Filocolo/Libro terzo/49

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Libro terzo - Capitolo 49

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Zeffiro ancora non era stato da Eolo richiuso nella cavata pietra, anzi soffiando correa sopra le salate onde con le sue forze, per la qual cosa i mercatanti prosperamente con la loro nave andavano a’ disiderati liti. Ma Biancifiore, che ora conosceva manifestamente il tradimento dello iniquo re, quivi venuta con continuo pianto, con più grave doglia veggendosi dalli occidentali liti allontanare, incominciò a piangere, e a dire così: - Oimè, dolorosa la vita mia, ove sono io portata? Chi mi toglie da’ dolci paesi ov’io lascio l’anima mia? O Amore, solo signore della dolorosa mente, quanti e quali sono i mali, che io, per essere fedelissima suggetta alla tua signoria, sostegno! Ma tra gli altri notabili, come tu sai, io per te ebbi a morire di vituperevole morte, avvegna che per te simigliantemente da quella campassi, e ora, come vilissima serva venduta, per te, non so ove io mi sia portata. Se queste cose fossero manifeste, chi s’arrischierebbe mai a seguire tua signoria? Deh, perché non mi uccidevi tu avanti, quando ne’ begli occhi di Florio m’apparisti, che ferirmi, acciò che io per la tua ferita tanto male dovessi sostenere? Oimè, ch’io non so quali liti saranno da me cercati, né alle cui mani io misera debbo venire. Ma a niune verrò che iguale tristizia non sia la mia, poi ch’io lascio il mio Florio. Dove, o misera fortuna, ricorrerò per conforto, con ciò sia cosa che ogni speranza fuggita mi sia di potere mai lui rivedere? Io sono portata lontana da lui, e egli nol sa, né sa dove: dunque dove sarò io da lui ricercata io come potrò lui ricercare, ché la mia libertà è stata venduta a costoro infiniti tesori? Ahi misera vita, maladetta sii tu, che sì lungamente in tante tribulazioni mi se’ durata! O dolcissimo Florio, cagione del mio dolore, gl’iddii volessero che io mai veduto non ti avessi, poi che per amarti tante tribulazioni e tante avversità sostenere mi conviene. Ma certo se io mai riveder ti credessi, ancora mi sarebbe lieve il sostenerle. Oimè, or che colpa ho io se tu m’ami? Io mi riputai già grandissimo dono dagl’iddii l’avere avuto da te soccorso, quando per te credetti morire nelle cocenti fiamme: ma certo io ora avrei molto più caro l’essere stata morta. Io non so che mi fare. Io disidero di morire e intanto mi conosco miserissima, in quanto io veggio alla morte rifiutarmi. Ora faccino di me gl’iddii ciò che piace loro: niuno uomo fu mai amato da me se non Florio, e Florio amo e lui amerò sempre. Nulla cosa mi duole tanto, quanto il perduto tempo, nel quale già potemmo i disiderati diletti prendere e non li prendemmo, ma quello ozioso lasciammo trascorrere, pensando che mai fallire non ci dovesse: ora conosco che chi tempo ha e quello attende, quello si perde. O misero Fileno, in qualunque parte tu vagabundo dimori, rallegrati che io, cagione del tuo essilio, ti sono fatta compagna con più misera sorte. A te è licito di tornare, ma a me è negato. Tu ancora la tua libertà possiedi, ma la mia è venduta. Gl’iddii e la fortuna ora mi puniscono de’ mali che tu per me sostieni: ma certo a torto ricevo per quelli ingiuria, ché, come essi sanno, mai io non ti mostrai lieto sembiante se non costretta dalla iniquissima madre di colui di cui io sono. Oimè, quanto m’è la fortuna contraria! Ma certo ciò non è maraviglia, con ciò sia cosa che i figliuoli debbano succedere a’ parenti nelli loro atti: chi più infortunato fu che il mio padre e la mia misera madre, avvegna che di tutto io fossi cagione se io di ciò fui cagione, dunque maggiormente conviene che io infortunata sia, anzi posso dire che io sia esso infortunio. Rallegrinsi le loro anime ove che esse sieno: io porto pena del commesso male. O iddii, provedete alla mia miseria, poneteci fine. O Nettunno, inghiottisci la presente nave, acciò che la misera perisca. Racchiudi sotto le tue onde in un corpo tutte le miserie, acciò che il mondo riposi: elle sono tutte adunate in me; se tu me nelle tue acque raccogli, tutte l’avrai in tua balia, e potrai poi di quelle dare a chi ti piacerà. E tu, o Eolo, leva co’ tuoi venti le tese vele, che al mio disio mi fanno lontana. Ove è ora la rabbia de’ tuoi suggetti, che a’ troiani levò gli alberi e’ timoni, e parte de’ loro uomini e delle navi? Risurga, acciò che io più non sia portata avanti. Io disidero di morire ne’ vicini mari al mio Florio, acciò che il misero corpo, portato dalle salate acque sopra i nostri liti, muova a pietà colui di cui egli è, e da capo con le propie lagrime il bagni. O almeno abassa la potenza del fresco vento che ci pinge alla disiderata parte da costoro. Apri la via agli orientali e agli austri, acciò che negli abandonati porti un’altra volta sieno gittate le tegnenti ancore, e quivi forse da Florio, che già dee la mia partita aver sentita, sarò radomandata con maggior quantità di tesori a costoro. Niuna altra speranza m’è rimasa, in niuna altra maniera mai rivedere non credo colui che è solo mio bene. Oimè, i miei prieghi non sono uditi! E chi ascoltò mai priego di misero? Io m’allungo ciascuna ora più da te, o Florio, in cui l’anima mia rimane. E però rimanti con la grazia degl’iddii, i quali io priego che da sì fatta doglia come io sento, ti levino. Pensa d’un’altra Biancifiore, e me abbi per perduta: li fati e gl’iddii mi ti tolgono. Io non credo mai più rivederti, però che veggendomiti ciascuna ora più far lontana, disperata mi dispongo alla morte, la quale gl’iddii non lascino impunita in coloro che colpa me n’hanno -. E piangendo, con travolti occhi e con le pugna chiuse, palida come busso, risupina cadde in grembo a Glorizia, che con lei miseramente piangeva.