Filocolo/Libro quinto/92

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Libro quinto - Capitolo 92

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Stato Florio in Roma più giorni in allegrezza e in festa co’ suoi, dalla cara madre un singulare messo gli venne, narrante il re suo padre gravissima infermità sostenere a Corduba, per la qual cosa egli dovesse sanza indugio tornare. Le quali cose udite Florio, egli e Mennilio con pochi compagni, lasciando Biancifiore con Clelia, si misero in cammino, e con istudioso passo dopo molti giorni pervennero a Corduba, vivendo ancora il re, ma molto alla morte vicino: al quale essi entrarono e con pietoso viso di suo essere domandarono. I quali quando il re vide, contento molto disse: - Omai, o signor mio Domeneddio, prendi l’anima mia quando ti piace -. Poi a Florio rivolto così gli parlò: - Caro figliuolo, da me sopra tutte le cose amato, io non posso più vivere: la lunga età e la grave infermità mi mostrano la vicina morte, la quale io certo non debbo mal volontieri prendere, però che lungamente vivuto sono, e delle sue ragioni ho più tosto prese che ella delle mie. E appresso, avanti ch’ella abbia la mia vita occupata, assai di quello ch’io ho disiderato e che ora fu, io non credetti mai vedere, ho veduto: però qualora viene lietamente la riceverò. La quale poi che del mondo tolto m’avrà, e renduta l’anima al futuro secolo, tu del presente regno, del quale io lungamente re sono stato, prenderai la corona e ’l reggimento. Per che io all’altre cose principalmente ti priego e comando che te prima regghi e governi, sì che coloro, i quali tu avrai a reggere, di te non si facciano con ragione scherno, e questo faccendo, niuno sarà che di bene essere retto non speri. Siati la superbia nimica, e quanto puoi la fuggi, però che ne’ suggetti, seguendola, suole rebellazioni e indegnazioni d’animo e inobedienze generare: e poche cose sono nel cospetto di Dio tanto noiose quanto quella, però vivi umilemente, e co’ tuoi suggetti sii familiare quanto si conviene. Né l’iracunda rabbia sia o duri in te, la quale suole inducere subiti movimenti e sconci, li quali, poi passata, sogliono dolere. Niuna vendetta sia da te presa adirato, però che l’ira ha forza d’occupare l’animo sì che egli non possa discernere il vero: dunque, passata quella, con discrezione procedi sopra quello per che t’adirasti. E ben che talora sia fallo che aspra vendetta meriti, mitiga i tormenti, e dove si conviene perdona volentieri: egli è a’ signori gran gloria l’avere perdonato. Né ti muova invidia a dolerti degli altrui beni: ella suole, mostrando gli altrui regni più che i suoi uberosi, fare sanza utilità dolere altrui de’ beni del prossimo, e per consequente disiderare la sua ruina: e di quella, s’avviene, far lieto altrui. Oh, che iniqua letizia è questa, e quanto da fuggire, con ciò sia cosa che le vie della fortuna sieno molte e varie, e strabocchevoli i suoi movimenti! Tale rise già degli altrui danni, che de’ suoi dopo picciol tempo pianse, e funne riso. Dolersi con giusto animo delle altrui calamità non fu mai male. Rallegrati adunque degli altrui beni, e di quelli che tu possiedi ringrazia Iddio. E l’avarizia, divoratrice e insaziabile male, del tutto da te fa che lontana sia: più che tu abbia non t’è di necessità disiare. I termini del tuo regno gran circuito occupano, i quali, se tu me ne crederai, d’ampliarli non entrerai in sollecitudine: spesse volte, per avere l’uomo più che si convegna, quello che convenevolemente avea, ha perduto. Né ti metta costei in disiderio di ragunar tesori, i quali amara sollecitudine sono dell’uomo, e per quelli multiplicare in alto monte, far fare forze a quelli i quali più tosto per la loro vita poter governare ne bisognerebbono, che esser loro tolti quelli che hanno. Dispettevole cosa è nel prencipe l’avarizia, la quale ove dimora conviene che giustizia se ne parta. Grandi furono i miei tesori, né quelli vivendo ho spesi, né ora morendo mi possono un’ora di vita accrescere né seguirmi. Sii adunque liberale, e con retto giudicio e onesto volere liberamente dona, e quelli co’ tuoi suggetti, non dimenticando gl’indigenti, godi: e guardati non forse tanto liberale essere disideri, che tu in prodigalità cadessi, la quale a non meno mali altrui conduce che l’avarizia. Guardati similemente che l’animo accidia non ti occupi, la quale in pensieri suole altrui mettere molto sconci, e per consequente alle operazioni: ella fa gli uomini molli e miseri di cuore, e pigri alli loro beni, le quali cose in signore né in alcuno altro sono in alcuna maniera da consentire. La faccia del prencipe dee essere lieta nel cospetto del popolo suo; e nelle convenevoli imprese dee essere magnanimo, e fuggire, essercitandosi, i vili e disonesti pensieri: la qual cosa e tu similmente fa. Sia il tuo essercizio continuo e studii nelle virtù e nel ben vivere de’ tuoi suggetti, le cui utilità e riposi più che le tue medesime dei pensare. Sia il tuo studio in tenergli in uno amore, in una pace e unità, però che il regno, in sé diviso, fia distrutto. Non sono i grandi onori largiti e le gran cose commesse, perché ne’ morbidi letti dimoriamo oziosi; a noi, sì come pastori, a popoli come mansuete pecore ne conviene vegghiare: la qual cosa, se saviamente viverai, farai. Quanto puoi ancora caccerai da te i golosi disii, i quali mettendo ad effetto deturpano il corpo e mancano la vita: e già, come tu puoi avere udito, più uomini uccise la cena che il coltello. I cibi con disordinato appetito presi superflui, generarono già molti mali: l’uomo per quelli perde il lume della mente, e se medesimo non conosce, né Iddio, che è peggio. E in cui che questo vizio sia da biasimare più che in altrui, è in coloro che hanno altrui a reggere. Però usa i cibi acciò che tu viva, e non vivere acciò che tu i cibi usi. Poca cosa la natura contenta, oltre alla quale, quantunque si piglia genera danno, e è chiamato con ragione vizio. Similemente ti sia la lussuria nimica, la quale, con ciò sia cosa che con tutti gli altri vizii da combattere sia, sola è da fuggire. Questa del corpo e della borsa è nemica con la sua corta e fastidiosa dolcezza e singulare laccio dell’antico nemico ad inretire l’anime de’ cattivi. Oh, quanti e quali mali già costei ha fatti evenire! Quello rettore che l’userà, darà a’ suoi uomini materia d’enfiare, de’ quali enfiamenti niuna altra cosa resulterà se non o tradimento o insidie: però schifala. A te è la tua Biancifiore, bellissima e d’alta schiatta nata, la quale tu lungamente hai amata e con sollecitudine guadagnata; guardalati, e siati cara, e sola come si conviene ti basti sanza più avanti cercare. E siati a mente che il guardarsi da’ vizii non basta, sanza operare le virtù, a gloriosa vita volere: e però, o caro figliuolo, imita quelle, e quanto puoi l’adopera. Laudevole cosa e necessaria molto nei prencipi è la prudenzia, sanza la quale niuno regno bene si governa. E similmente sanza giustizia niuno regno dura: e poi che i ladroni, acciò che lungamente duri la loro compagnia, in molte cose i suoi ordini servano, quanto maggiormente i prencipi la deono volere servare! Adunque, e tu la serva, e a ciascuno con intera ragione il suo debito rendi: né ti muova amore, odio, amicizia, o parentado, o dono a giudicare con torta bilancia. E similemente ne’ grandi uomini fortezza d’animo si richiede, imperò che quanto maggiori sono gli uomini, tanto maggiori sogliono e possono le avversità avvenire; e però più forza a sostenere loro che agli altri si richiede, non forse negli avversi casi mostrando mestizia, negli animi de’ suggetti pusillanimità generino. E in tutte le cose fa che temperato sia: la temperanza in ogni cosa dimora bene. Ella multiplica le laudi e gli onori, e aumenta la vita, e la sanità serva sanza affanno. E vivi caritevole, ciascuno come te medesimo amando, ma non i suoi vizii. E fedele a Dio, nella sua misericordia spera, la quale la morte de’ peccatori non vuole, ma la vita, acciò ch’elli si penta e viva, acciò che tu per queste possi all’etterna gloria pervenire, quando della tua vita i termini compierai, sì come io ho già compiuti, per quello che mi paia sentire. E acciò che i vizii fuggire e le virtù seguire con intero animo possi, sempre davanti agli occhi porta la tua fine, la quale con diritto senno pensando, conoscerai di questo mondo niuna cosa portarsi se non le buone e virtuose opere. E tra gli altri sia tuo pensiero questo, che queste cose, le quali tu possederai e che io possedei, non ne sono date per nostra singulare virtù, nella quale gli altri uomini passiamo, anzi molte volte meglio che gli altri la nostra casa reggere non sapremmo, ma per divina grazia l’abbiamo e reggiamo. E però che graziosamente ricevute l’abbiamo, graziosamente ritenere e dare le dobbiamo. Adunque onestamente vivi, e altrui non ledere, e a ciascuno quello che suo è dà. E onora la tua madre sopra tutte le cose del mondo, acciò che la sua benedizione, quando allo infallibile passo mi seguirà, meriti. E i tuoi figliuoli correggi e gastiga ne’ teneri anni, e ne’ virtuosi costumi gli fa esperti, acciò che la loro vita ti sia consolazione. E priegoti che l’anima di me vecchio tuo padre, la quale in tanto t’ha sopra tutte le cose amato, che spesso per te sé a se medesima è uscita di mente, ti sia raccomandata -. E queste parole dicendo, allentando a poco a poco la voce, finì le sante ammonizioni. E data al figliuolo la sua benedizione, e teneramente con lagrime baciatolo, gridò: - Io me ne vo -; e seguì poi: - O signor mio, ricevi nelle tue mani l’anima del tuo servo -. E così dicendo rendé l’anima al suo Fattore. La qual cosa veggendo Florio, con pietosa mano chiuse gli occhi al moriente padre, e piangendo i lieti vestimenti abandonò e pigliò i lugubri con molti compagni, tra’ quali Mennillo similemente prese.