppure

Quae picis modo digitis lentescit habendo

(della terra grassa fra le dita)3

Così non è classico quell’introdurre l’imagine non pura e netta e sola come facevano i greci, ma dissimulata in un verbo e accennata di scorcio; ciò che dà luogo a certi mischiamenti impudichi (dirò con Acri) e a certi sbattimenti e stonature, indistinte al volgo, ma le più lontane, in loro speciosità dall’arte vera.

Che cosa vuol dire, e che disegno armonioso puoi tu ritrarre da questa frase: arrotondata dall’ onda del sentimento, tanto più se ci rappicchi: affinata e attillata in un balenìo.... - Certo son modi che procedon quasi dirittamente dal Carducci; io, scrivendo, ne son pieno; ma è roba da poltroni, e in te non la voglio vedere.

Bella poi, pura e ben disegnata e rilevata; di quelle che dàn luce e riposo all’idea l’imagine del Galileo: ma non è dir troppo di quella pur nobilissima prosa?

Non so: ma certo è "fastidirti troppo" quel ch’io vengo facendo. Me ne scusi l’affetto che m’ha mosso e l’aspettazione di sempre più belle e vigorose operazioni del tuo ingegno; alle quali se potrò credere d’aver pur un poco, a stimolo o a conforto, giovato, mi terrò contento.

Kipling4, per quanto io mi sappia, ha scritto: i due volumi del "libro della Jungla"; Kim (romanzo indiano); les bâtisseurs des ponts: sur le mur de la ville (novelle di vita indiana); l’homme qui voulut être roi (io: io non l’ho letto, per altro); la plus belle histoire du monde (novelle di fatti strani e straordinari); Stalky et C. (il romanzo della sua vita di collegio); la lumière qui s’èteint (è scritto così? = si estingue) (romanzo d’amore e insieme autobiografico; il poeta è descritto anche nella sua educazione e nei suoi intendimenti artistici, in figura di un pittore); - poi: lettres du Japon; lettere sal Sud Africa. E i versi, ch’io non ho letto; canzoni di soldati e di marinai, che dall’Atlantico al Pacifico sono o sono state in tutte le bocche e in tutte le anime di quell’immenso mondo anglosassone. Perchè Kipling è, a dir proprio, il poeta e lo scrittore tutto inglese; tutto degli inglesi. La concezione dell’universo e della vita è in lui ordinata all’ideale proprio esclusivo della sua razza, con una compiutezza, una forza, una brutalità, un disdegno delle tradizioni sentimentali e letterarie che non si posson rendere a parole. In Stalky descrive il formarsi dell’anima di un ragazzo che sarà ufficiale e conquistatore inglese in una maniera così vivace e rivelatrice che più non si può. - Quanto a lui rende con vivezza tragica la miseria della vita comune, i vani amori di esseri mal fatti, le aspirazioni vane di piccoli uomini a piccole cose. (V. sur le mur de la ville, massime les bâtisseurs) orrori e tremori dell’al di là, dei mondi hiusi alla nostra conoscenza (dans l’impasse, la plus belle etc., un fait) qualunque cosa dica, crea sensi nuovi nel nostro cuore e viste e atti novelli del nostro pensiero con la novità profonda rivelatrice della sua arte. Che pare, specie per ciò che è dello stile, torbida per incuria, confusa, affrettata; ma è invece (si leggano le pagine preziose della lumière etc.) strumento d’un ingegno che con l’esercizio e lo studio ha saputo sciogliersi da ogni legame di sevitù e ora che sa trovare con piena e compiuta libertà le voci più vere e più propizie per dir quel che vede egli e che sente, con la immediatezza che io a nessun altro conosco. Di qui l’uso, che egli pratica larghissimo, del gergo soldatesco e marino, degli idiotismi, lo stile spezzato, giornalistico e via via. Il colmo della sua arte, per altro è più che dove rende con tanta gagliardia l’orgoglio e la forza della sua gente, è dico nel libro della Jungla. Diverso anche per lo stile, più ricco e più puro; di cui ricorderai qualche pezzo ch’io ti lessi, e ch’io giudico da gran tempo l’opera di poesia più originale di questi ultimi anni, che scopre proprio regioni nuove e incantate e infantilmente mirabili nell’anima e nel segreto dell’essere, con l’ardire e la felicità della poesia eterna!

Come ho scritto male! ma tu intendi lo stesso; e del resto non ho voluto darti la materia del tuo medaglione, che attendo con molta speranza, ma dirti soltanto alla meglio quel che penso io.

Quanto all’articolo che m’inviti a mandare per il Campo5, della cortesia e più dell’affetto che t’ha mosso a ciò, ti son grato. Ma io per molte ragioni, di cui le più ti son note, ho dismesso del tutto ogni pensiero di scrivere. Sento che correrei incontro a un esito increscioso e doloroso se non gettassi via risolutamente illusioni e aspirazioni e speranze, sproporzionate alle mie forze. Io per quanto fino ad ora abbia inteso con ogni sforzo pure a questo fine, non ho nessuna attitudine particolare al lavoro dell’arte o creativo o critico, del verso o della prosa. E la mediocrità è lodevole e lecita per tutto, fuor che nel fatto dell’arte. Che tale poi sia il caso mio, troppe ragioni ho per credere; anche in questi giorni, tanto per non stare in ozio, m’ero provato a buttar giù un articolo su Dick, Pelleàs e Riquet; per mostrare un soggetto trito e vano - il cane, amico dell’uomo - anche nelle mani di un descrittore argutissimo come il De Amicis (Dick); rinnovato da chi ha saputo infonder vita fantastica a certe scoperte e idee astratte della psicologia moderna; e come poi la regione scoperta dal France (col suo Riquet) possa esser, su le sue traccie, ritrovata ed esplorata nuovamente da un felicissimo ingegno com’è quello del Mäterlink (Pelleàs). L’argomento sarebbe forse interessante; ma quel che ne ho scritto io così sciocco da far rabbia.

Novelle poi ne avrei avuta più d’una; ma a guardarle bene nè nuove nè belle.

Però non ti mando nulla. Nulla; ma, mi dirai te, e tutta questa tantafera che è? Se tanto mi dà tanto ....

Me lo son detto anch’io; e faccio punto. Vogli sempre bene al tuo.

Note

  1. Qui si allude all’articolo di AMBROSINI:Il Carducci prosatore: due colonne di fondo nel settimanale di Torino "Il Campo" (n.7, 1°gennaio 1905). Se ci fossero dei dubbi, varrebbero a dissiparli specialmente le seguenti espressioni che il Serra desume tali e quali dall’articolo stesso: "della gran gesta", "Il Carducci è un po’ figliuolo, un po’ fratello di questi", "arrotondata dall’onda del sentimento", "affinata e attillata in un balenìo". Veramente il testo a stampa dell’articolo dice: "e quasi affilata nel balenìo....".
  2. Il "componimento dell’estate scorsa", cioè del giugno 1904, deve essere allusione al lavoro scritto che noi, del terzo anno di lettere alla scuola del Carducci, dovevamo in un breve periodo di tempo preparare a casa, e consegnarlo poi al Maestro, che lo correggeva, lo postillava, e lo discuteva con noi all’esame orale del triennio. Nel maggio-giugno 1904 (e l’Ambrosini finiva appunto il terzo anno) il tema fu press’a poco questo: "Il Seicento e la prosa italiana" (cfr. ALFREDO GRILLI Note di varia letteratura, p.31, Imola, Galeati, 1907). Il Serra, in quell’anno laureando, ricordo bene che lesse e corresse i temi dei suoi più cari amici.
  3. Dopo il v.75 del canto XIX dell' Inferno, Serra cita il v.250 del libro II delle Georgiche, là dove Virgilio insegna il modo di conoscere la terra grassa. Ma, poichè senza dubbio citava a memoria, non trascrisse esattamente il verso del passo che qui riportiamo: "Pinguis item quae sit tellus, hoc denique pacto|discimus: haud umquam manibus lactata fatiscit,|se pici in morem ad digitos lentescit habendo".
  4. Tutto quel che segue sul Kipling servì mirabilmente all’Ambrosini per un lungo articolo di cinque colonne nella prima pagina di "Il Campo" (n.15, 26 febbraio 1905), dal titolo: I Contemporanei: Rudyard Kipling (romanziere e novelliere). Questo argomento era caro al Serra, e lo riprenderà più tardi (cfr. SERRA, Opere, vol.IV). Ma egli era gran signore, e prodigo del suo con gli amici, mentre proclamava poi di non aver egli "nessuna attitudine particolare al lavoro dell’arte!".
  5. "Il Campo" l’abbiamo spesse volte ricordato, ma merita un cenno più minuto. Si pubblicava la domenica a Torino, direttore responsabile MARIO VACCARINO, organo e corifeo di Francesco Pastonchi. Il n.1 uscì il 20 novembre 1904 e l’ultimo (il n.58) il 31 dicembre 1905. Il suo programma era: in poesia "purezza, parsimonia, severità, nitidezza, semplicità infine". In prosa, voleva, "viva, agile, pronta questa nostra bella lingua, così ricca, così varia, multicolore e multiforme come una fiamma". Quanto alla critica (non trascurava la critica storica) intendeva "giudicare le opere con uno spirito sereno di verità, senza badare agli uomini". Per motto aveva gli emistichi" .... fermo in campo - starò .... Luigi Ambrosini, ancora studente universitario, ventiduenne, vi fece le prime prove di scrittore di prosa. Vi pubblicò: 1. Il Carducci prosatore (n.7, 1° gennaio 1905); 2. I Contemporanei: Rudyard Kipling (romanziere e novelliere) (n.15, 26 febbraio 1905); 3. La lirica dell’Hugo e la lirica italiana (n.17, 12 marzo 1905); 4. Ombre e fosforescenze (Mario Rapisardi e i giovani dell’Università di Catania - Amore e morte - I Giapponesi e i monelli) (n.49, 29 agosto 1905); 5. Il Santo (n.52, 19 novembre 1905); 6. Il patto della luce, a firma L.A., a proposito del discorso del prof. Andrea Torre sulla "Unione Nazionale per la coltura", nella rubrica "Chiose" (n.53, 26 novembrre 1905); 7. Per la critica (n.57, 24 dicembre 1905). Notevole, nella rubrica "Chiose", la recensione ai versi dell’Ambrosini: Terra, anonima, ma del prof. G. BALSAMO-CRIVELLI 8n.56, 17 dicembre 1905).