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Federconsorzi: storia di un'onta nazionale/III/3

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Un fallimento cento interrogativi

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Per capire il processo che si apre sulla bancarotta della Federconsorzi è necessario ricordare qualche antefatto, e fissare il quadro al momento in cui i giudici hanno identificato l'inizio della prassi che avrebbe portato al disastro, l’inconsulta moltiplicazione delle spese correnti, delle consulenze, delle munifiche regalie


Il processo aperto a Roma contro gli amministratori della Federconsorzi, imputati di bancarotta fraudolenta, è destinato a scrivere un capitolo intero della storia agraria nazionale: un capitolo essenziale, siccome il crack ha interrotto la vicenda centenaria del grande organismo, ha chiuso cinquant'anni di preminenza democristiana, attraverso la Coldiretti, signora della Federconsorzi, nelle campagne. Di quella storia il dibattimento romano apre, insieme, un capitolo nuovo, che dovranno scrivere gli alfieri delle forze agrarie di oggi e di domani, obbligati a organizzare i propri associati in forme ancora da immaginare, che dovranno essere tali da sopperire alla mancanza dell'apparato di cui il processo ha sancito la disgregazione.

Direttore nuovo, nuova strategia

Dovrà seguire il dibattimento con eguale attenzione, quindi, chi voglia capire il passato meno vicino dell'agricoltura italiana e chi voglia capirne il passato prossimo, quel passato prossimo senza comprendere il quale è impossibile penetrare il presente, protendersi verso il futuro. Ma per capire le circostanze che il pubblico ministero e gli avvocati analizzeranno in un'aula del Tribunale di Roma è necessario ricordare qualche antefatto, e fissare il quadro della vita dell'organismo nell'anno in cui i giudici romani postulano avere avuto inizio le pratiche amministrative che hanno stigmatizzato con l'imputazione per bancarotta fraudolenta: il 1985. E' il quarto anno della presidenza di Ferdinando Truzzi, opaca e amorfa dall'autunno del 1982, quando al Teatro municipale di Piacenza la recita dell'intesa con le forze di sinistra è stata trasformata nella commedia della vergogna da Arcangelo Lobianco, e del direttore che Lobianco ha affiancato a un presidente che vuole imbelle, Luigi Scotti, il ragioniere che ha diretto senza fulgori il Consorzio agrario di Milano. Il ragioniere milanese si è seduto sulla poltrona che è stata di Leonida Mizzi, il ragioniere piacentino che ha costruito, sottraendo allo Stato per arricchire l'agricoltura, la fortuna della Federconsorzi nel dopoguerra, e di Enrico Bassi, anch'egli ragioniere, anch'egli piacentino, che di Mizzi è stato l'erede fedele, avendo preservato i cespiti accumulati dal predecessore, tutelando con gelosia le chiavi dei forzieri da cui un coro di voci pretendeva elargizioni e elemosine.

Quando Fernando Truzzi assume la presidenza, e Scotti la direzione, i forzieri dell'ente sarebbero, secondo i testimoni più attendibili, ancora traboccanti, e i cespiti finanziari costituirebbero ancora il perno di un contesto di attività commerciali che, seppure minacciate da organismi baciati da più generosi favori governativi, le cooperative "bianche" e "rosse", conservano l'antica capillarità alle latitudini diverse della Penisola. Chi conosceva gli ingranaggi dell'apparato assicura che, difesa con maggiore duttilità sul piano politico e, soprattutto, riorientata secondo una strategia economica aggiornata, grazie ai tesori che conservava la Federconsorzi avrebbe potuto riacquistare il ruolo antico al centro dell'economia agraria nazionale: titoli e partecipazioni racchiuse nel forziere avrebbero offerto, a chi avesse impugnato con maestria il timone dell'organismo, la potestà di determinare, non più insindacabilmente ma, ancora, autorevolmente, gli equilibri dell'agricoltura italiana.

L'elemosina ai consorzi in dissesto

Gli scrigni dell'organismo saranno svuotati con una rapidità che all'eclisse dell'ultimo custode l'osservatore più malevolo sarebbe stato incapace di immaginare. La prassi usata per dissipare una delle maggiori concentrazioni di ricchezza immobiliare e mobiliare d'Italia sarà la benevola acquiescenza alle negligenze dei consorzi agrari gestiti, da Torino a Siracusa, senza dinamismo commerciale né perizia amministrativa. Guadagnare distribuendo fertilizzanti e mangimi, compravendendo frumento e semi di girasole si è dimostrato, fino dal crepuscolo degli anni '70, impegno sempre più arduo. Qualche consorzio riesce nell'impresa per le doti di un direttore particolarmente abile, ma, nel suo insieme, la flotta consortile non aggiorna metodi e procedure, e la maggioranza dei sodalizi sopravvive vendendo ogni anno la sede di un'agenzia che, costruita in periferia all'alba del Novecento, è stata fagocitata dalla crescita urbana, e, per la vastità, può trasformarsi in supermercato o in filiale bancaria.

Ma un consorzio in difficoltà continua a galleggiare anche perché ha compreso che a Roma non siede più Leonida Mizzi, che al sodalizio che non pagava i trattori sospendeva le forniture, o pretendeva, in garanzia, la cessione delle perle immobiliari. Truzzi non è un manager, è un sindacalista contadino, e il deputato interessato a scongiurare la chiusura del consorzio del suo collegio ha più di un argomento per commuovere il vecchio parlamentare. Se il presidente della Federconsorzi, poi, non lo ascoltasse, sa di poter ricorrere a Lobianco, che, per ribadire il vassallaggio di Truzzi, ordinerebbe al direttore generale di postergare qualunque scadenza. I rapporti di dare e avere tra i consorzi provinciali e la casa madre sono, ormai, affidati al capriccio dei rapporti personali, ed i crediti verso i consorzi stanno raggiungendo un'entità da capogiro quando a palazzo Rospigliosi si decide di congedare Ferdinando Truzzi: per i meriti preclari nella gestione del portafoglio cambiario, con una scelta inusuale nelle vicende societarie il 20 aprile 1989 Luigi Scotti viene promosso presidente.

All'insegna della nuova presidenza il cedimento innescato nel corso del mandato di Truzzi si trasforma in valanga irreversibile: qualche consorzio non paga, la Federconsorzi continua a rifornirlo, qualcun altro tenta di ripetere l'esperienza, l'esito conferma che pagare non è indispensabile. Nell'intera compagine si radica l'idea che onorare le cambiali

rilasciate alla Federconsorzi è fastidio superfluo. Da poche decine di miliardi quando aveva assunto la presidenza Truzzi, i crediti verso i consorzi in dissesto salgono a 1.126 miliardi nel 1987, a 1.437 l'anno successivo, a 1.728 nel 1989. La valanga varca la soglia dei 2.000 miliardi nel 1990, tocca 2.349 all'alba del 1991. In meno di due lustri le casse che custodivano centinaia di miliardi di titoli e valute sono prosciugate, al posto di valori e banconote traboccano di cambiali inesigibili: tali perchè il consorzio debitore è al collasso, o tali perché un boiardo locale ha capito che Lobianco e Scotti non sono in grado di esigere quanto dovrebbero pretendere.

La folle corsa all'indebitamento è favorita, si deve sottolineare, dalle banche, pronte a erogare qualunque cifra a un organismo il cui patrimonio, ingente, gode fama di tutto poter garantire, è ignorata dall'istituto che le banche dovrebbe controllare, non è ostacolata dal Ministero dell'agricoltura, che sulla Federconsorzi dovrebbe esercitare la propria vigilanza, che di nulla si accorge, nulla controlla, nulla eccepisce. Quando il monte dei debiti avrà toccato i 5.000 miliardi le banche coinvolte di accorgeranno di non disporre che di 16 miliardi di garanzie ipotecarie.

Parte dei crediti viene ceduta, in misura crescente, all'Agrifactoring, una società finanziaria creata dalla Federconsorzi, dalla Banca del lavoro e da altri istituti di credito, che a rendere più inestricabile il groviglio delle relazioni debitorie intesse sistematici scambi di cambiali con la società Serfactoring, costituita dall'Enichem e dalla stessa Banca del lavoro. Siccome dell'Agrifactoring è presidente lo stesso Scotti, la corrispondenza dei ruoli proporrà una circostanza di cospicuo rilievo ai giudici che imputeranno agli amministratori della Federconsorzi il reato di bancarotta fraudolenta. L'intreccio, e la cessione in pegno, alla società finanziaria, alla vigilia del collasso, di titoli che non le erano stati offerti in precedenza, la cui cessione tardiva avrebbe costituito pregiudizio dei creditori diversi, produrrà conseguenze giudiziarie significative, non porterà ad aggravare di un capo di accusa ulteriore l'imputazione di bancarotta fraudolenta che colpirà Scotti insieme ai membri del Consiglio di amministrazione e del Collegio sindacale responsabili dell'amministrazione dell'organismo dal 1985 alla data del fallimento.

Spese di gestione e consulenze

Seguendo lo spartito che si ripete in tutte le sequenze fallimentari, aggravandosi la situazione non ci si cura più di contenere le spese: la stampa, che seguirà con curiosità i colpi di scena della liquidazione, riferirà una scoperta singolare dei commissari, che verificheranno un prodigioso aumento, prima del tracollo, delle spese di gestione, passate, tra l'88 e l'89, da 90 a 171 miliardi. Negli ultimi due anni l'ente avrebbe erogato 25 miliardi a consulenti e consiglieri: sul Titanic che navigava verso gli abissi la coppia Lobianco Scotti avrebbe organizzato la più smagliante festa danzante.

Siccome, peraltro, la voragine deve essere dissimulata con artifici contabili, al vertice dell'organismo debbono essere sempre meno gli uomini a conoscenza delle cifre, che deve poter manipolare solo il ragioniere-presidente, che risponde, a sua volta, personalmente al presidente della Coldiretti. I cultori di economia aziendale inorridiscono di fronte al cumulo di competenze che sarebbero state accentrate da Scotti, e alla caterva di anomalie amministrative in cui si sarebbe prodotto prima un direttore generale esonerato da ogni controllo, poi un presidente che, mutato ruolo, deve tutelare i legati che ha lascito al successore.

Per assolvere al secondo ruolo i nuovi diarchi della Federconsorzi, patetica replica del binomio Bonomi-Mizzi, scelgono Silvio Pellizzoni, uno dei "manager" assunti sul mercato della competenza industriale nella stagione delle velleità di rinnovamento di Fernando Truzzi. Nella sicura attesa, deve presumersi, del collasso, il nuovo nostromo della barca alla deriva si assicura uno stipendio che esonda oltre gli 800 milioni annui, e condizioni correlate per la liquidazione. Per le guerre disperate, in tutti i tempi i capitani di ventura hanno preteso emolumenti che ripagassero il futuro disonore.

Dilapidato il tesoro, l'organismo agromercantile di cui esso assicurava la vitalità si affloscia, per singolare coincidenza, alla vigilia della celebrazione di un secolo di attività. La successione degli eventi che conducono, tra la fine del 1990 e i primi mesi del 1991, al collasso, è drammatica: siccome quegli eventi si realizzano tra segreterie politiche e discreti salottini bancari, la loro ricostruzione oppone difficoltà considerevoli. Chi sfidi quelle difficoltà dipanando l'aggrovigliata matassa giunge alla singolare constatazione che delle circostanze che hanno condotto al crollo è impossibile giungere ad una ricostruzione univoca, siccome i testimoni di fede socialista e quelli di fede democristiana offrono degli eventi cruciali versioni significativamente difformi, entrambe in contrasto con quella degli uomini vicini ad Arcangelo Lobianco. Nel paese di Pirandello, della Federconsorzi non si può proporre la storia del crollo, univoca e certa, si è costretti a proporne tre. Senza presumere di identificare, tra le tre, quella vera, riconoscendo, anzi, che, essendo la storia elaborazione intellettuale sarebbe ingenuo pretendere ne esistesse una sola, il proposito di ricostruire gli ultimi giorni della grande holding impone di esaminare, con la stessa fedeltà, tre racconti diversi.


Da Terra e vita n° 1, 10 genn. 1998

Rivista I tempi della terra