I Suppositi (prosa)/Atto terzo

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Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO.




SCENA I.

DALIO cuoco, CRAPINO ragazzo, EROSTRATO, DULIPO.


Dalio.     Come siamo a casa, credo ch’io non ritrovarò de l’uova che porti in quel cesto, un solo intiero. Ma con chi parlo io? dove diavolo è rimasto ancora questo ghiottone? Sarà rimasto a dare la caccia a qualche cane, o a scherzare con l’orso: ad ogni cosa che truova per via, si ferma: se vede facchino o villano o giudeo, non lo terríano le catene che non gli andasse a far qualche dispiacere. Tu verrai pur una volta, capestro; bisogna che di passo in passo ti vadi aspettando. Per dio! s’io truovo pur un solo di quelle uova rotto, ti romperò la testa.

Crapino.     Sì ch’io non potrò sedere.

Dalio.     Ah! frasca, frasca. [p. 83 modifica]

Crapino.     S’io son frasca, son dunque mal sicuro a venire con un becco.

Dalio.     S’io non fussi carico, ti mostrerei s’io sono un becco.

Crapino.     Rare volte t’ho veduto che non sii carico, o di vino o di bastonate.

Dalio.     Al dispetto ch’io non dico!...

Crapino.     Ah poltrone! tu biastemi col cuore, e non osi con la lingua.

Dalio.     Io el dirò al padrone: o ch’io mi partirò da lui, che non mi dirai villania.

Crapino.     Fammi il peggio che tu sai.

Erostrato.     Che rumor è questo?

Crapino.     Costui mi vuol battere, perch’io lo riprendo che biastema.

Dalio.     Menti per la gola; mi dice villania perch’io lo sollicito che venga presto.

Erostrato.     Non più parole. Tu apparecchia ciò che fa di bisogno; come io ritorno, ti dirò quello ch’io voglio che sia lesso e quello arrosto: e tu, Crapino, pon giù quel cesto, e torna, chè mi facci compagnia — Oh come ritroverei volentieri Pasifilo! e non so dove. Ecco il padron mio, forse me ne saprà dar egli notizia.

Dulipo.     Che hai fatto del tuo Filogono?

Erostrato.     L’ho lasciato in casa.

Dulipo.     E dove vai tu ora?

Erostrato.     Vorrei ritrovare Pasifilo: me lo sapresti insegnar tu?

Dulipo.     Non; è ben vero questa mattina disinò qui con Damone, ma non so poi dove si sia ito. E che ne vuoi tu fare?

Erostrato.     Che egli notifichi a Damone la venuta di questo mio padre, il quale è apparecchiato a fare la sovraddote ed ogni altra cosa che possa egli per noi. Voglio che tu vedi se io saperò quanto quello pecorone, che fa ciò che può per diventare un becco.

Dulipo.     Va, caro fratello; cerca Pasifilo tanto che lo ritruovi, chè oggi si concluda quel che è possibile a beneficio nostro.

Erostrato.     Ma dove debb’io cercarlo?

Dulipo.     Dove si apparecchiano conviti; alle beccaríe ed alle pescaríe ancora si trova spesso.

Erostrato.     Che fa egli qui? [p. 84 modifica]

Dulipo.     Per vedere chi fa comprare qualche bel petto o lonza1 di vitello, o qualche gran pesce, acciò che improvviso poi gli sovraggionga, e con un bel — Buon pro vi faccia, — con loro si ponga a mensa.

Erostrato.     Io cercherò tutti questi luoghi; sarà gran fatto ch’io non lo ritrovi.

Dulipo.     Fa poi ch’io ti riveggia, ch’io t’ho da fare ridere.

Erostrato.     Di che?

Dulipo.     D’un ragionamento ch’io ho avuto con Cleandro.

Erostrato.     Dimmel’ora.

Dulipo.     Non ti voglio impedire: va pur, ritrova costui. L’amorosa contenzione la quale è tra Cleandro e costui che procura in mio nome, al giuoco della bassetta o della zara mi par simile; dove tu vedi l’uno fare del resto, che in più volte ha perduto tanto che tu aspetti che in quel punto esca di gioco, la fortuna gli arride, e vince quel tratto, e dui, e quattro appresso, tanto che si rifà: tu vedi all’altro,2 che dal canto suo quasi tutti gli denari avea ridotti,3 scemarsi il monte tanto, che resta nel grado in che pur dianzi era il suo avversario; poi di nuovo risurge, e di nuovo cade: e così a vicenda or l’uno or l’altro guadagna e perde, fin che viene in un punto chi da un lato raccoglie il tutto, e lascia netto l’altro più che una bambola4 di specchio. Quante volte mi ho estimato avere contra questo maledetto vecchio vinto il partito! quante volte ancor me gli sono veduto inferiore! e quinci e quindi in pochi giorni sì mi ha travagliato fortuna, che nè sperar molto nè in tutto disperare mi posso. Questa via, che l’astuzia del mio servo ha investigata, assai al presente mi pare secura: tuttavia non meno mi si agita il cuore che soglia nel petto, che qualche impremeditato disturbo non ci si interponga. Ma ecco il mio signore Damone, che esce fuora.


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SCENA II.

DAMONE, DULIPO e NEBBIA.


Damone.     Dulipo.

Dulipo.     Padrone.

Damone.     Ritorna in casa, e di’ al Nebbia, al Moro ed al Rosso, che vengano di fuori, ch’io li voglio mandare in diversi luoghi. Tu va in la camera terrena, e guarda nell’armario de le scritture, e cerca tanto che ritruovi un instrumento, rogato per Lippo Malpensa, de la vendita che fece Ugo da la Siepe a mio bisavo, d’un campo di terra che si chiama il Serraglio, ed arrécalo qui a me.

Dulipo.     Io vado.

Damone.     (Va pur, chè ben altro instrumento che non pensi, vi troverai. Oh misero chi in altro che in sè stesso si confida! O ingiuriosa fortuna, che da casa del gran diavolo questo ladroncello mandato m’hai per ruina de l’onore mio e di tutta la mia casa!) Venite qua voi, e fate quel ch’io vi comandarò; ma con diligenzia. Andate nella camera terrena, dove trovarete Dulipo, e simulando di volere altro, accostáteveli, e prendetelo, e con la fune ch’io v’ho lasciata a questo effetto, che vederete sul desco, legateli le mani e piedi, e portatelo ne la stanzia piccola e buja, la quale è sotto la scala, e lasciatelo quivi, e con destrezza e con minore strepito che si può. Tu, Nebbia, ritorna a me subito fatto questo: éccoti la chiave; ripórtamela poi.

Nebbia.     Sarà fatto.


SCENA III.

DAMONE e NEBBIA.


Damone.     Com debb’io, ahi lasso! di così grave ingiuria vendicarmi? Se questo scelerato secondo li suoi pessimi portamenti e la mia giustissima ira punir voglio, da le leggi e dal principe sarò punito io, perchè non lice a cittadino privato di sua propria autorità farsi ragione; e se al duca o agli officiali suoi me ne lamento, pubblico la mia vergogna. Deh! che penso io di fare? Quando di questo tristo ancora avessi fatto tutti li strazî che siano possibili, non potrò fare però che mia figliuola violata ed io disonorato in perpetuo non [p. 86 modifica]sia. Ma di chi voglio io fare strazio? Io, io solo son quello che merito esser punito, che mi ho fidato lasciarla in guardia di questa puttana vecchia. S’io voleva che fusse ben custodita, la dovea custodire io, farla dormire nella camera mia, non tenere famigli gioveni, non le fare un buon viso mai. O cara moglie mia, adesso conosco la jattura ch’io feci, quando di te rimasi privo. Deh! perchè già tre anni, quando io potetti, non la maritai? Se ben non così riccamente, almen con più onore l’averei fatto. Io ho indugiato di anno in anno, di mese in mese, per porla altamente: ecco che me ne accade! A chi volevo io darla? a un signore? misero, o infelice, o sciagurato me! questo è ben quel dolore che vince tutti gli altri. Che perdere roba? che morte di figliuoli e di moglie? Questo è lo affanno solo che può uccidere, e mi ucciderà veramente. O Polimnesta, la mia bontà verso te, la mia clemenzia non meritava così duro premio.

Nebbia.     Padrone, il tuo comandamento eseguito abbiamo: eccoti qui la chiave.

Damone.     Bene sta. Vanne ora a trovare Nomico da Perugia, e da mia parte lo prega che mi presti quelli ferri da prigioniero ch’egli ha; e torna subito.

Nebbia.     Io vado.

Damone.     Odi: se ti dimanda che ne voglio fare, di’ che tu nol sai.

Nebbia.     Così dirò.

Damone.     Guarda che non dicessi ad alcuno che Dulipo sia preso.

Nebbia.     Non ne parlerò con uomo vivo.


SCENA IV.

NEBBIA servo, PASIFILO parasito, PSITERIA ancilla.


Nebbia.     È impossibile maneggiar li danari d’altri, che qualch’uno non ti rimanga fra le unghie. Mi maravigliavo bene che Dulipo vestir si potesse così bene, di quel poco salario ch’egli aveva dal padrone: ora comprendo che n’era causa. Egli era il spenditore; egli aveva la cura di vendere li formenti e li vini; egli pigliava e tenea conto de l’entrate e de le spese, ed era fa il tutto.5 Dulipo di qua, Dulipo di [p. 87 modifica]là; egli favorito del padrone, egli favorito de gli figliuoli: noi tutti altri di casa appresso lui eravamo da niente. Vedi in un tratto quello che ora gli è intervenuto! Gli sarebbe stato più utile non avere fatto tante cose.

Pasifilo.     Tu di’ ben vero, che egli l’ha fatto troppo.

Nebbia.     Dove diavolo esci tu?

Pasifilo.     Di casa vostra, per l’uscio di dietro.

Nebbia.     Credevo che già doi ore tu fussi partito.

Pasifilo.     Ti dirò. Come ebbi disinato andai nella stalla per fare... tu ben m’intendi, e mi prese il maggior sonno che avessi mai, e mi coricai di sopra nella paglia, ed ho dormito sino adesso. Ma dove vai tu?

Nebbia.     A fare una mia faccenda, che m’ha il padron imposta.

Pasifilo.     Non si può ella dire?

Nebbia.     Non.

Pasifilo.     Tu sei molto secreto. — Quasi che non lo sappia meglio di lui. Dio, ch’ho io sentito! o Dio, ch’ho io visto! O Cleandro, o Erostrato, che moglie desiderate, e vergine, come vi potrà succedere facilmente! che avrete6 l’uno e l’altro insieme; chè Polimnesta, ben che essa non sia, forse ha la vergine nel corpo che voi cercate. Chi avería di lei così creduto? Dimanda la vicinanza di sua condizione: la migliore, la più divota giovene del mondo; non pratica mai se non con suore; la più parte del dì sta in orazione; rarissime volte si vede in uscio o in finestra: non s’ode che d’alcuno innamorata sia; è una santarella. Buon pro gli faccia. Colui che l’averà per moglie, guadagnerà più dote che non pensa: un par almen di lunghissime corna, se non più, mancare non gli possono. Per la mia lingua non si sturberanno già queste nozze, anzi le procurerò più che mai. Ma non è questa la maléfica vecchia che dianzi tutta la trama a Damon ha discoperta? dove si va, Psiteria?

Psiteria.     Qui presso a una mia comare.

Pasifilo.     Che vi vai tu a fare? a cicalare con essa delle belle opere della tua giovene padrona?

Psiteria.     Non già, in buona fè: ma che sai tu di questa cosa?

Pasifilo.     Tu me l’hai fatta intendere.

Psiteria.     E quando te lo dissi io? [p. 88 modifica]

Pasifilo.     Quando a Damon anco tu lo dicevi; ch’io ero in luogo ch’io te vedeva e odiva. Oh bella prova! accusare quella misera fanciulla, e dare cagione a quel povero vecchio che si môja di affanno! oltra la ruina di quello infelice giovene e de la nutrice, ed altri scandoli che ne seguiranno.

Psiteria.     È stato inconsideratamente, e non ne ho tanta colpa io, come tu pensi.

Pasifilo.     E chi ne ha colpa?

Psiteria.     Ti dirò come è stata la cosa. Sono molti dì ch’io m’era avveduta che Dulipo quasi giaceva ogni notte con Polimnesta per mezzo de la nutrice, e mi tacevo; ma questa mattina la nutrice cominciò a garrir meco, e ben tre volte mi disse imbriaca; e gli risposi al fine: — Taci, taci,7 ruffiana; tu non sai forsi ch’io sappia quello che per Dulipo fai quasi ogni notte? — ma ben in verità non credendo essere udita. Ma la disgrazia volse che ’l padrone intese, e mi chiamò là, dove è stato forza ch’io li narri il tutto.

Pasifilo.     E come gliel’hai narrato!

Psiteria.     Ah misera me! s’io pensavo che ’l padron se lo dovesse così avere a male, m’avería prima lasciata uccidere, che gli l’avessi revelato.

Pasifilo.     Gran fatto, se dovea averselo a male!

Psiteria.     Mi duole di quella misera fanciulla, che piagne e si straccia li capelli, e si dibatte, che gli è gran compassione a vederla; non perchè il padre l’abbia battuta nè minacciata, anzi il doloroso vecchio ha pianto con lei: ma per pietà ch’ella ha della nutrice, e più, senza paragone, di Dulipo, che ambi doi sono per fare male li fatti suoi. Ma voglio andare, ch’io ho fretta.

Pasifilo.     Va’ pur, chè tu gli hai ben concio la scuffia in capo.



Note

  1. Lonza è qui usato in un senso che la Crusca dichiara, benchè senza esempi; laonde potrebbe di questo profittarsi, siccome dell’altro che trovasi nella scena quarta dell’atto quinto: «Volea porre in un medesimo schidone a un tempo al fuoco li tordi con la lonza.» È però da notarsi che Lonza in molti paesi d’Italia significa soprattutto la parte carnosa degli animali che sta fra le costole e la spina, e ne riveste in certo modo i lombi. Al quale proposito, ci è forza ricordare la figurata significazione attribuita a questa voce medesima nel Rinaldo ardito, canto III, stanza 30.
  2. Ant. stamp.: l’altro.
  3. Raccozzati tirando.
  4. Vedi la Crusca.
  5. Traduzione non illeggiadra del comunissimo Factotum, e da preferirsi al Factoto e al Factuto, che pur sono in alcuno tra i vivi parlari d’Italia.
  6. Ant. stamp.: avreti.
  7. Ant. stam.: Tace tace.