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Faust/Parte seconda/Atto secondo/Il peneo (I)

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Atto secondo - Il peneo (I)

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Atto secondo - La notte classica di Valburga Atto secondo - Il peneo

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IL PENEO.

ricinto da acque e da Ninfe.

Il Peneo.

      Ondulate — fremele — strepitate —
    Stormite — sospirate —
    Salci, pioppi, canneti al margo appresso.
    Col murmure sommesso
    Di vostre dolci note
    Le interrotte mie estasi molcete!
    Ma una scossa profonda,
    Un tremito improvviso or mi percote,
    E dal fresco mi toglie asil dell’onda.

Fausto vagante in riva al fiume.

      Da que’ filti cespugli, e da’ festoni
    Di foglie e rami fluttuanti al modo
    Di schiusa vela, s’io ben odo on suono
    Spandesi, un non so che, poco diverso
    Da umana voce. — In lor lascive tresche
    Paion scherzose mescersi le ondate,
    Mentre che l’aura intorno intorno pregna
    Di balsamici odor lene susurra.

Le Ninfe a Fausto.

        Túffati in seno all’onda;
      Del chiaro e fresco umor
      La quiete alma e gioconda
      Ritempri il mesto cor.
        Nel liquido argento
      Rinverde per te
      La calma — il contento
      Che l’alma — perdè.

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        Deh! vieni, e il canto, a molcere
      Il tuo dolor, s’udrà;
      Vieni! e del nostro anelito
      L’ebbrezza a te verrà!

Fausto.

    Ben veglio io – sì! Tale a danzarmi intorno
    Delizïose immagini cui nulla
    Pareggia in terra, o care di quest’occhi
    Larve, o memorie, o crëazioni — a lungo
    Seguite ancor! Così, così beato
    Altra volta io mi fui!1 Di sotto al rezzo
    Di fitti rami cui l’auretta morde
    Soavemente, tacito serpeggia
    Un rio che move appena; e da ogni parte
    Cristalline sorgive, argentei fiotti
    Formano grata, anzi mirabil conca
    Che alla sponda decresce, e al bagno alletta.
    Membra di gioventù piene e di vita
    Da quell’umido speglio alle incantate
    Pupille in doppia immagine reflesse!
    O sogni! o dolci fantasie! Donzelle
    Che dentro all’acque tuffansi, dattorno
    Lascivette, scherzose arditamente

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    Correndo a nuoto a sollazzarsi intese;
    O sull’umida sabbia impaurite
    Inquïete fuggendo! — E poi le grida,
    I contrasti, le baie! — Oh! me far pago
    Dovrian bene, cred’io, queste fanciulle,
    E qui l’occhio trovar le sue dolcezze.
    Sempre, più lungi sempre il mio bramoso
    Spirto si lancia, penetrante, acuto
    Nel più riposto sen l’occhio s’interna.
    Sottesso un padiglion di ricca fronda
    Tiensi l’alta reina; ed ecco in mille
    Cerchi fendersi l’acque, e da un riposto
    Cespuglio a nuoto uscir cigni regali
    Tranquilli in lor desio, dolci, amorosi,
    E insiem di tanta venustà superbi.
    Ve’ qual piegan sol mobile elemento
    L’eburneo collo!.... Un d’essi, un d’essi intanto
    Nella schiera gentil primo si nota.
    Move, turgido il sen, por come acceso
    Di sua rara adornezza, e traversando
    Quell’armonico sciame, al Sol dinanzi.
    Le orgogliose sue penne dilata.
    Vedi! ei s’affretta, e con sprezzante calma
    Onda sovr’onda riversata, al santo
    Loco dentro si trae. — Pel cheto azzurro
    Gli altri qua e là discorrono, e tranquilli
    Spiegan la pompa del nevoso manto. —
    Indi a un tratto con impeto improvviso
    Serrati a stuolo ad assalir le vaghe
    Donzellette inquïete ecco sen vanno,
    Che d’un asilo in cerca ove secure
    Ritrarsi, oblian che da profano piede

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    Schermire il padiglion su lor commesso.

Le Ninfe.

    Bocconi sull’erba — sorelle, alla riva
    Ben tesa in ascolto — l’orecchia ponele.
    Chi turba repente la nostra quïete?
    Corsiero a galoppo — gli è questo che arriva.
    D’udire qual porti — del vento sull’ale
    Notturno messaggio — gran voglia m’assale!

Fausto. E’ parmi fremere la terra sotto lo scalpitare romoreggiante d’uno sbrigliato corsiero. Laggiù! mie pupille, laggiù! M’avesse la sorte a favorire sì tosto? Oh! prodigio senza pari! Un cavaliere sopravviene a precipizio, e mostra essere dotato di gran mente e di non poco ardire; gli è ingroppa a un cavallo candido più che neve or ora caduta.... No, non m’inganno, in lui già ravviso il rinomato figliuolo di Fillira! — Ferma, o Chirone! ferma, ti dico, poich’io deggio parlarti.

Chirone. Chi mi vuole? che c’è?

Fausto. Allenta un poco il tuo corso.

Chirone. Io non uso fermarmi.

Fausto. Quando è cosi pigliami, te ne prego, in sul dorso!

Chirone. Fa pare il piacer tuo. Ed ora, dove vuoi tu ch’io ti meni? Siam qui presso alla riva; eccomi presto a recarti traverso al fiume.

Fauslo, salendo in groppa al centauro Chirone. Traggimi dove ti aggrada; ch’io vo’ serbare obbligazione perenne a te, sublime e rara creatura, esimio pedagogo, che per tua gloria crescevi un popolo intero d’eroi, la falange eletta de’ nobili Argonauti, e quanti poscia il mondo crearono de’ poeti. [p. 313 modifica]

Chirone. Non si faccia molto di ciò, che la stessa Pallade sotto le sembianze di Mentore avrebbe il torto a vantarsene. Costoro la finiscono col fare a modo loro, quasi che niuno si fosse preso pensiero dell’educarli.

Fausto. Io n’andrò allora tenuto al gran medico esperto a conoscere il nome di ciascun’erba, a colui che sa a menadito le più occulte virtù de’ semplici, che restituisce al malato la sanità, che al ferito porge sollievo: e ne lo abbraccio qui con tutta l’anima.

Chirone. Se alcun eroe mi venisse a cadere sanguinente da presso, saprei ben io dargli soccorso e consiglio: per altro io terminai col rinunciare l’arte mia alle mammane ed a’ preti.

Fausto. Tu se’ veramente quell’essere singolare che insofferente di lodi con bel garbo se ne schermisce, quasi che de’ suoi pari tutto fosse il mondo ripieno!

Chirone. Tu mi puzzi d’ipocrita, di quella trista razza così destra nell’adulare i popoli ed i re.

Fausto. Non saprai negarmi però, che tu hai praticato cogli uomini più illustri del tuo tempo, seguíto nelle tue azioni quanto vi ha di più nobile, e vissuto i tuoi giorni nelle cure gravi ed imponenti di un Semidio. Ora, fra tutte codeste eroiche intraprese, qual è che reputi essere di maggior conto?

Chirone. Nell’augusta falange degli Argonauti, era ognuno prode a suo modo, e giusta la energia onde sentivasi investito potea bastare a quelle opere nelle quali altri fosse stato da meno di lui. I Dioscuri furono i primi colà dove floridezza di gioventù [p. 314 modifica]e leggiadria perfetta di membra erano spedienti: risoluti e presti ad accorrere ove l’altrui periglio li domandasse, tali si diedero a conoscere i Boreadi: riflessivo, gagliardo, tutto prudenza, e destro nel dar consigli, parve in fra tutti Giasone, delizia del sesso gentile: quindi Orfeo, tenero sempre e discreto, che nell’arte di sonar la cetra non ebbe chi l’agguagliasse; da ultimo l’ingegnoso Linceo che dì e notte traverso agli scogli guidò il sacro naviglio. La prova del rischio fassi in comune; e se l’opera è ad un solo commessa, ogni altro piglia parte alla lode.

Fausto. E di Ercole non mi dirai tu nulla?

Chirone. Ahi, sciagura! perchè inasprisci tu la mia piaga?.... Non avev’io mai veduto. Febo, nè Arete, nè Hermes, secondo e’ vengono appellati, quando mi fu dato contemplare là, in faccia a me, tutto che l’uomo nella divinità ammira e cole. Un regal giovinetto, modello in vista di perfetta armonia, sommesso a’ suoi fratelli maggiori di età, devoto alle avvenenti femmine altrettanto, tale, a dir breve, che nè Gea saprebbe creare l’eguale, nè altro mai verrà da Ebe nell’Olimpo introdotto. Indarno si sfoggiano gl’inni e con vano tormento le pietre sotto ai martelli scheggiano.

Fausto. Hanno gli statuari un bel faticare in sui marmi, chè mai non cel seppero figurare in tutta sua maestå. Poichè tu m’hai discorso del più leggiadro fra gli uomini, dimmi pare un molto della più avvenente in fra le donne.

Chirone. Che domanda è la tua?.... La bellezza femminile è per sè un bel nulla, o in generale, non più che un’immagine ghiacciata; da canto mio, solo [p. 315 modifica]apprezzo quella creatura che del vivere si appaga. Il bello perchè bello si ammira, ed ecco tutto: ma non è chi resista alla grazia, quale appunto era in Elena mentr’io la portava.

Fausto. Oh! l’hai tu dunque portata? Colei?

Chirone. Maisì, su questo mio dorso.

Fausto. L’ebbrezza mia s’accresce a miile doppi. Oh me beato! Dove già fu ella sedermi!

Chirone. E così appunto tenevasi stretta alla mia criniera, com’ora fai tu.

Fausto. Oh delirio! Io ne perdo il cervello! Narrami come.... Io non sospiro, io non anelo che lei! Dove l’hai tu presa? Dove lasciata? Ah dimmi....

Chirone. Posso agevolmente rispondere alla tua dimanda. Aveano i Dioscuri sottratta a que’ dì la giovinetta di mano a’ rapitori: i quali, poco usi a lasciarsi sopraffare, crebbero di arditezza e si fecero ad inseguirli precipitosamente. Le paludi Eleusine arrestarono il corso veloce de’ due fratelli, i quali ivano dibattendosi per entro al fango. Passo io allora nuotando all’opposta riva, dove Elena, spiccato un salto, e molto careggiando l’umida mia criniera, ebbemi ringraziato con graziose e dolci parole. Oh! com’ell’era avvenente! Sul fiore degli anni, delizia del vegliardo.

Fausto. Appena settenne!...

Chirone. In ciò che odo ravviso i filologi; essi li ebbero ingannato, come appunto ingannarono prima se medesimi. La donna mitologica nulla ha di comune col resto: i poeti se la fingono come lor torna; nè maggiorenne, nè vecchia, ma sempre di fattezze seducenti; giovine, è rapita; vecchia, è [p. 316 modifica]incentivo di concupiscenza: in una parola, il poeta non fa caso veruno del tempo.

Fausto. Ah! nè ella tampoco veggasi al tempo soggetta! L’incontrò bene Achille in Fere fuor d’ogni contingenza di tempo. Felicità non ponto sperata, conquiste fatte in amore a dispetto della sorte, chi potrà dunque contendermi, che per sola virtù del prepotente mio desiderio, ridesti l’unica bellezza alla vita? La divina immortale fattura, sublime e affettuosa ad un modo, di riverenza degna insieme e d’amore, to prima d’ora la vedesti; ed io oggi stesso holla veduta vezzosa tanto quanto seducente, vezzosa tanto quanto vagheggiata e agognata. Ogni mio sentimento, e fin la più tenue fibrilla dell’esser mio n’è compresa e posseduta; talchè, ov’io non giunga ad averla, ne morrò senza fallo.

Chirone. Mio buono straniero, ciò che tu, uomo, stimi una beatitudine, appo gli Spiriti si ha per vero delirio. Non monta però, che tutto cospira a farti pago e contento. Io soglio ogni anno recarmi per un po’ di tempo da Manto, figliuola d’Esculapio, la quale, raccoltasi in segreto, va porgendo preci al genitore onde si piaccia illuminare pur finalmente lo intelletto de’ medici, sicchè cessino una volta di essere micidiali in modo così sfrontato. Colei ch’io pregio meglio d’ogni altra Sibilla, non dà in pazzi contorcimenti, ma dolce si mostra, affabile, cortese: ed ella, purchè rimanga secolei alcun poco, riuscirà colla virtù dell’erbe a risanarti compiutamente.

Fausto. Tengasi pure i suoi farmaci! Spirito mi sento io gagliardo, e possente! Ne diverrei allora stupido, imbestiato com’altri. [p. 317 modifica]

Chirone. Non ispregiare la salute da quella nobile sorgente da cui ti è dato ottenerla! Salta giù lesto, però che siamo arrivati.

Fausto. Or dove mai — in grazia — mi hai tu menato nel fitto buio della notte, e traverso a quest’umide sabbie? Qual piaggia è questa?

Chirone. Qui Roma e Grecia ebbersi un dì conteso coll’arme il primato: ne sta a dritta il Peneo, l’Olimpo a sinistra, e il regno immenso che perdesi nella rena. Il re fugge, il cittadino trionfa. Volgi la tua pupilla, ed osserva: qui di costa a noi, a rimembrare appunto quel fatto, s’erge, schiarato dalla Luna, il tempio eterno.2

Manto pensando fra sè. L’ugna d’un corsiero fa risuonare l’atrio sacrato: son certo Semidei che s’avanzano!

Chirone. Benissimo! Vorrei solo che la aprisse un po’ gli occhi!

Manto svegliandosi. Sii tu il benvenuto! Si vede che mai non manchi. [p. 318 modifica]

Chirone. Il tuo tempio è dunque in piè tuttavia?

Manto. E tu, vai tu sempre a zonzo per le campagne?

Chirone. Fin che tu la durerai nel silenzio e nel riposo, io mi andrò continuo aggirando pel mondo.

Manto. Sto in attesa stretta dal tempo. E costui, chi è desso?

Chirone. Questa malaugurata notte hallo spinto costà nel fiero suo turbinio. Ei va pazzo per Elena! Lei vorrebbe far sua, e non sa come nè da qual parte incominci: l’intraprendere a curarlo la è impresa degna al tutto di Esculapio.

Manto. Chi va dietro all’impossibile, mi è caro e non poco. (Chirone seguita pe’ campi a galoppo, ed è già molto lungi.)

Manto. Or vanne, o forsennato, e dàtti in preda alla gioia! Quell’andito oscuro fa capo alla stanza di Persefone, la quale dalle viscere sotterranee dell’Olimpo viene segretamente spiando la contesa felicità. Colaggiù, ebbi altra fiata introdotto Orfeo; oh! possa tu dell’entrata che a te por si concede, meglio di lui approfittarti! All’erta! coraggio! (Fausto entra sotterra.)


Note

  1. Rimembranza del laboratorio di Wagner, e delle illusioni fattegli gustare da Homunculus sogoo delizioso, o forse ancora non più che una osservazione psicologica del poeta. L’uomo, in balia della passione che lo domina, smarrisce ogn’idea di luogo e di tempo, così che pargli riconoscere la piaggia ove pone il piede la prima volta, e gli avvenimenti che si svolgono sotto a’ suoi occhi sono per lui siccome fatti antichi e passati; nè il più delle volte s’inganna, chè il mondo presente e i suoi casi, tutto preesisteva in idea nella sua mente; e le immagini della divinazione sonosi in lui impresse a tal segno, da renderlo certo che sieno esse ricordo d’un tempo già trascorso.
  2. Potrebbesi accennar qui la battaglia di Cinocefalo, nella quale Quinto Flaminio vinse Filippo III di Macedonia l’anno 197 prima di Cristo; ma il campo di Cinocefalo, abbenchè trovisi nel cuore della Tessaglia, è non poco lontano da’ luoghi che assegna Goethe per teatro alla notte di Valburga. Saremmo tratti fors’anco a ricordarci il Cidno, dove Paolo Emilio ebbe sconfitto Perseo, successore di Filippo; se non che il Cidno giace a mezzodì della Macedonia, e però lungi anch’esso dal punto della nostra azione. Tuttavia, se que’ due combattimenti ch’ebbero luogo fra Romani e Macedoni non s’accordano al postutto colla topografia dataci dall’Autore, che pone a dritta il Peneo e l’Olimpo a mancina, non sapremmo qual altro indicarne. — Non si sperda di vista, che ci troviamo nella Notte di Valburga, notte riboccante di fantasime, e che, al dire di Mefistofele sul Brocken, nella Parte Prima, «non bisogna stare così sulle sottigliezze.» — Il vasto regno perdesi nella rena; la Macedonia sotto Alessandro: il re fugge; Filippo III, oppure Perseo: il cittadino trionfa; intendi Flaminio, o se ti aggrada, Paolo Emilio.