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Er furto piccinino

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Giuseppe Gioachino Belli

1847 Indice:Sonetti romaneschi V.djvu corone di sonetti letteratura Er furto piccinino Intestazione 9 aprile 2025 100% Da definire

La spósa de mastro Zzuggno Er piggionante der prete
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1847 e 1849

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ER FURTO PICCININO.[1]

1.

     Chi arrubba è lladro, e ll’arrubbà è ppeccato,
E cchi ffà li peccati è ppeccatore;
E cquesto credo che nnun facci onore,
Sor Libborio, a un cristiano bbattezzato.

     Ma llevà er mantelletto a un monziggnore,
Caccià da Roma un povero prelato,
Pe’ un pupazzetto o ddua[2] ch’ha sgraffignato,
È, a ssintimento mio, troppo arigore.

     Capite voi? de sto paese io parlo,
Dove chi ffa man bassa se la svicola:
Cquesti nun zo’ li scrupoli der tarlo?[3]

     Ggià, scrupoli der tarlo, sor Libborio,
Che ddoppo avé magnato la particola,
Ebbe pavura de magnà er cibborio.

15 gennaio 1847.


Note

  1. [Il principe Chigi, nel cit. Diario inedito, il 20 gennaio 1847 scriveva: “Giorni sono è partito (o fatto partire — sic) da Roma Monsignor Durio di Vercelli, che già altre volte era stato allontanato, e recentemente era stato riabilitato per impegni anche Diplomatici e fatto Canonico di S. Pietro. Sono senza numero gli stocchi„ (le truffe) “ed altre simili indegnità di cui viene accusato, sino al furto di alcuni oggetti d’arte in una Bottega. Si dice che anche strada facendo, nel partire, abbia truffato delle somme a qualche Persona con cui aveva qualche conoscenza sin da quando fu Delegato di Orvieto.„ Questa carica infatti, che corrisponde a quella di Prefetto, monsignor Paolo Durio l’aveva occupata negli anni 1841 e 42.]
  2. [Una statuetta o due. Gli “oggetti d’arte,„ accennati dal Chigi, V. la nota precedente.]
  3. [Modo proverbiale, che ha la sua spiegazione nella terzina seguente.]
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2.

     Mentre llì, in pied’in piedi, er mi’ padrone
Riccontava sto furto a mmezza vosce,
Se stava scontorcenno un prelatone
E ss’aïnava[1] a ffà ssegni de croscè.

     Disce: “Un prelato reo di[2] tal azzione!
Un di nojantri! Oh cquesta sì mmi cosce!
Oh cche pporco futtuto! oh cche bbriccone!
Oh cche vvergogna! oh cche ddilitto atrosce!„

     Ma cquant’è vvero er naso de ssan Pietro,
Spesso chi rrajja sopr’all’antri, rajja,
Se bbutta avanti per nun cascà addietro.

     E ccorpo der cudino de ’na sorca!,[3]
Nun ze pò ddà che ssii coda de pajja
E tutt’affetto[4] de camiscia sporca?

15 gennaio 1847.

Note

  1. [S’affaccendava.]
  2. [Al solito, dice di e mi, invece di de e me, per affettare il linguaggio civile del prelato.]
  3. [“Di un grosso topo„ che si chiama sorca, tanto se è femmina, quanto se è maschio.]
  4. [Effetto.]