I drammi della schiavitù/20. Una terribile rivelazione

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20. Una terribile rivelazione

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XX.


Una terribile rivelazione.


La fame, la temuta fame era adunque piombata sulla zattera. L’acqua abbondava, poichè i barili erano quasi tutti pieni ancora, ma più nulla rimaneva da mettere sotto i denti; più nulla possedevano per calmare gli imperiosi stiracchiamenti degli stomachi già sfiniti dai lunghi digiuni.

Nell’apprendere la terribile notizia dell’infame furto, un impeto di furore invase gli animi di tutti, ed una sola voce scoppiò a bordo della zattera, che l’Oceano teneva immobile sulla sua immensa e deserta superficie.

– Appicchiamo i ladri!...

Kardec, che sembrava il più furioso di tutti, chiamò a raccolta gli uomini e da Vasco li fece frugare, giurando che avrebbe appiccato colui che portasse indosso un biscotto od una scatola di conserva, ma senza ottenere alcun risultato. Fece perfino frugare le tende dell’equipaggio e di Seghira e schiodare gran parte del ponte, ma nulla si rinvenne. Erano stati divorati sul posto dai ladri? Bisognava ammetterlo, non avendo quelle accurate ricerche, dato alcun frutto.

A quel primo accesso di rabbia impotente, tenne dietro un cupo scoraggiamento. L’equipaggio si credette ormai condannato a perire di fame e si sentì spegnere l’ultima scintilla d’energia che ancora gli rimaneva.

– È inutile lottare, – disse Vasco a Kardec che pareva scoraggiato al pari degli altri. – Era scritto che così dovessero finire gli ultimi superstiti della Guadiana. [p. 155 modifica]

Il bretone si limitò ad alzare le spalle.

– E di Seghira, cosa accadrà, povera ragazza? – riprese il portoghese.

Nemmeno questa volta il tenente rispose, ma un enigmatico sorriso gli sfiorò le labbra.

– Vedremo. – disse dopo qualche minuto, con accento misterioso.

– Cosa volete dire, signor Kardec?

– Lo so io, – rispose il bretone.

– Forse che sperate su qualche cosa?

– Può essere; d’altronde vi sono dei pescicani che nuotano intorno alla zattera e sono più grassi di ieri.

– Non vi comprendo, signor Kardec.

– Ma l’ho compreso io, – disse una voce.

– E in qual modo, signor Esteban? – chiese il bretone con leggera ironia, volgendosi verso il dottore che gli si era avvicinato.

– Volevate dire che i pescicani la scorsa notte hanno divorato una grossa preda.

– È probabile, ma ciò non vi riguarda.

– È vero, signor Kardec? Quell’Ovando poteva diventar pericoloso.

Kardec trasalì, ma poi crollando il capo disse:

– Se l’hanno gettato ai pescicani, non so cosa farci.

Poi traendo Esteban bruscamente da un lato, gli chiese a bruciapelo:

– Avete fame voi?

– Forse che avete qualche provvista nascosta? – chiese il dottore con meraviglia.

– È possibile anche questo.

– Voi dunque avete rubato i viveri?

– Che v’importa? – chiese ruvidamente Kardec.

– Sapete che potrei farvi appiccare?

– E quando l’avreste fatto, cosa avreste ottenuto?

– Avrei vendicato qualcuno, signor Kardec.

– Lasciate stare i morti, signor Esteban, – rispose il bretone seccamente. – Vi offro un patto: avete fame?

– A me solo?... E gli altri?

– Che s’impicchino!

– E perchè mi offrite dei viveri, mentre voi sapete che non vi sono stato mai amico?

– Perchè difenderete anche voi Seghira.

Il dottore lo guardò con un’ansietà impossibile a descriversi. [p. 156 modifica]

– Quale pericolo la minaccia? – gli chiese, con voce rotta.

– Il più terribile di tutti, dottore. Ieri sera, i ribelli hanno deciso di ucciderla per la prima.

– Di ucciderla?... Cosa dite voi?... Per qual motivo?

– La fame sta per piombare sulla zattera e Seghira può essere un buon boccone, per quei furfanti.

– Ma di quali ribelli parlate, signor Kardec?

– Dei compagni di Ovando.

– Dunque voi non avete più partigiani, più amici devoti?

– Cinque soli uomini, i miei compatrioti; tutti gli altri mi hanno abbandonato e non vogliono che vi siano più comandanti sulla zattera.

– Infami!... E voi avete fatto sparire i viveri?

– Sparire?... No, signor Esteban, sono nascosti in un luogo sicuro e li serberò per mantenere in forza i miei soli amici, perchè difendano Seghira. Accettate di essere mio amico? Voi avete ancora dell’influenza su quei miserabili ribelli.

– Ma io divento complice di un ladro.

– Eh via, dottore!... Lasciate queste sottigliezze!... Se non avessi fatto sparire i viveri, domani o posdomani saremmo rimasti egualmente senza. Orsù, spicciatevi: accettate o rifiutate?

– Accetto di essere vostro amico, non per voi, ma per difendere Seghira; i viveri però teneteveli. Dio mi darà la forza di resistere.

– Come vi piace, – disse il bretone con un sorriso sardonico.

– Una parola ancora.

– Dite.

– Vi è un altro amico da contare.

– Chi è?

– Vasco.

– Avrà la sua parte.

Si separarono: il bretone si recò a poppa dove lo aspettavano i suoi compatrioti che stavano radunati presso il timone ed il dottore si assise a prua, presso la tenda di Seghira.

Intanto la zattera, spinta da una leggerissima brezza, navigava lentamente verso l’est, ondeggiando pesantemente sugli ultimi cavalloni sollevati dall’uragano. Attorno nuotava sempre la torma dei pescicani, che si era accresciuta assai. Si vedevano quei mostri giocherellare nella scia della zattera, mostrando ora il loro capo appiattito ed il loro muso arrotondato sotto il quale si aprivano delle bocche enormi, delle vere voragini irte di lunghi denti triangolari e movibili, o mostrando i loro fianchi [p. 157 modifica] biancosporchi o bruno-cenere, od i loro dorsi coperti di spessi tubercoli o le loro formidabili code terminanti in due pinne disuguali.

Qualcuno era tanto ardito, che si avvicinava a tiro di rampone e saettava sugli sventurati naufraghi sguardi di ardente bramosia, coi suoi piccoli occhi quasi rotondi, dall’iride verde oscura e la pupilla azzurrognola.

Nessuno dei marinai però, pensava a cacciarli; non ignorando quanto fosse difficile la loro cattura specialmente ora che non possedevano un pezzo di carne o di lardo per adescarli. Eppure quale pasto se si fossero impadroniti di uno di quei mostri, che non dovevano pesare meno di cinquecento chilogrammi ciascuno!

I disgraziati superstiti della Guadiana, in preda ad un profondo scoraggiamento, ad un’angoscia indescrivibile, pareva che non si occupassero più di nulla. Dispersi pel ponte o accoccolati sotto la tenda, con la testa stretta fra le mani, lo sguardo fisso sull’Oceano sconfinato, sembravano già sfiniti dalla fame. A mezzodì Kardec li chiamò a raccolta per la razione d’acqua, ma nessuno si mosse. Solamente alcuni si udirono ad esclamare:

– Quale necessità vi è di mantenere le razioni? Chi ha sete, beva!...

Kardec credette di non rispondere a quelle parole, anzi sfondò un barile e si limitò a dire:

– Accomodatevi adunque!... Quando la provvista sarà terminata, berrete l’acqua dell’oceano!...

– O del sangue! – esclamò un marinaio, fissando sul bretone uno sguardo minaccioso.

– Che uomini! – disse Seghira al dottore. – Sono feroci come i cacciatori di schiavi.

– E forse di più, – rispose Esteban. – Quando la fame e la sete li avrà resi furiosi, assisteremo a delle orribili scene.

– La sete!... Ma non si può proprio bere tutta questa acqua che ci circonda?

– No, Seghira.

– Ma a me sembra che un sorso, per quanto questa acqua sia salata, dovrebbe se non spegnere del tutto la sete almeno diminuirla.

– Nessun marinaio, fosse pure morente di sete, l’assaggerebbe, – disse Vasco, che stava seduto presso di loro.

– Tanto sale adunque contiene?

– Molto, Seghira, fin troppo.

– Delle migliaia di tonnellate, – disse Vasco.

– Dei milioni, – corresse il dottore. – Si calcola, mio caro [p. 158 modifica] Vasco, che gli oceani uniti insieme, contengano 5.651.100 chilometri cubici di sodio, calcolato che l’acqua che circonda il globo abbia una profondità media di 300 metri.

– Quale massa di sale!... – esclamò Vasco.

– Ma si crede che questo calcolo sia ancora al disotto del vero, poichè secondo gli ultimi scandagli eseguiti nei diversi oceani, dicesi che bisognerebbe dare alle acque una profondità media di 800 metri. In questo caso la massa di sale marino che conterrebbero sarebbe così immensa da paragonarsi al doppio della grande montagna d’Himalaya che si erge in India.

– Ma contiene solamente del sale, l’acqua marina? – chiese Seghira.

– No, contiene molte altre sostanze, ma in proporzioni molto minori, del cloruro di magnesio, del solfato di soda, del carbonato di calce, del magnesio e solfato di calce, poi in piccola quantità della potassa, del ferro, del bromuro di magnesio, dell'joduro di potassio, dell’acido silicico, dell’acido carbonico talvolta libero e talvolta sotto forma di bicarbonati ed infine dell’argento ed anco delle tracce d’oro, se si deve prestare fede alle ultime analisi chimiche.

– Tutte queste sostanze, riunite insieme, devono però formare delle masse ragguardevoli, – disse Vasco.

– Senza dubbio, – rispose il dottore. – Si calcola che negli oceani vi siano sparsi 1.173.500 chilometri cubici di solfato di soda, 818.200 di cloruro di magnesio e 202.300 di sali di calce.

– Gli oceani, sono egualmente salati in tutta la loro superficie?

– No, Vasco. Le acque degli oceani sono meno salate presso le spiagge, e ciò in causa dei fiumi che le rendono più dolci; lo sono invece più presso l’Equatore che verso i poli.

– E per qual motivo sono qui più salate? Forse perchè vi sono dei banchi di sale assai più vasti che altrove?

– No, ma perchè il sole esercita qui una forte evaporazione, sottraendo quindi una grande quantità di acqua pura, mentre verso i poli grandi banchi di ghiaccio e le grandi nevicate, dolcificano le acque di quelle regioni. To'!... Gli excocaetus.

– Dove sono? – chiese Vasco.

– Eccoli laggiù, che spiccano le loro volate.

– Ah! Se qualcuno cadesse sulla zattera!...

– Ce ne vorrebbero due dozzine, per tutti noi.

Seghira guardò nella direzione indicata e vide, con sua grande sorpresa, una banda di pesci, che volavano sopra l’Oceano. Erano [p. 159 modifica] tre o quattrocento, lunghi dai venti ai trenta centimetri, dalla tinta azzurro-argentea, ma vi erano pure di quelli lunghi un buon piede di color bruno-rossastro, con le natatoie nere e con in capo una specie di casco armato di lunghi pungiglioni.

Questi pesci stravaganti, s’incontrano in gran numero nei mari tropicali ed equatoriali, dove si vedono spiccare delle volate talvolta considerevoli. Quando sono inseguiti da pesci maggiori e voraci, balzano fuori dalle acque descrivendo un angolo acuto, vibrano rapidamente le larghe piume e spiccano dei voli di centocinquanta a duecento metri, impiegando nel tragitto dai quindici ai venti secondi.

Veduti ad una certa distanza, si scambierebbero per grosse cavallette ed infatti volano come queste.

Quelli che si trovavano nelle acque della zattera, parevano in preda ad un vivo terrore. S’alzavano in tutte le direzioni, descrivevano degli angoli acutissimi, mantenendosi a pochi metri sopra la superficie dell’Oceano ed appena ricaduti tornavano ad alzarsi, battendo vigorosamente l’acqua con la coda e tornando a vibrare le loro nere pinne.

Tre o quattro, trasportati dalla loro cieca paura, causata forse dalla comparsa di alcuni pesci-spada o da un branco di tonni, caddero sulla zattera e dai marinai vennero tosto divorati crudi, disputandosi i pezzetti a pugni ed a calci.

Per parecchie ore i pesci-volanti si tennero presso la zattera, poi, calate le tenebre, s’allontanarono verso l’ovest, continuando i loro slanci e le loro immersioni.

Il dottore e Vasco, esausti dalla fame, si coricarono fra due barili vuoti, mentre Seghira era rimasta assisa a prua della zattera, cogli occhi distrattamente volti verso l’Oceano, immersa in profondi pensieri, sotto la protezione di Niombo che si era sdraiato a pochi passi da lei, dietro ad una cassa sfondata, tenendo sottomano la scure.

Gli altri, russavano di già da qualche ora, alcuni sotto la tenda ed altri sdraiati pel ponte, cercando di trovare nel sonno, un sollievo contro le prime torture della fame. Solo un uomo vegliava al timone per dirigere la zattera verso l’est e questi era Kardec.

Le tenebre calavano rapidamente come una volata immensa di corvi, ma la luna sorgeva agli estremi confini dell’orizzonte, facendo scintillare vagamente i flutti, mentre le stelle si riflettevano sulla tranquilla superficie dell’oceano.

Una fresca brezza, che veniva dall’ovest, gonfiava la grande vela e sussurrava fra il sartiame con flebili sospiri, mentre a poppa [p. 160 modifica] biancheggiava una scìa gorgogliante, che di quando in quando si tingeva di rapidi bagliori.

Seghira con la fronte appoggiata sulle mani, i capelli sciolti sulle spalle, i nudi piedi quasi immersi nell’acqua, pareva che sonnecchiasse, ma di quando in quando alzava le palpebre ed i suoi occhi neri e vellutati, si fissavano sui pescicani che giocherellavano dinanzi alla zattera immergendosi con cupi fragori.

Era più di mezz’ora che si trovava colà, aspirando voluttuosamente la fresca brezza della notte e lasciandosi spruzzare dalle onde che gorgogliavano ai suoi piedi, quando udì dietro di sè un passo leggero che s’avvicinava cautamente e poco dopo si sentì toccare una spalla.

Si volse lentamente, credendo che fosse il dottore o Niombo, e ai pallidi raggi della luna, scorse chino su di lei il bretone. Trasalì, rabbrividendo, ma poi un sorriso strano apparve sulle sue labbra.

Kardec, più livido del solito, contemplò per alcuni istanti ed in silenzio, il viso bellissimo della giovane schiava, le cui carni non portavano ancora le tracce di alcuna sofferenza, poi, come se facesse uno sforzo su se stesso, le disse con voce quasi tremante:

– Che cosa fai qui, Seghira?

– Nulla, – rispose ella. – Guardavo l’Oceano che è così bello.

– A cosa pensavi?

– Alla mia Africa, ai miei grandi boschi profumati, al mio lontano paese.

Kardec rimase alcuni minuti silenzioso, mentre la giovane schiava lo fissava co’ suoi grandi occhi come se volesse affascinarlo, poi riprese, sedendolesi accanto:

– Lo rivedresti volentieri il tuo paese?

– Oh sì! – sospirò Seghira.

– Cosa faresti per l’uomo che ti riconducesse nei tuoi grandi boschi?

– Gli darei la mia vita.

– Ah!...

– Cosa avete, signor Kardec?

– Pensavo che quell’uomo sarebbe immensamente felice.

– Ma l’uomo che avrebbe potuto ricondurmi nella mia ardente Africa è morto – disse la schiava con voce cupa.

Kardec rabbrividì e si morse le labbra, mentre un lampo di rabbia feroce gli balenava negli sguardi. [p. 161 modifica]Con un'ultima strappata, trascinarono lo squalo presso la zattera. (Pag. 173) [p. 163 modifica]

– Forse che un altro uomo non potrebbe fare altrettanto? – chiese con voce sorda.

– E chi sarebbe questo?

– Io!...

– Voi!... – esclamò Seghira, mentre un sorriso di trionfo le appariva sulle labbra. – Voi, signor Kardec? Eh via!... Voi volete scherzare.

– No, Seghira, non scherzo, – disse il bretone con fuoco. – Io t’amo, sai, e ti ho amato fino dal primo istante che tu hai posto i piedi sul ponte della Guadiana!

– Scherzate, signor Kardec, – ripetè Seghira.

– No, io ti amo ed ho giurato che tu sarai mia e che per possederti farei qualunque cosa.

– Eppure, quando il capitano Alvaez mi amava, mai mi avete detto una parola d’amore, – incalzò Seghira, il cui viso aveva preso allora una espressione selvaggia.

– Sì, t’amavo anche allora ed è per te, sai...

S’interruppe bruscamente, girando all’intorno uno sguardo pauroso, come se temesse di venire udito, poi si terse l’ardente sudore che inondavagli la fronte ed ammutolì.

Seghira stette zitta, le nari le si erano dilatate, mentre una profonda ruga increspava la sua fronte. Aveva indovinato ciò che voleva dire il bretone.

Rimasero silenziosi per parecchi minuti, contemplandosi l’un l’altro ai pallidi raggi dell’astro notturno, mentre i pescicani continuavano a tuffarsi ed a riapparire, emettendo rauchi sospiri e la brezza sussurrava attraverso la vela e le corde della zattera.

– Seghira! – esclamò ad un tratto Kardec, avvicinandolesi vieppiù e ponendole ambe le mani sulle spalle.

– Parlate, lo voglio, – disse la schiava con tono di comando.

– Tu non credi che io ti amassi quando Alvaez viveva...

– Ebbene?...

– Odimi quanto io t’amavo.

– Parla!...

– Quando s’incontra una rivale cosa si fa?...

– Si uccide.

– Ebbene, per te io ho assassinato il capitano della Guadiana!

Seghira mandò un grido soffocato e si gettò violentemente indietro facendo un gesto di ribrezzo, mentre un lampo feroce dilatava le sue sfolgoranti pupille.