Fior di passione (Serao)/Giuoco di pazienza
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Giuoco di pazienza.
La giovane donna si chiamava Tecla, nome duro e schioccante. Era bassa, senza nessuna nobiltà di statura, malgrado portasse la testa ritta e le spalle cadessero benissimo. Era pienotta senza esagerazione di rotondità, e pareva molto svelta nel suo busto strettissimo. Forse con l'abitudine aveva presa quell'aria di sveltezza che sembrava naturale. Si moveva con facilità, con certe mossettine carezzose che stavano bene al suo corpo di bambina felice. Aveva naturalmente un bel braccio, un po' corto, ma graziosamente rotondo, con un'attaccatura molto fine che indicava quanto fossero delicate le ossa sotto quella carne soda e fragrante di salute. La mano sembrava un cuscinetto di raso, una mano troppo morbida che non si osava stringere per timore di guastarcela. Il piede era delizioso, piccolo, sottile, inarcato, con una caviglia elegantissima: per contemplarlo, qualche volta, si dimenticava la testa. La quale aveva un singolare carattere di forza e di energia sopra quel corpo piacevolmente grassotto; era un’anomalia, una sovrapposizione bizzarra. Una testa forte su cui si ammassava una ricchezza cupa e pesante di capelli neri, intrecciati, stretti, raccolti, ma che finivano per piegare le forcinelle e per accumularsi sul collo, sfatti, a sprie semi-ritorte. Sulla fronte nè piccola frangia tagliata, nè ricciolini, nè nulla; si vedeva la nascita dei capelli gettati indietro, folta, possente, tracciando una riga nera sul bianco della pelle. Gli occhi erano nerissimi, brillanti come il jais, ma senza languori di sentimento, e senza profondità di pensiero. Il difetto grave era nelle sopracciglia, troppo nere, troppo folte, quasi riunite in mezzo, che davano una cattiva espressione al volto. Il naso aquilino piombava un poco sulle labbra sottili, un po’ tirate in dentro, molto rosse. Tutto il volto era pallido, di un pallore opaco ma non malaticcio, leggermente rosso, un’ombra appena alle guancie. Segno particolare, delicatissimo, colorito teneramente, come quello di un bambino, l’orecchio. Altro segno particolare: un neo castano, vezzoso, sulla metà del mento. Vestiva una veste da camera di raso tessuto, a piccole righe, una riga rossa, una riga gialla, una riga nera: ampia, lunghissima, tenuta ferma intorno alla vita da un cordoncino d’oro. Al collo un riccio di trina antica, molto gialla.
La scimmia si dondolava sopra un cerchio di legno, dandosi il piacere dell’altalena. Era una scimmietta ancora adolescente, tutta magra, con le membra esili; forse non sarebbe cresciuta più. Sarebbe rimasta piccola, elegante e vivacissima, come si leggeva nel furbo e mobile occhio nero. Non faceva orrore, nè schifo: faceva meraviglia, tanto le sue pose aristocratiche rassomigliavano a quelle di una damina. Anzi, per capriccio, le avevano fatti due buchi alle orecchie e portava due stelline di perle come orecchini; il che la rendeva contenta, crollando la testa come una donnina soddisfatta. Aveva anche un abituccio di velluto rosso, come quello di una bambola, fatto per lei; ma quella mattina non aveva voluto metterlo. Se ne stava tranquilla ed illanguidita nell’angolo del salotto che le era consacrato durante la giornata: alla notte Eva andava a dormire nella serra coperta di cristalli, poichè i lumi del salotto le avrebbero dato fastidio ed impedito il sonno. Lei faceva l’altalena lentamente portando ogni tanto la zampina al collo, dove portava un filo d’oro, impercettibile, ma che era il segno della schiavitù: la catenina d’oro, di maglia veneziana, che vi era attaccata, era sottilissima, ma forte. Precauzione inutile, poichè la signorina Eva era perfettamente ben educata, e non tentava scapparsene — essendo provvista di molta filosofia. Quando venivano visite, fingeva sonnecchiare, dormendo con un occhio solo. Quando le portavano le noci, le nocciuole, le mandorle brusche, allora il suo istinto bestiale si rivelava, frettoloso, vorace, gittando attorno occhiate diffidenti, come se qualcuno volesse rapirle la preda. Finite le nocciuole, faceva un grande atto di disprezzo e si richiudeva nell’apatia di una donna malcontenta di tutto. Il più strano, però, era osservarla quando, tutta sola, faceva la donnina: prima civettuola, tutta vezzi, tutta occhiate, tutta galanterie, provocante e seducente — poi di un tratto malinconica, triste, desolata, parlando, piangendo verso un essere immaginario — e dopo immediatamente sola, tranquilla, fingendo di dar il rosso alle guance impallidite dalle lagrime.
Il manicotto della signora giaceva sopra una poltroncina, gittato là per noncuranza. Era un manicotto di volpe russa, foderato di raso nero, tutto profumato come un sacchettino di odori. Pareva piccolo piccolo, capace di nascondere solo quelle manine morbide: ma egli stesso era morbido e cedeva e v’entrava dentro un piccolo mondo di cose disparate. Vi stava prima un fazzolettino bianco, di battista, tenue come una nuvoletta, come un fiocchetto di neve: il fazzolettino portava, in un angolo, una microscopica, quasi impercettibile lettera A: e la signora si chiamava Tecla ed il suo cognome cominciava con la lettera M. Ma era impossibile che il pubblico ignaro potesse scoprire quella cifra. Questo fazzolettino era a sua volta profumato di chypre, un profumo lento e voluttuoso che finisce per addormentare i nervi: un angoluccio piegato e annodato come i fazzoletti delle serve che vi mettono i denari. Vi era una carta infatti: una immagine della Madonna dei Sette Dolori. Oltre il fazzolettino vi era una piccola boccettina di cristallo smerigliato e chiusa ermeticamente col tappo d’oro; dentro vi era una sostanza bianca che poteva essere sale inglese, bicarbonato o arsenico. Non si distingueva bene. Accanto alla boccettina un minuscolo libriccino di note, legato in pelle grigia, con una violetta del pensiero, secca, attaccata sulla pelle. Dentro, nelle paginette bianche dal taglio d’oro, vi erano semplicemente certe date, ed accanto un no, un sì. Nell’ultima pagina scritta vi erano tre date e tre no.
La lettera era sulla scrivania, sotto gli occhi della signora. La busta aperta metodicamente, vale a dire col taglio della stecca che aveva tagliato nettamente una delle piegature, come colui che non ha fretta di aprire. La busta era forte, poichè la lettera dentro era molto pesante. Il francobollo straniero: veniva da Montecarlo. L’indirizzo: alla signora Giovanna Jannaccone, ferma in posta, Napoli, un nome volgarissimo, era scritto con un carattere calligrafico, rotondo, tutto a ghirigori ed a fioriture di penna: il carattere di uno scrivano, di un segretario, di un indifferente. Dentro, la lettera era composta di varii foglietti: il primo era di elegante carta inglese, dal cui angolo a sinistra era stato strappato un pezzetto su cui vi era forse una cifra, forse uno stemma. Il secondo era un foglio di carta di albergo, con l’intestazione lacerata a metà, così: Hôtel de.... Il terzo era un menu di pranzo, dietro cui era stato scritto fittamente ed in traverso. Poi veniva di nuovo un mezzo foglietto di carta inglese, poi un pezzo di carta qualunque, comune. Tutto questo era coperto di una scrittura minuta, affrettata, maschile, ma variabilissima, ora tremante e tutta sprizzature di penna, ora ferma e netta — sempre rapida. Qui le linee pendevano verso il fondo, come prese da una mollezza; più innanzi si rialzavano, diritte, uguali, quasi piene di rettitudine. Certe parole scomparivano sotto la cancellatura, alcune supplite da altre, alcune che non avevano trovato l’equivalente. Abbondavano i punti sospensivi, come se lo scrittore si fosse fermato spesso a pensare. Qui e là l’inchiostro cambiava di colore o impallidiva. In due punti era stemperato, divenuto acquoso. Ogni foglietto era firmato con la lettera A. Il penultimo era scritto disordinatamente, le parole una a ridosso dell’altra, quasi impazzite. Sull’ultimo solo una parola.
Con questi pezzi il paziente lettore ricostruisca il dramma funesto che essi formano.