Fede e bellezza/Appendice/Osservazione dell'Autore

Da Wikisource.
Appendice - Osservazione dell'Autore

../Il diario di Giovanni nell'edizione del 1852 ../Fede e Bellezza di Niccolò Tommaseo IncludiIntestazione 10 giugno 2008 75% romanzi

Appendice - Il diario di Giovanni nell'edizione del 1852 Appendice - Fede e Bellezza di Niccolò Tommaseo


Fu taluno che volle ch’io di me stesso parlassi continuamente in una opericciuola che non meritava né tanto onore né tanti strapazzi. A me dolse non tanto delle interpretazioni indegne da costoro date alle semplici mie parole, quanto del dispiacere che ne venne a que’ gentili che m’amano. E della nobile pietà dimostratami, ch’è il più eletto onore che potesse avere il mio libro, li ringrazio di cuore. Ad essere frainteso io son uso già da gran tempo. E rammento che in una novelluccia intitolata I due baci, o dell’educazione delle donne, dov’è introdotto uno a parlare di sua sorella, fu inteso ch’io raccontassi della mia propria sorella. Il quale sbaglio dopo anni molti correggo, perch’io non m’affanno a convertire il benigno lettore, e ho fede nel tempo. Cosa che nella novella era in tutto sognata, di Fede e Bellezza è in parte vera: che alcune pagine accennano a me; né in ciò voglio mi sia scusa l’esempio, non imitato perché ignoto a me allora, di Lope de Vega, il quale mescolò l’invenzione col vero parlando di sé. Le opere dell’arte giudicansi dal loro proprio intendimento ed effetto, non già dagli esempii o rincontrati a caso o deliberatamente seguiti. Né io diedi quella per pretta storia: né permetteva di prenderla per tale il confronto de’ luoghi e de’ tempi. Riguardato com’opera d’arte, veggo adesso io più chiaro ch’altri mai, quanto sia grave difetto confondere il vero all’immaginato; ma dal fallo letterario al morale peccato ci corre. Quanto ivi entro sia il vero reale, quanto l’ideato e trasfuso da casi simili; quali le confessioni del male, quali i desiderii, soddisfatti o non soddisfatti, del meglio, io non dirò. Lascio arbitrio all’anime buone sentenziare che tutte le buone qualità sien nel libro, e nell’uomo le triste.

Gente che leggono la Sand e il Balzac; gente che amano il Byron e il Goethe; cui non pare punto contraria a moralità la tranquill’arte che adopra sovente quel gran pittore lo Scott a minuziosamente dipingere il male e il bene senza giudicarlo quasi punto; gente siffatta non credevo avessero a menar rumore d’un "umile raccontino" dove gli errori dell’anima sono dal dolore, dall’affetto e dalla fede espiati. Che fosse libro da servire all’educazione delle fanciulle, non fu mai detto da me; ma so che fanciulle ne leggono di più dannosi. E quanti ce n’è moralissimi, e non opportuni a tutte le condizioni e le età!

Il mio persuade egli il male? Lo giustifica, lo abbellisce, o copre di falsi nomi? No. Hai confessione ed emenda; hai quello di ch’è composta la storia di tante anime nobili e venerate. Se dovessimo dal libro dell’umanità strappare le pagine che attestano il male, tutto lo strapperemmo. Ma il Purissimo che nella sua stirpe volle i nomi di Tamar, di Raab, e di quella che fu d’Uria (senza contare gli errori degli uomini del suo lignaggio, errori non tutti palesemente lavati da atti contrarii) questi c’insegna a non isfoggiare le scrupolosità farisaiche; essere indulgenti ad altrui, severi a noi stessi. Rileggete il Vangelo, e più storie ci troverete di falli perdonati che di virtù immacolate: troverete il peccatore mutato, che in certa guisa è anteposto in amore all’uguale bontà dell’uom pio: sulla donna non pura vedrete con che abbondanza versate le acque di vita.

Raccontare il male con diligenza quasi amorosa, o con tentatrice compassione, o con sbadataggine d’anima depravata o spietata, codesto nuoce; e codesto è il vezzo de’ tempi. S’i’ avessi palliato il vizio, addobbatolo, e’ trovava grazia negli occhi di certuni i quali non amano né specchi ned echi. Ma codesto io non volli: volli confessione franca del male, non iscusa sfacciata: volli non addormentare il sentimento del dovere, ma scuoterlo: volli adoprare que’ tre grandi sanatori delle piaghe del cuore, que’ tre grandi strumenti continovi del mirabile nel dramma della vita: la fede, l’affetto, il dolore.

Anco queste moralità mi pareva che potesse fornire l’umile libro: — per leggieri passi avviarsi l’anima a gravi cadute: — la leggerezza dell’educazione essere, massime in donna, fomite corruttore: — nell’affetto materno e nelle memorie di quello essere una potenza dalla qual pende, così nel bene come nel male, il destino di tutta forse la vita. E mi pareva d’avere accennato, come il desiderio intemperante del meglio, quando venga non solo da ambiziosa vanità, ma pur da debolezza soverchio altera, è stimolo di colpevoli affanni; come all’anime erranti la religione è rifugio dalla disperazione (intendo non tanto il disperare della gioia quanto il disperare della virtù), come la via più corta ai più sconsolati dolori è la folle allegria. Non so s’io scolpissi nel marmo sovente indocile della parola; ma certo intravedevo come imagine più che terrestre questo pensiero: che lo scrittore e la donna, per poveretti che sieno, e fin colpevoli, hanno tuttavia dignità, se non abbiano orgoglio, se della povertà non vergognino, se non s’avaccino ad abbandonare quella come una compagnia indegna. Paragonando lo scrittore alla donna, io credo onorare più lui, che lei: perché l’uomo uscì dal fango, la donna dall’animato seno dell’uomo. Ella è la più viva carne di lui, la creazione di Dio nell’ora del riposo innocente e delle intime visioni.

La donna ch’io dipinsi, è di quelle che non vendono sé, ma sono vendute, inconsapevoli: men ree di quel che giudichi il mondo crudele, perché della corruzione non hanno i solletichi né il lucro, ma la vergogna e le lagrime. Questa ch’io dipinsi, non amò dell’uomo né l’oro, né i titoli, e nemmen la bellezza; amò la speranza dell’amore promesso; cercò per illegittime vie le gioie legittime: fu piuttosto delusa che illusa. Non tradì, fu tradita; le occasioni cansò, le respinse per anni: del primo degno affetto che rincontrasse, cercò rendersi degna, e divenne degna; si fermò sul pendio; fin nel male consumò sacrifizi virtuosi, che forse hanno merito innanzi a Dio più che qualche virtù fredda e non tentata e superba. Io misi in bocca di lei alcune parole, e d’alcuni atti o pensieri l’aggravai, che si deformano da quella immagine ch’i’ avevo in mente della donna traviata e non perversa; immagine ch’io non intendevo abbellire di mendaci candori. Di codeste non molte parole e pensieri mi chiamo in colpa; e nella presente ristampa parecchie ne tolgo o ne tempero. Dell’avere rappresentata lei errante, e pur non indegna dell’affetto d’uomo stanco del mondo, e non innocente d’innanzi a Dio, mi compiaccio. Al pregiudizio che nella donna errante imprime sigillo d’infamia, e la sprofonda e tiene confitta nel male, egli è debito d’umanità contrastare e con parola e con opera. La differenza del sesso non muta la legge morale: né dal fallo commesso con certe precauzioni e sotto certe guarentigie, al fatto imprudente, dee porsi distanza così terribile come dall’onestà al vitupero. Havvi certa imprudenza che attesta la schiettezza dell’anima; havvi un ritegno impudente: havvi un errore coraggioso, e una vergogna codarda. Chi sa meditare così saviamente il peccato da sottrarlo alla luce, è doppiamente reo, perché freddo: e certe anime sono disprezzate non già perché corrotte, ma perché non corrotte abbastanza.

Chi dipinge il male non seguìto o da pena o da emenda, quegli o lo raccomanda, o lo fa detestare ai buoni con avversione arida e spietata, agli erranti con disperato rimorso. Ma rappresentarlo punito o espiato, gli è un rendere onore alla virtù, un aiutare a quelle altezze le deboli anime umane con la speranza del perdono e del rinovellamento.

Notate, prego, che e le parole e gli atti de’ due, e tutto il libro spira riverenza umile, e desiderio accorato alla pura virtù. Il male quivi non è mostrato come via inevitabile al bene: ma, posto il male, è dimostrata necessaria l’umiliazione e l’inquietudine; la pena è data come necessità redentrice. Spira dal libro pietà degli umani dolori; ma insieme dispetto di que’ beni che falsamente promettono d’attutarli: dico le ricchezze, gli onori, la scienza. La gratitudine al benefizio, ma più ancora all’affetto, senza il quale ogni benefizio è insidia od insulto; lo studio riverente de’ misteri del cuore, ma per più veracemente esporre, non già per freddamente sentenziare: il bello dell’arte schiettamente amato, ma con amore più religioso il bello della natura: rispettato il passato, ma non chiusi gli occhi al divino avvenire: anco queste a me parevano moralità di quel povero libro, da trovare grazia negli occhi de’ più pietosi.

Fatto è che anime non ignobili e non immonde lo lessero con indulgenza: altri con lagrime; né di sozza cosa si piange. Altri dopo lettolo senza scandolo, se ne scandalezzarono avvertiti da altrui. Ma gli era destino che scrittori barbari avessero ad insegnarmi la lingua, e femmine sfacciate il pudore.

Questa è norma quasi sicura dell’umana virtù: non maledire al male vero, non affermare il male incerto, non mettere in mostra il nascosto, non lo ingrandire, non lo presentare staccato dal bene che lo scusa od emenda. Colui che a parole suscettive di significato innocente attacca un senso turpe, se non è anima sudicia, è anima ignobile; se non è reo, è un disgraziato che convisse con abbietti, e non crede all’altrui dignità.

La pecca di certi critici da giornale o da strada è mettersi in capo un’idea che non è l’idea dell’autore, e giudicando a norma di quella, argomentare che il libro è uno sproposito o un’iniquità. Presero quest’umile raccontino insieme e come la vita d’un letterato, e come un trattato di morale e come un romanzo: e qui convien dire che le voci sparse da taluno a non so che fine prima, e le lodi perfide date poi, falsarono il concetto del modesto lavoro, il qual non era che uno sfogo d’affetti osservati o provati, e di sommesse armonie. Se l’invenzione poca, e chi dice che si volesse qui fare sfoggio d’invenzione? Chi dice che l’invenzione, quale la intendono certa gente, cioè l’ossatura del componimento senza la vita delle forme e de’ colori, sia il bello sovrano? La sola norma, ragionevole e onesta di giudicare i lavori dell’arte è notare il falso ed il brutto; vedere se questi prevalgano al vero ed all’elegante.

Quanto al penetrare nelle intenzioni dell’autore, codesto è da pochi; e l’autore che lo pretendesse, sarebbe poco meno ingiusto de’ critici che lo frantendono, diventerebbe quasi un critico anch’egli. Per esempio, furono notate le troppe dure parole ch’io nel trentanove scrivevo intorno alla Francia, io che da’ Francesi non ebbi se non favori: né certamente era debito de’ biasimatori sapere che io facevo per isdegno del vedere in Italia seguite servilmente da tanti le men buone tra le cose di Francia. Adesso che siamo all’eccesso contrario, io per la medesima ragione, cioè l’affetto all’Italia, ho mutato linguaggio, e però tolto anche di qui tutto quasi quel che suonava troppo duro, ed era, confesso, in parte non giusto. Ma di tale ingiustizia gl’Italiani men ch’altri dovevano farmi colpa; o riprendendo il fatto notare l’intenzione, se avessero potuto o voluto avvedersene.

D’una colpa rinfacciatami da taluno molto fieramente, non saprei ravvedermi: dell’uso fatto di certi modi toscani che non si trovano nella Gerusalemme del Tasso né nei Dizionarii del dialetto milanese o di quello di Napoli. Dicano ch’io avrei potuto usarli meglio que’ modi; e diranno forse vero; ma affermare che nel linguaggio famigliare, in quel delle arti e delle scienze de’ corpi, s’abbiano a scegliere solo i modi comuni e noti agl’Italiani tutti quanti, codesta è una di quelle molte libertà che, se fossero possibili, si confonderebbero con la tirannide. Del resto gli spregiatori del volgare toscano possono fare una cosa; cancellare dalla Commedia di Dante e da quelle del Machiavelli e dall’opere del Galileo e del Redi, tutti i vocaboli troppo toscani; poi scrivere narrazioni e dialoghi nella lingua comune, evitando con ribrezzo i modi che non sieno usitati per tutta insieme l’Italia: e munita così la nazione di grandi e immortali modelli, senza tanto adirarsi contro i librettacci triviali, li lascino andare al più presto nell’oblivione, e non prolunghino a quelli, co’ loro sdegni possenti, lo scandalo della vita.

Note

  1. Questa nota in difesa del romanzo fu pubblicata primamente nel volume Scintille (Venezia, Tasso, 1841, pagg. 160-65), e poi riprodotta, con qualche lieve variazione e col titolo "Osservazione dell'Autore", in appendice all'ultima edizione del romanzo (Milano, Borroni e Scotti, 1852), dalla quale è qui riprodotta.