I Suppositi (prosa)/Atto secondo
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ATTO SECONDO.
SCENA I.
DULIPO, EROSTRATO.
Dulipo. S’io avessi avuti cento occhi, non mi bastavano a riguardare or nella piazza or nel cortile, s’io vedevo costui. Non è scolare, non è dottore in Ferrara, che non mi sia, eccetto lui, venuto ne i piedi: forse sarà tornato a casa. Ma eccolo finalmente.
Erostato. A tempo, padron mio, ti veggio.
Dulipo. Deh chiamami Dulipo, per tua fè, e mantienti la reputazione una volta, che, volendo io così, hai col mio nome incominciata.
Erostrato. Questo ci monta poco, poichè nessuno è qui presso che ci possa intendere.
Dulipo. Per la consuetudine potresti errare facilmente dove saremmo notati: ábbici avertenza. Or che novelle m’apporti?
Erostrato. Buone.
Dulipo. Buone?
Erostrato. Ottime: abbiam vinto il partito.
Dulipo. Beato me, se fusse vero.
Erostrato. Tu lo intenderai.
Dulipo. E come?
Erostrato. Trovai jersera il parasito, il qual non dopo molti inviti menai a cena meco, dove, e con buone accoglienze e con megliori effetti me lo feci amicissimo; talmente che tutti li disegni di Cleandro e la volontà di Damone mi rivelò, e mi promise in questa pratica operare per l’avvenire in mio favore.
Dulipo. Non ti fidare di lui, ch’egli è fallace e più bugiardo che se in Creta o in Africa nato fusse.
Erostrato. Lo conosco ben io: tuttavia ciò che m’ha detto, tocco con mano essere verissimo.
Dulipo. Che t’ha detto, in fine?
Erostrato. Che Damone era in animo di dare la figliuola al dottore, di poi che quello offerto gli aveva doi milia ducati d’oro di sopraddote.
Dulipo. E queste sono le buone, anzi le ottime novelle, ed il partito vinto che apportar mi dicevi?
Erostrato. Non volere intendere tu prima ch’io abbia dato al mio ragionamento fine.
Dulipo. Or séguita.
Erostrato. A questo gli risposi, ch’io ero apparecchiato, non men che fusse Cleandro, a far altrettanto di sopraddote.
Dulipo. Oh quanto fu buona risposta!
Erostrato. Aspetta, chè tu non sai anco dove sta la difficultà.
Dulipo. Difficultà? dunque c’è peggio ancora?
Erostrato. E come posso io, fingendomi figliuolo di Filogono, senza autorità e consenso di quello obbligarmi a tal cosa?
Dulipo. Tu hai più di me studiato.
Erostrato. Nè tu ancora hai perso il tempo; ma il quaderno che tu ti poni innanzi, non tratta di queste cose.
Dulipo. Lascia le ciance, e vieni al fatto.
Erostrato. Io gli dissi che da mio padre avevo avuto lettere, per le quali di giorno in giorno io lo aspettavo in questa terra, e che da mia parte pregasse Damone, che per quindeci giorni ancora volesse differire a concludere questo maritaggio; perchè speravo, anzi tenea certissimo, che Filogono avería fermo e rato ciò che circa a questo io avessi disposto.
Dulipo. Utile è stato almanco questo, che per quindeci giorni ancora prolungare la vita mia: ma che sarà poi? Mio padre non verrà; e quando venisse ancora, non sarebbe forse al proposito nostro. Ah misero me! sia maladetto...
Erostrato. Taci, non ti disperare: credi tu ch’io dorma quando ho a fare cosa che ti sia a beneficio?
Dulipo. Ah! caro fratello mio, tornami vivo; ch’io sono stato, doppo che queste pratiche s’incominciaro, sempre peggio che morto.
Erostrato. Or ascolta.
Dulipo. Di’.
Erostrato. Questa mattina montai a cavallo, e uscî de la porta del Leone, con animo di andare verso il Polesene per fare la faccenda che tu sai; ma un partito che mi si offerse assai migliore, me l’ha fatto lasciare. Passato ch’io ebbi il Po, e cavalcato in là circa due miglia, incontrai un gentiluomo attempato e di buono aspetto, che ne veniva con tre cavalli in sua compagnia. Io lo saluto, egli mi risponde graziosamente; gli domando onde viene e dove va; mi dice venire da Vinegia, per ritornarsene nella sua patria, che gli è sanese. Io subito, con viso ammirativo, gli replico: — Sanese! e come vien tu a Ferrara, dunque? — Egli mi risponde: — E perchè non vi debb’io venire? — Ed io a lui: — Come! non sai tu a che pericolo ti poni se vi vieni, quando per sanese tu vi sia conosciuto? — Ed egli allora, tutto stupefatto e timido si ferma, e mi prega in cortesia, ch’io gli voglia esplicare il tutto appieno.
Dulipo. Io non intendo questa trama.
Erostrato. Crédolo: ascolta pure.
Dulipo. Segui.
Erostrato. Ora io li soggiungo: — Gentiluomo mio caro, perchè nella terra vostra, un tempo ch’io vi studiai, sono stato accarezzato e ben visto, io debitamente a tutt’i Sanesi sono affezionatissimo; e però, dove il danno e la vergogna tua vietar possa, non la comporterò per modo alcuno. Mi maraviglio che tu non sappi l’ingiuria che li tuoi Sanesi fecero alli dì passati a gli ambasciatori del duca di Ferrara, li quali dal re1 di Napoli in qua se ne ritornavano.
Dulipo. Che fola è questa che tu hai incominciata? che appartengono a me queste ciance!
Erostrato. Non è favola, ti dico, ed è cosa che ti appartiene assai: odi pure.
Dulipo. Segui.
Erostrato. Io gli dico: — Questi ambasciatori avevano con loro parecchi polledri, ed alcuni carriaggi di selle e fornimenti da cavalli bellissimi, e sommacchi, profumi ed altre cose signorili e di gran prezzo, che tutto in dono il re Ferrante2 a questo principe mandava; e come giunsero a Siena, gli furono alle gabelle ritenute: onde nè per patente, ch’egli avessero, nè per testimonî che producessero che le robe erano del duca, le potero mai espedire; fin che d’ogni minima cosa pagaro il dazio senza avere remissione d’un soldo, come se del più vile mercatante che sia al mondo fussero state.
Dulipo. Può essere che questa cosa appartenga a me, ma non ci truovo capo nè via, perchè lo debba credere.
Erostrato. Oh come sei impaziente! ma lasciami dire.
Dulipo. Di’ pur tanto, quanto io ti ascoltarò.
Erostrato. Io gli seguo: — Poi avendo il duca inteso questo, ne ha dopo fatto querela a quel senato, e per lettere e per uno suo cancelliero, che vi ha mandato a questo effetto; ed ha auta la più bestiale e la più insolente risposta, che si udisse3 mai: e per questo di tanto sdegno ed odio si è contra tutti li Sanesi infiammato, che ha disposto spogliare per insino a la camicia quanti nel dominio suo capitaranno, e di qui con grandissima lor ignominia cacciarli.
Dulipo. Onde sì gran bugía e sì súbita t’immaginasti, e a che effetto?
Erostrato. Tu l’intenderai; nè a proposito più di questa si potea ritrovare.
Dulipo. Orsù, sto attento alla conclusione.
Erostrato. Vorrei che le parole avesti udite, e veduta la faccia e i gesti ch’io fingeva a persuaderli.
Dulipo. Credoti più che non mi narri; chè non è pur adesso ch’io ti conosco.
Erostrato. Io gli soggiunsi, che notificato era per capital pena a li albergatori, li quali alloggiassero Sanesi e non ne dessero agli officiali avviso.
Dulipo. Questo vi mancava!
Erostrato. Costui di chi ti parlo, al primo tratto scôrsi non essere de’ più pratichi uomini del mondo. Come intese questo, volgea la briglia per ritornarsene indietro.
Dulipo. E ben dimostra che sia mal pratico, credendoti questa baja. Come potrebbe essere che non sapesse quello che fusse nella sua patria occorso?
Erostrato. Facilmente: se già più d’un mese se n’era partito, bene esser può che non sappia quello che da sei giorni in qua sia intervenuto.
Dulipo. Pur non debbe avere molta esperienza.
Erostrato. Credo che n’abbia pochissima, e ben réputo la nostra gran ventura, che mandato n’abbia tal uomo innanzi. Or odi pure.
Dulipo. Finisci pure.
Erostrato. Egli, come io ti narro, poichè4 intese questo, volgea la briglia per ritornarsi indietro. Io, fingendomi star sopra di me alquanto pensoso a beneficio d’esso, dopo poco intervallo gli dissi: — Non dubitare, gentiluomo; ho ritrovato securissima via a salvarti, e sono deliberato, per amore de la tua patria, fare ogni opera che tu non sia per sanese in Ferrara conosciuto. Voglio che tu simuli essere il padre mio, e così tu ne verrai ad alloggiare meco. Io sono siciliano, di una terra là detta Catania, figliuolo d’uno mercatante chiamato Filogono. Così tu dirai a chiunque te ne dimanderà, che sei Filogono catanese, e che io, che Erostrato mi chiamo, tuo figliuolo sono; ed io per padre ti onorerò.
Dulipo. Ah come sciocco sino adesso sono stato! pur ora comprendo il tuo disegno.
Erostrato. E che te ne pare?
Dulipo. Assai bene: pure mi ci resta un scrupulo, che non mi piace.
Erostrato. Che scrupulo?
Dulipo. Che mi pare impossibile, che, stando qui e parlando con altri, presto non si avveda che tu l’abbi soiato.5
Erostrato. Come?
Dulipo. Chè facil gli fia, dissimulando ancora che sia sanese, chiarirsi che questo è tutto falso che tu gli hai detto.
Erostrato. Son certo che potrebbe accadere, s’io mi fermassi qui, nè ci facessi altra provisione; ma ben l’ho così accarezzato già, e così lo accarezzerò in casa, e farògli tanto onore, che securamente allargare mi potrò con lui, e narrarli come sta la cosa a punto. Sarebbe bene ingrato poi, se negasse di ajutarmi in questo, dove egli non ci ha se non a mettere parole.
Dulipo. Che vuoi tu che costui poi faccia?
Erostrato. Quello che farebbe Filogono se qui si ritrovasse, e fusse di questo parentado contento. Credo che mi sarà facil cosa disponerlo, che in nome di Filogono faccia instrumenti e contratti e tutte le obbligazioni che gli saprò dimandare. Che nocerà a lui obbligare il nome d’altri, non essendo egli per patire di questo un minimo detrimento?
Dulipo. Pur che succeda il disegno.
Erostrato. Non ci potremo di noi dolere almeno, che non abbiamo fatto quel tutto che sia possibile per ajutarci.
Dulipo. Orsù, ma dove l’hai tu lasciato?
Erostrato. Io l’ho fatto smontare fuora del borgo, a l'ostaria de la Corona; perchè in casa, come sai, non ho fieno nè paglia, nè stanza da alloggiar cavalli.
Dulipo. Perchè non l’hai ora menato in tua compagnia?
Erostrato. Prima ho voluto parlar teco, ed avvisarti del tutto.
Dulipo. Non hai mal fatto; ma non tardare; va, e menalo a casa, e non guardare a spesa per farli onore.
Erostrato. Adesso vado. Ma per mia fè, ch’egli è questo che viene in qua.
Dulipo. È questo? io lo voglio aspettar qui, per vedere s’egli ha viso di quel ch’egli è.
SCENA II.
Il SANESE, il suo SERVO ed EROSTRATO.
Sanese. In grandi ed inopinati pericoli spesso incorre chi va pel mondo.
Servo. È vero. Se questa mattina, passando noi al ponte del Lagoscuro, si fusse la barca aperta, tutti ci affogavamo; che non è alcun di noi che sappia notare.
Sanese. Io non dico di questo.
Servo. Tu vuoi dir forse del fango che trovassimo jeri venendo da Padova, che per doi volte fu la mula tua per traboccarvi?
Sanese. Va, tu sei una bestia; dico del pericolo nel quale in questa terra siamo quasi incorsi.
Servo. Gran pericolo certo, ritrovare chi ti levi da l’osteria, e ti alloggi in casa sua!
Sanese. Mercè del gentiluomo che vedi là. Ma lascia le buffonerie: guárdati, e così dico a voi altri,6 guardatevi tutti di dire che siamo sanesi, o di chiamarmi altrimenti che Filogono di Catania.
Servo. Di questo nome strano mi ricorderò male; ma quella Castanea non mi dimenticherò già.
Sanese. Che Castanea? io ti dico Catania, in tuo mal punto.
Servo. Non saprò dir mai.
Sanese. Taci dunque; non nominare Siena, nè altro.
Servo. Vuoi tu ch’io mi finga muto, come feci un’altra volta?7
Sanese. Sarebbe una sciocchezza ormai. Or non più, tu hai piacere di cianciare. Ben venga il mio figliuolo.
Erostrato. Abbi mente, perchè questi Ferraresi sono astutissimi, che nè in parlare nè in gesti si possano accorgere che tu sii altro che Filogono catanese, e mio padre.
Sanese. Non ne dubitare.
Erostrato. Il dubbio a te più tocca, ed a questi tuoi; chè saresti incontinente svaligiati, e forse anco ve ne seguiría peggio.
Sanese. Io li venivo ammonendo: sapranno simulare ottimamente.
Erostrato. Con li miei di casa ancora simulate non meno che con gli altri; perchè li famigli ch’io ho, sono tutti di questa terra, nè mio padre nè Sicilia videro mai. Questa è la stanza nostra: entrâmo dentro.
Sanese. Io vado innanzi.
Erostrato. E così convien per ogni rispetto.
Dulipo. Il principio è assai buono, pur che vi corrisponda il mezzo ed il fine. Ma non è questo il rivale e competitore mio Cleandro? O avarizia, o cecità degli uomini! che Damone, per non dotare una così gentile e costumata figliuola, pensi costui farsi genero, che gli sarebbe per etade conveniente sôcero! ed ama assai più la sua borsa, che quella de la figliuola, che per non scemare l’una di qualche fiorino, non si curerebbe che l’altra in perpetuo vôta rimanesse, salvo se non fa conto che questo vecchio le ponga dentro de li suoi doppioni. Deh misero me, che motteggio, e ne ho poca voglia!
SCENA III.
CARIONE, CLEANDRO, DULIPO.
Carione. Che ora importuna è questa, padron mio, di venire per questa contrada? Non è banchiero in Ferrara che non sia ito a bere ormai.
Cleandro. Venivo per vedere s’io trovavo Pasifilo, ch’io lo menassi a disinare meco.
Carione. Quasi che sei bocche che in casa tua ci ritroviamo, e sette con la gatta, non siamo a mangiare sufficienti un luccietto d’una libbra e mezza, ed una pentola di ceci e venti sparagi, che, senza più, sono per pascere te e la tua famiglia apparecchiati.
Cleandro. Credi tu che ti debba mancare, lupaccio?
Dulipo. (Non debb’io sojare un poco questo barbagianni?)
Carione. Non sarebbe la prima fiata.
Dulipo. (Che gli dirò?)
Carione. Pur io non dico per questo, ma perchè la famiglia starà a disagio; nè Pasifilo remarrà satollo, chè mangiarebbe te, con la pelle e l’ossa de la tua mula insieme.
Cleandro. Perchè non la carne ancora?
Carione. E dove ha ella carne?
Cleandro. Tua colpa, che così ben gli hai cura.
Carione. Colpa pur del fieno e de la biada, che son cari.
Dulipo. (Lascia lascia fare a me.)
Cleandro. Taci, imbriaco, e guarda per la contrada se tu vedi costui.
Dulipo. (Quando non faccia altro, porrò tra Pasifilo e lui tanta discordia, che Mercurio non li potrebbe ritornare amici.)
Carione. Non potevi tu mandare a cercarlo, senza che tu ci venissi in persona?
Cleandro. Sì, chè voi sête diligenti!
Carione. O padron, di’ pur che tu passi per di qui per vedere altro che Pasifilo; chè se egli ha voglia di mangiar teco, è un’ora che ti deve aspettar a casa.
Cleandro. Taci, ch’io intenderò da costui se egli è in casa del padron suo. Non sei tu de la famiglia di Damone?
Dulipo. Sì sono, a’ piaceri e a’ servizi tuoi.
Cleandro. Ti ringrazio. Mi sai dire se Pasifilo questa mattina è stato a parlargli?
Dulipo. V’è stato, e credo che ci sia ancora: ah, ah, ah!
Cleandro. Di che ridi tu?
Dulipo. Di un ragionamento che egli ha auto col padron mio, che non è però da ridere per ognuno.
Cleandro. Che ragionamento ha auto con lui?
Dulipo. Ah, non è da dire.
Cleandro. È cosa che a me si appartenga?
Dulipo. Eh!
Cleandro. Non rispondi?
Dulipo. Ti direi il tutto, s’io mi credessi che tu mi tenessi secreto.
Cleandro. Io tacerò, non dubitare. Espetta tu là.
Dulipo. Se mio padrone lo risapesse poi, guai a me.
Cleandro. Non lo risaperà mai; di’ pure.
Dulipo. E chi me ne assicura?
Cleandro. Ti darò la fede mia in pegno.
Dulipo. È tristo pegno; l’Ebreo non li dà sopra dinari.
Cleandro. Tra gli uomini da bene val più che oro e gemme.
Dulipo. Vuoi pur che te lo dica?
Cleandro. Sì, se appartiene a me.
Dulipo. A te appartiene più che ad uomo del mondo; e mi duole che una bestia qual è Pasifilo, dileggi un par tuo.
Cleandro. Dimmi dimmi, che cosa è?
Dulipo. E voglio che tu mi giuri per sacramento, che mai tu ne parlerai nè con Pasifilo nè con Damone nè con persona alcuna.
Cleandro. Io son contento: aspetta ch’io toglia una carta.
Carione. (Questa debbo essere qualche ciancetta, che colui gli dà da parte di questa giovene che l’ha fatto impazzire, con speranza di trarne qualche guadagnetto.)
Cleandro. Ecco pur ch’io ho ritrovato una lettera.
Carione. (Conosce mal l’avarizia sua: ci bisognano tanaglie, e non parole; chè più presto si lascerebbe trarre un dente della mascella, che un grosso della scarsella.)
Cleandro. Pigliala tu in mano,8 e così ti giuro che di quanto tu mi dirai, non ne parlarò a persona del mondo, se non quanto piacerà a te.
Dulipo. Sta bene. M’incresce che Pasifilo ti dia la baja, e che tu creda che parli o procuri per te; ed insta continuamente e stimula il padron mio, che dia sua figliuola a un certo scolare forestiero che ha nome Rossorasto, o Arosto: non lo so dire; ha un nome indiavolato.
Cleandro. E chi è? Erostrato?
Dulipo. Sì sì, non mi sarebbe mai venuto in bocca. Gli dice tutti li mali che sian possibili ad immaginarsi di te.
Cleandro. A chi?
Dulipo. A Damone, ed a Polimnesta ancora.
Cleandro. Ah ribaldo! e che dice egli?
Dulipo. Quanto si può dir peggio.
Cleandro. O Dio!
Dulipo. Che tu sei il più avaro e misero uomo che nascesse mai, e che tu la lascerai morir di fame.
Cleandro. Pasifilo dice questo di me?
Dulipo. Di questo il padre si cura poco, chè ben sapeva che, essendo tu della professione che tu sei, non potevi essere altrimenti che avarissimo.
Cleandro. Io non so chi è9 avaro; so bene che chi non ha roba, a questo tempo è reputato una bestia.
Dulipo. Egli ha detto che tu sei fastidioso ed ostinato sopra tutti gli altri, e che tu la farai consumare di affanno.
Cleandro. O uomo maligno!
Dulipo. E che dì e notte non fai altro che tossire e sputare, che li porci avríano schifo di te.
Cleandro. Io non tosso, nè sputo pur mai. Uhò, uhò, uhò... È vero ch’io sono adesso un poco infreddato; ma chi non è da questo tempo?
Dulipo. E dice molto peggio: che ti puzzano li piedi e le ascelle, e, più che ’l resto, il fiato.
Cleandro. O traditore! al corpo..., ch’io...
Dulipo. E che tu sei aperto di sotto, e che ti pende sin alli ginocchi una borsa più grossa che tu non hai la testa.
Cleandro. Non abbia mai cosa ch’io voglia, se non lo pago.10 Ei mente per la gola di ciò che egli dice, e se non fussi qui nella via, ti farei veder il tutto.
Dulipo. E che tu la dimandi più per voglia che hai di marito, che di moglie.
Cleandro. Che vuol per questo inferire?
Dulipo. Che con tal esca vorresti tirar li gioveni a casa.
Cleandro. Gioveni a casa io? a che effetto?
Dulipo. Che tu patisci una certa infirmità a le parte di dietro, a cui giova ed è appropriato rimedio a star con li gioveni di prima barba.
Cleandro. Poffar Iddio, che egli abbia queste cose dette?
Dulipo. Altre infinite; e non pur questa, ma molte e molte altre fiate ancora.
Cleandro. Damone gli crede?
Dulipo. Più ch’al Credo; e sono molti dì che ti avría dato repulsa, se non che Pasifilo l’ha pregato che ti tenga in parole, perchè pur spera da le mani cavarti con queste pratiche qualche cosetta.
Cleandro. O scelerato senza fede! perchè io non avevo pensato di donargli queste calze ch’io ho in piedi, come io l’avessi un poco più fruste! Mi cavarà de le mani... eh! voglio che mi cavi un capestro che l’impicchi.
Dulipo. Vuoi cosa ch’io possa? io ho fretta di tornare in casa.
Cleandro. Non altro.
Dulipo. Per tua fè, non ne parlare con persona del mondo, che saresti causa de la ruina mia.
Cleandro. Io t’ho una volta dato la fede mia. Ma dimmi, come è il tuo nome?
Dulipo. Mi dicono Maltivenga.
Cleandro. Se’ tu di questa terra?
Dulipo. Non: sono di un castello in Pistolese, nomato Fustiocciso.11 Addio, non ho più tempo di star qui.
Cleandro. O misero me, di chi mi sono io fidato! che messaggio, che ’nterprete m’avea io ritrovato!
Carione. Padron, andiamo a disinare: vuoi tu stare sin a sera a posta di Pasifilo?
Cleandro. Non mi rompere il capo: che fusti amendui impiccati!
Carione. (Non ha avute novelle che gli siano piaciute.)
Cleandro. Hai tu così gran prescia di mangiare? che non possi tu mai saziarti!
Carione. Son certo ch’io non mi saziarò mai fin ch’io sto teco.
Cleandro. Andiamo, col malanno che Dio ti dia.
Carione. El male sempre a te e a tutto il resto degli avari.
Note
- ↑ Così legge il Barotti, che questa lezione dovè trarre alcerto da manoscritti più antichi di quelli ove leggasi: vicerè.
- ↑ Lezione egualmente del Barotti; avendo qui pure le altre: viceré. Non può con certezza inferirsene che l’Ariosto scrivesse questa Commedia fin dai giorni del re Ferdinando primo o secondo d’Aragona, ma che nel tempo delle repliche fattene fosse accaduta la mutazione di quel reame in provincia spagnuola.
- ↑ Ant. stamp.: vedesse.
- ↑ Nelle antiche stampe, che abbiamo qui sospette d’errore: Egli è come io ti narro, puoi che ec.
- ↑ Beffato col mostrargli amore e particolare sollecitudine. Vedi ancora la scena seguente.
- ↑ Parla ad altri servi. — (Tortoli.)
- ↑ Allude alla scena VII dell’atto quarto della Cassaria, in cui il servo Trappola si finge muto. Può da questo congetturarsi, che chi allora fece la parte di Trappola era quel medesimo che qui fa da servo del Sanese. — (Tortoli.)
- ↑ È noto il costume de’ notai, di far giurare altrui toccando le scritture da essi preparate. Cleandro causidico segue in questo la sua propria abitudine; nè so se possa inferirsene che il volgo di que’ tempi solesse contraffare un tal uso mediante una carta qualsiasi.
- ↑ Prendiamo arbitrio d’interpretare anzichè correggere le antiche stampe, nelle quali leggesi: non so che. Il Barotti suppliva: che sia.
- ↑ Ant. stamp.: se non l’impago; ma vedi la stessa commedia in versi.
- ↑ Così le stampe; ma per corrispondere al mal augurio del precedente Maltivenga, sarebbe da scriversi Fustuocciso o Fustucciso.