Giaffà/Son Giaffà o non Giaffà?

Da Wikisource.
Son Giaffà o non Giaffà?

../Le disgrazie che può causare il denaro ../Indice IncludiIntestazione 18 giugno 2020 100% Da definire

Son Giaffà o non Giaffà?
Le disgrazie che può causare il denaro Indice

[p. 95 modifica]

Son Giaffà o non Giaffà?

Ragazzi miei: frugando tra le mie antiche carte in una brutta giornata di ozio ho trovato una vecchissima lettera che alcune centinaia di anni or sono mi spedí un bonzo cinese, proprio quello che gentilmente mi aveva fornito le notizie delle avventure di Giaffà che vi ho raccontate. La lettera mi era sfuggita; fra i tanti consigli che vi trovo e che in ogni modo io cerco di osservare, vi è raccontato un altro caso molto interessante che riguarda appunto quel matto di Giaffà, e per conseguenza, credo, un poco anche il vostro interesse.

* * *

Sempre con il naso per aria in cerca di nidi di rondini, nonostante avesse corso il rischio di [p. 96 modifica] diventare prima Mandarino e poi Imperatore, Giaffà se ne andava a spasso: ognuno sceglie giustamente il proprio mestiere o la professione e nessuno ha il diritto di contrastare tale inclinazione naturale. Quello d’andare a spasso era il mestiere-professione scelto da Giaffà, e che molti di voi, immagino, sceglierebbero. Basta. Giaffà arriva presso un mulino e il primo suo atto è quello di affacciarsi alla spalletta del fiume e di tirar sassi rasenti all’acqua in modo che rimbalzino.

Gli si avvicinò l’amico Si-moi che lo salutò cordialmente offrendogli una susina lucida e gonfia come il proprio naso: e gli disse:

— Scommetti, Agara, che se tu fai fare nell’acqua cinque balzi al sasso io gliene faccio fare dieci? —

Giaffà pensò: «Io non mi chiamo Agara. Si-moi si deve essere sbagliato quantunque mi conosca bene. Con Agara ci ho giocato ieri e mi ha vinto quattordici fichi secchi, quell’imbroglione. Ma non importa. Quello che m’importa è vedere se davvero questo spaccone è più bravo di me a far saltare i sassi nel fiume».

— Vediamo, — disse forte.

— I sassi devono essere uguali. [p. 97 modifica]

— Uguali come monete. —

Raccolsero i bei sassi rotondi bianchi e levigati del fiume che parevano frittelline di farina candida, e Giaffà tirò per primo. Il sasso fece quattro balzi:

— Perché mi è scappato di mano: se no posso arrivare fino a sei.

— Ora io. — E tirò Si-moi.

— Ho fatto soltanto tre balzi: tu sei piú bravo di me — disse l’amico in fretta con una falsa modestia, mostrando d’allontanarsi — Addio, Agara.

— Agara? Ma io non sono Agara. M’hai chiamato anche prima Agara, e sono stato zitto perché credevo che avessi bevuto fermento di riso. Io sono Giaffà. —

L’amico gli rise in faccia con molta gaiezza:

— Se è una scusa per tenermi qui a disputare con i sassi sul fiume, io ti posso chiamare anche Giaffà, se ti fa piacere. Ma non capisco mio caro Agara come tu abbia piacere di farti chiamare con il nome di quello scimunito.

— Scimunito sarai tu! E Giaffà non è scimunito — gridò Giaffà. — Va, va, va pure a casa e mettiti sulla stuoia a smaltire il fermento di riso. [p. 98 modifica]

Si-moi lo guardò seriamente, quasi con tristezza e gli toccò una spalla fingendo d’accertarsi di non avere davanti a sé un amico improvvisamente impazzito.

— Vedo — disse con dolcezza — che hai voglia di litigare, mio Agara. Perciò me ne vado perché mi dispiacerebbe guastarmi il sangue con il mio amico piú intimo, con il quale ho fatto le scuole insieme, (o meglio, pensa chi scrive, marinate le scuole insieme) cosí stretti dal vincolo delle nostre famiglie che abitano vicino e si vogliono bene. Addio, Agara. —

E se ne andò lungo il fiume solcato da giunche con le vele di vegetale membranoso simili alle ali dei pipistrelli.

— Oh! — pensò tra sé Giaffà — io conosco lo spirito di quel maleducato. E sarà meglio che io vada giù verso quel canneto per vedere se trovo una buona canna da pesca che cerco da venti giorni. —

Non aveva fatto però altrettanti venti metri che passò su un carrozzino di vimini tirato da uno schiavo, l’amico ricco e sapiente di Giaffà, quello che gli aveva insegnato il giuoco degli scacchi.

— Addio, Agara! — fece salutandolo [p. 99 modifica] graziosamente con il ventaglio, e s’allontanò. Giaffà questa volta si fermò impressionato perché l’amico era cosí serio da non permettersi certi scherzi. E rimase fermo a guardare il carrozzino che scompariva velocemente.

— Mi deve avere scambiato — pensò, e tirò fuori dalle brache il coltelluccio per la canna. Ma lo richiuse subito, se lo rificcò in tasca e risalito l’argine, tutto pensieroso ritornò in paese.

* * *

— No, no, — diceva scuotendo la testa davanti al primo specchio che trovò sulla via: era uno specchio di fioraio, come là si usa, per far osservare alle dame se stanno bene con un mazzo di paulonie o di orchidee nel braccio. — No, no. Io sono proprio Giaffà. — E lo vedevano andare per le strade affollate con la testa dondolante: e qualcuno vicino gli avrebbe potuto sentir mormorare: «Son Giaffà o non Giaffà?».

Giunto presso i gradini del palazzo del Mandarino si svegliò dalle sue meditazioni, e pensò bene di girare al largo.

Vediamo se qualcuno di voi si ricorda e [p. 100 modifica] indovina perché i paraggi di quel palazzo sembrassero cosí poco salutari al nostro Giaffà.

Il quale, fra l’altro, sentendo un certo fervore allo stomaco si diresse alla trattoria del Cane bianco dove andava sempre a mangiare da quando le sue vicende l’avevano fatto diventare ricco, prima di partire al seguito di Marco Polo.

Si sedette: e siccome pagava puntualmente e mangiava per due, il trattore lo serviva con molta sveltezza e con modi gentili.

— Carne di cane al sugo di gamberi — ordinò. Era il suo piatto preferito.

Tanto il cameriere quanto il padrone e la padroncina, intenti a servire il numeroso e pittoresco pubblico di codini, sembrarono non far molto caso a lui.

— Carne di cane al sugo di gamberi! — ordinò di nuovo con impazienza.

Il padrone gli si avvicinò e dopo un inchino con un sorriso acido gli disse:

— Se vuoi essere servito con premura va alla trattoria dell’Elefante nero!

La trattoria dell’Elefante nero, era di fronte a quella del Cane bianco e i padroni, naturalmente, erano rivali: e ognuno trattava malissimo i clienti [p. 101 modifica] dell’altro se fossero venuti nel proprio esercizio.

— Perché devo andare all’Elefante nero, quando da un anno vengo sempre qui? — chiese Giaffà.

— Sfacciato! — gli rispose il padrone. — Oggi è la prima volta che ti degni di venire da me perché hai voglia di mangiare carne di cane. Sei stanco di rovinarti lo stomaco con proboscide d’elefante! Te l’ho detto: se vuoi essere rispettato e ben servito torna a mangiare là di faccia.... come fai da quattro o cinque anni. Credi che non abbia occhi io? Credi che non ci veda? Credi che non sappia quali sono e quali non sono i clienti del mio nemico? Va, va... —

Giaffà rimase senza parola. Poi, tartagliando, tanto grande era il suo sbalordimento, disse:

— Ma io vengo sempre qui, da un anno, e ho mangiato sempre carne di cane e non proboscide d’elefante.

— Anche bugiardo, sei, Agara? —

E il padrone gli voltò le spalle.

* * *

Giaffà perse subito l’appetito perché gli era venuto un grande tremore nelle vene. Uscí per la strada: proprio in quel momento usciva [p. 102 modifica] dall’elefante bianco un coreano svelto, ben fatto di membra, dagli occhi piccoli e neri come quelli di un topo.

«Eccolo là Agara», disse fra sé Giaffà sussultando. «Voglio un po’ vedere se con una scarica di pugni riesco a capire se io sono io, o se sono lui» e gli si avvicinò. L’altro prendendo la rincorsa gli gridò:

— Ti saluto Agara. Perché oggi non sei venuto a mangiare nella nostra trattoria? Vieni stasera. Ti voglio bene! —

Poi scattando velocissimo nelle gambe si attaccò a un carrozzino signorile, tirato da quattro cavalli rossi, che andava come quattro saette. La distanza era troppo grande perché Giaffà, che pure aveva ali ai piedi, potesse raggiungerlo.

Allora il nostro amico si mise a sedere sotto un tiglio e guardandosi ora l’indice della mano destra, ora quello della sinistra sussurrava:

— Son Giaffà, o non Giaffà? —

Sembrava Amleto, principe di Danimarca. Dopo aver girovagato per i giardini profumati e allietati dall’incedere maestoso dei pavoni o dal superbo remigare dei cigni nei laghetti, Giaffà pensò verso sera d’andare a ricercare una vecchia [p. 103 modifica] zia che da molto tempo non vedeva. La zia era vedova, religiosa, e non pensava che al marito morto in guerra contro i mongoli.

— Vedo...va — chiamò tremando nella voce Giaffà per la paura di non essere più Giaffà. — Vedo... va Liu-sciú, mi riconoscete? —

La zia alzò un portello di sandalo e s’affacciò:

— Chi è? — chiese con una certa precauzione perché a quell’ora buia i ladruncoli in giro non erano pochi.

— Mi riconoscete se sono Giaffà, vedo... va?...

— Vedo... va pure — gli rispose la vecchia temendo d’essere presa in giro.

— Ma non sono Giaffà, Liu-sciú, zia mia?

Fra l’oscurità e la precauzione la zia rispose:

— Di Giaffà ce ne sono molti: ma quello che era mio nipote, per fortuna è partito con Marco Polo. Tu non sei il mio Giaffà. Se hai fame e vuoi una focaccia te la getto dalla finestra. Già altre volte, non per rinfacciartelo, caro Agara, sei venuto al buio sotto la mia casa e fingendo la voce del mio Giaffà mi hai chiesto una focaccia. —

Giaffà fu per cadere in terra. E quando la zia gli gettò avvolta in un fazzoletto una focaccia, gliela scagliò sopra e sparì. [p. 104 modifica]

Arrivato ansando di corsa a casa sua si toccò il corpo con la speranza che quella corsa lo avesse liberato dalle sembianze di Agara. Il cane che mansueto e dagli occhi dolci non abbaiava a nessuno fuorché a quel maligno di Agara, gli abbaiò contro. E allora Giaffà non ebbe più nessun dubbio d’essere diventato Agara, pur ricordandosi vagamente d’essere stato Giaffà, quello che aveva corso il pericolo di sposare l’amorosa e terribile figlia del Gran Mandarino. Nel tentare il saliscendi era tale il suo orgasmo che non riuscì a farlo funzionare:

— Per forza — disse fra sé — non riesco ad aprirlo: non ho la chiave perché questa è la casa di Giaffà. —

E mentre le stelle, senza inganno e senza sbagli, come accade negli uomini, giravano lentamente nel cielo, il nostro disperato scivolò a terra, proprio con la schiena appoggiata alla sua porta e prese il sonno del giusto che alla fine chiude gli occhi sulle cose che non si capiscono.

* * *

Fece un sogno, ragazzi miei. Sognò d’andare furtivamente lungo un muro con una cancellata [p. 105 modifica] di legno, tutta ornata di rosai fiammeggianti. A una sentinella con il grande scudo ove spiccava un drago rosso, la mano ferrata sulla draghinassa, fece l’occhietto, e il guerriero fingendo di non vedere si volse a guardare le onde del mare. Erano amici. Giaffa saltò la cancellata e attraversati alcuni tratti di raperonzoli giganteschi si trovò in uno spiazzo e salutò Liú-là che l’aspettava per giocare.

Liú-là era una bambina di tredici anni, sorella di Tori-li, che come ricordate bene in altri tempi sarebbe dovuta diventare sposa del nostro eroe. Ma Giaffà preferiva la compagnia allegra di Liú-là che con quei capelli neri, il naso a patata, il moversi cosí disordinato da rompere ogni cosa al suo passaggio, gli si confaceva con vera utilità dell’immaginazione. Si vedevano in segreto per giocare o al diabolo, o alla palla, o ai cerchietti: in segreto perché a Giaffà era sempre salutare stare molti passi di distanza dal palazzo del Mandarino.

— Tira il cerchietto! — esclamò Liú-là, tutta allegra e fresca.

— Ecco! — e lanciò il cerchietto che la fanciulla con sveltezza e con grazia colse a volo e fece [p. 106 modifica] scattare di ritorno con le bacchette alla volta di Giaffà.

Per mezz’ora giocarono sul tenero prato con vera gioia: poi una vecchia istitutrice indiana venne a chiamare la fanciulla per lo studio.

— È già ora? — chiese con una smorfia Liú-là.

— Sí, dolce figlia di Budda. —

Liú-là si volse a Giaffà e con un soave sorriso gli diede un bacio sulla fronte. Gli disse con una voce d’usignolo:

— Grazie della tua compagnia: ci vedremo domani e staremo lieti e sereni come siamo stati oggi e ieri. Addio, amico mio, addio Agara. —

Giaffà si svegliò sussultando e geloso dal sogno. Si stropicciò gli occhi, e incominciò a piangere dalla disperazione non sapendo piú che cosa pensare. Poi si decise e disse fra sé:

— Io non so piú se sono Giaffà o se sono Agara: ma è certo che se trovo Agara gli faccio qualche sgarbo. —

In casa sua non ebbe il coraggio d’entrare.

* * *

Giaffà fremeva ancora per il sogno.

Che tutti l’avessero scambiato per Agara, in [p. 107 modifica] fondo, poteva scrollare le spalle e infischiarsene. Ma che anche la fanciulla dei suoi giuochi l’avesse salutato con quel nome odioso, era una cosa terribile per lui. Andò lungo il muro del giardino di Liú-là e cercò con gli occhi la guardia dallo scudo con il drago rosso. La guardia finse di non vederlo e si voltò a guardare le onde del mare.

— Dunque — pensò — se quella guardia finge di non vedermi perché io possa andare a giocare con la mia amichetta, vuol dire che io sono Giaffà, ben sveglio. Tante volte la mia colombina mi ha detto che Agara non gli era molto simpatico. —

Saltò nel giardino, oltrepassò i raperonzoli e si nascose dietro un rosaio.

Di li a poco passò Liú-là fresca e profumata di lillà in compagnia della governante fatta venire appositamente dalla Circassia perché le insegnasse i modi gentili per il radioso giorno in cui sarebbe andata sposa. Leggevano insieme un bel libro dalle pagine rigate come da file di formiche e quando trovavano un bel luogo della lettura da ricordare lo segnavano stringendo delicatamente fra pagina e pagina un flore che il giorno dopo appassito sembrava indicasse: «Ecco, io non ci [p. 108 modifica] sono più, ma vive in eterno la saggezza della pagina che vi custodisco con il mio profumo».

Liú-là veramente, in quel pomeriggio rosato, sembrava in distrazione, e i suoi occhi di lepratta guardavano contemporaneamente sul libro a destra e a sinistra, davanti e indietro lo stupendo viale dalla ghiaia di ametiste.

Ad un tratto disse alla governante:

— Va davanti pure: mi debbo accomodare il fiocco di uno zoccolo. —

La governante si precipitò ai suoi piedi per riordinarglielo lei; ma la fanciulla la rialzò e le disse con autorità e semplicità:

— Va davanti: faccio da me. —

La governante si allontanò di alcuni passi.

Liu-là che aveva visto nel rosaio che costeggiava il viale due carbonchi luccicanti, gli occhi di Giaffà nascosto, si avvicinò a quella parte e fingendo di accomodarsi il fiocco mormorò:

— Giaffà!

— Oh! — rispose forte Giaffà con la sua solita voce screanzata.

— Parla piano, amichetto mio, stupidello, se no, domani non potremo giocare al diabolo. —

Tutto il rosaio si mosse. [p. 109 modifica]

— Io ti devo dire — mormorava la bambina aggiustando il fiocco — che ho saputo da un servo che tutti i tuoi amici sono d accordo nel farti una burla, far credere che tu sei quell’antipatico di Agara, invece che il mio caro Giaffà. Tutti ridono alle tue spalle, compreso il tuo amico sapiente degli scacchi: ma io ti voglio bene lo stesso. Sta attento. Addio. — Liú-là saltellante come un uccello del paradiso raggiunse la governante. Il rosaio si mosse ancora e ne sbucò fuori Giaffà che scivolò nella strada con l’aria del furbo che sa fare benissimo la parte dello sciocco.

* * *

Cosí si avviò dall’amico sapiente. L’amico sollevò con pensosità la testa dalle pergamene e gli disse:

— Ti saluto, mio gentile Agara.

— Grazie, grazie dell’ospitalità — rispose Giaffà. E siccome sapeva che Agara era molto indiscreto e che sulle tavole di lettura dell’amico era abituato a infilarci con uno stecchino dei ramarri, ne acchiappò subito uno nell’orto e l’infilzò su un libro. Poi bevve il té dalla tazza dell’ospite. [p. 110 modifica]

— Che cosa fai Giaf... Agara! — esclamò indignato l’amico.

— Come? — rispose con aria sciocca Giaffà.

— Tutte le altre volte non mi hai detto nulla, anzi ti sei messo a ridere... E, dimmi, quello scimunito di Giaffà che cosa fa?

— Ma non so, poveretto,.... caro Agara. Credo che sia malato.

— Eh, sí!: si fa presto ad ammalarsi. — Poi gli divorò un cestino di banane sporcando a destra e a sinistra con le buccie come usava fare Agara. (Voi ricordate bene, lettori, che Giaffà era diventato di una educazione esemplare). Fece per uscire. Ma sulla veranda si fermò e disse con voce piagnucolosa:

— Perché non mi presti dieci soldoni? Al tuo devoto.... —

L’amico sapiente fu per gridare: «Ma tu sei ricco Giaffà!». Si contenne.

— ... al tuo devoto Agara?

— Non li ho.

— Possibile che tu non abbia dieci soldoni da prestare al tuo Agara che muore di fame? — seguitava Giaffà baciandogli la veste e inchinandosi [p. 111 modifica] ora su un ginocchio ora su un altro come faceva appunto quello scroccone di A gara.

Il sapiente prestò i dieci soldoni che allora valevano almeno le diecimila lire di oggi. Ma la burla li valevano.

Quando Giaffà fu lontano, alla distanza di qualunque rincorsa o di qualunque freccia, si voltò e vide che il sapiente, a gambe larghe sotto la veranda dondolava il capo mostrando d'aver capito proprio all’ultimo momento che l’imbrogliato era stato proprio lui.

* * *

— E ora tocca a Si-moi — mormorava Giaffà allegro.

— Mio Si-moi — gli disse toccandogli il codino con molta gentilezza come era abituato a fare Agara. — Non credi che sia il caso di pienare questo nostro pomeriggio, dopo aver fatto i compiti della scuola, con qualche piacevole computo?

— Sí, — rispose Si-moi, — Agara mio.

Fecero insieme il computo. E furono contenti di aver risolto un problema molto difficile: «quante volte sta un codino in un mestolone». [p. 112 modifica]

— Dieci volte meno una: e quest’una è proprio quella che ci ho in mano.

E gli tirò via la parrucca che sembrò il pelame della pannocchia.

— Cosa fai, Giaf..., Agara!? Tu lo sai che io non voglio....

— Ma io sono il tuo amico Agara? — disse con dolcezza Giaffà — e tante volte ti ho visto con il parrucchino e te l’ho spolverato. Lasciamelo qua: non mi riconosci?: abbiamo giocato tante volte insieme... e tu mi portavi nelle piazzette pili deserte per potermi meglio imbrogliare i fichi secchi.... non te ne ricordi? Io ti voglio però un gran bene e mi piace che tu mi faccia spolverare questo parrucchino. —

Giaffà stringeva la parrucca come i pescatori stringono le alghe dove forse c’è una perla.

Si-moi con la zucca nuda girava di qua, girava di là e sembrava che avesse un gran freddo.

— È uno scherzo che ti ho permesso molte volte, caro Agara. Adesso non mi piace più. Ridammi il parrucchino.

— Sicuro che te lo rendo... è roba della tua persona. Ma prima mi devi raccontare che cosa si dice in paese di quello sciocco di Giaffà. — [p. 113 modifica]

Si-moi strinse gli occhietti, e furbo quale era, temette proprio di essere preso in giro: ma Giaffà dondolava cosí abilmente con sciocchezza la testa da sembrare un medico che sentenziava la fine di un malato mentre quello è piú vivo di prima; Simoi credette ancora nella sua ingenuità.

— Dirti di quello scimunito? Nel paese si dice che sia malato perché non lo vediamo da alcuni giorni.

— Malato?

— Sí: malato ai piedi e quindi non può ragionare.

— Che c’entrano i piedi con il ragionamento?

— Sí: perché, mio caro Agara, Giaffà ragiona con i piedi.

— Davvero?

— Davvero, mio buon amico. Ridammi il parrucchino, gentile Agara.

— E allora ti dirò che Giaffà proprio con i piedi se ne scappa con il tuo parrucchino, dolcissimo amico — gridò Giaffà fuggendo per la porta, saltando la siepe senza aver bisogno di aprire il cancelletto di bambú e alzando nel pugno la parrucca di Si-moi come un trofeo guerresco di selvaggio scotennato. Quando fu nella strada si voltò e [p. 114 modifica] vide Si-moi che fermatosi al cancelletto con le mani sul cranio lucido non aveva il coraggio di uscire per la vergogna di farsi vedere cosí pelato dalla gente. E gridava:

— Giaffà, amore mio, anima celeste mia, mio azzurro e celeste Impero, ridammi la mia parrucca... io sono il tuo schiavo, ti bacerò la punta dei pollici dei piedi, ti spidocchierò le treccie, ma per amore di tutto ciò che è celeste, ridammi la parrucca...

— Giaffà? — gli rispondeva di lontano Giaffà con finta aria di stupido. — Che c’entra Giaffà? Io sono Agara. Addio — e s’allontanava saltando cantando e ridendo, che la strada era tutta sua. Si-moi ritornò disperato in casa e quando si levò le mani dalla testa gialla e lucente, sembrò che splendesse un secondo sole.

* * *

— Proboscide d’elefante di quattro mesi — ordinò Giaffà sedendosi al tavolo della fumosa trattoria L’Elefante nero. — E presto!

— Sí, gentile Agara — rispose il cameriere facendo l’occhietto al padrone e ai clienti che già cominciavano a ridacchiare ripromettendosi un [p. 115 modifica]vero divertimento alle spalle di Giaffà che guardava intorno con occhi smorti.

Giaffà cominciò a mangiare tranquillo. Alcuni chiedevano:

— Dunque, Agara, che cosa ci racconti della guerra contro i Mongoli?

— Orsú, Agara, è vero che ieri hai pescato cinquecento trote nel mare?

Giaffà sputava a destra e a sinistra le cartilagini della proboscide, tanto che presto diventarono intorno un monticello, e non rispondeva.

Quando gli uscí la voce fu per ordinare una seconda proboscide, ma questa volta di elefante di un anno e seguitò a mangiare. Il padrone si fregava le mani nella cucina puzzolente e diceva ai cuochi:

— Gli faremo pagare un bel conto! —

Giaffà bevve un boccale di fermento di riso e ordinò una terza proboscide di elefante di quattro anni. Subito servito: poi che l’ebbe divorata come se fosse un pasticcino prima della colazione, ordinò nidi prelibati di rondine, un intingolo di occhi di salamandre, e infine asciugandosi con la carta velina la bocca, giusto per finire, comandò uno scoiattolo all’aceto il quale non era [p. 116 modifica]nemmeno arrivato che già era sparito fra le sue ganasce.

Tutti intorno erano beffardi e contenti del suo appetito aspettando le smorfie che avrebbe fatto quando il padrone gli avrebbe presentato il conto.

— Un po’ di frutta?

— Sí: due meloni della Kamciatka — rispose. Meloni costosissimi perché da quelle parti i meloni per il gran freddo, fanno solo nella fantasia dei favolisti.

Mangiò i meloni e si alzò tirando l’ultima buccia contro un decreto del Mandarino, attaccato alla parete in cui si proibiva, pena il taglio della testa, di lanciare scorze di frutta: si fece alla porta. Il trattore gli corse dietro e gli presentò il conto lungo come un lenzuolo.

— Signor Agara — disse con un sorriso. — Ecco, se non le dispiace.

— Ma io ho il conto in questa trattoria per un mese, e mi meraviglio come tu abbia la sfacciataggine di farmi pagare prima della scadenza, a me proprio a me che sono un cliente cosí onorato e preciso!, — esclamò Giaffà.

Il trattore rimase male. Poi balbettò:

— Su via! Si tratta che oggi lei ha mangiato [p. 117 modifica]dieci volte di più della pensione pattuita e bisogna pagare la differenza, insomma, scusi, lo straordinario.

— Io non ho fatto mai questi patti. Ho mangiato quanto mi è parso e mi è piaciuto e alla fine del mese, come è vero che mi chiamo Agara, ti ho sempre pagato puntualmente, si o no? Rispondi....

— Ma....

— Non c’è ma e non c’è me. Addio. Ci rivedremo domani.

Gli altri avevano smesso di mangiare e stavano tutti in ascolto. Giaffà aprí la porta: il trattore si vide perduto e urlò:

— Su via, Giaffà, non facciamo più scherzi!

— Giaffà? Chi è questo Giaffà? Non lo conosco. Addio, lucertolone! — e sgusciò fra i battenti: poi piantatosi in mezzo alla strada gridò:

— Di’ pure, lucertolone, al tuo Agara che adesso lo vado a denunziare al Mandarino perché ha tirato le buccie contro il suo decreto. —

Molti nella trattoria furono mortificati e impauriti perché per la presenza dei testimoni non avrebbero potuto negare che l’insolente contro l’autorità era stato Agara. [p. 118 modifica]

Giaffà era troppo buono per prendersi una vendetta cosí crudele: si sarebbe contentato, incontrando Agara, di scambiare qualche carezza con lui. E andò via con il naso per aria e la pancia piena.

Della rivincita di Giaffà vi fu molto rumore nel paese e nella provincia, tanto che alcuni cominciarono a ricredersi a proposito del buon senso del giovine: con difficoltà, certo, perché è molto difficile riacquistare stima dopo che per una piccolissima sciocchezza si è persa.

Ad ogni modo Giaffà se ne andò al giardino della fanciulla: e quando la guardia finse di osservare le onde del mare saltò il muro e trovò l'amichetta lieta e profumata di giovinezza che lo attendeva fra i rosai. Giocarono. Per ora lasciamoli giocare, ridenti e sereni come il cielo che li accompagna. Forse fra poco si staccheranno da questa favola per entrare in un’altra meno felice e ingenua, ma più grande che adesso, ragazzi miei, non potete ancora capire.