I predoni del Sahara/Capitolo 19 - I predoni del Sahara

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Capitolo 19 - I predoni del Sahara

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Capitolo 19 - I predoni del Sahara
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19 - I predoni del Sahara


Due razze, egualmente feroci e ladre, si disputano l'impero del Sahara: i Tibbù ed i Tuareg.

I primi abitano la parte orientale e meridionale del grande deserto e sono meno crudeli dei secondi, quantunque non meno pericolosi per le carovane. Preferiscono ricorrere più all'astuzia che alla violenza per derubare i cammellieri ed i trafficanti ed in ciò non hanno rivali.

Dotati di un'agilità estrema, si nascondono delle giornate intere fra le sabbie, aspettando che qualche cammello si sbandi per alleggerirlo subito del suo carico, o che i cammellieri si addormentino per saccheggiarli completamente.

I Tuareg, che chiamansi anche Sorgu o Tuarik, sono i veri pirati del Sahara, anzi si possono considerare come i più famosi predatori del mondo.

Abitano tutte le oasi del Sahara centrale e occidentale, trasformandole in veri covi di malandrini, e sono i padroni di tutti i pozzi e di tutte le sorgenti del deserto.

Questi audaci scorridori delle sabbie ardenti sembrano di origine araba, perché hanno lo stesso tipo dei mori dell'Algeria, della Tripolitania, della Tunisia e del Marocco.

Hanno viso ovale, fronte alta, bocca ben tagliata, occhi larghi e nerissimi, capelli assai lunghi, pelle assai bruna ed i corpi magri e muscolosi.

Sono tutti mussulmani fanatici, che odiano ferocemente gl'infedeli, anzi si fanno un merito di ucciderli; ma conoscono malamente il Corano, sono superstiziosi all'eccesso e si coprono di amuleti ai quali attribuiscono proprietà meravigliose contro le malattie, contro le palle dei nemici, contro la jettatura.

Bellicosi e crudeli all'eccesso, sono sempre in guerra contro tutti, spargendo il terrore dai confini del Sudan fino alle frontiere della Tripolitania, dell'Algeria e del Marocco.

Cavalieri insuperabili, coi loro mehari percorrono delle distanze incredibili, spiando dovunque il passaggio delle carovane.

Quando sanno che una è in marcia, le piombano addosso come uno stormo di avvoltoi e se non riescono ad ottenere un grosso diritto di passaggio, sterminano fino all'ultimo cammellieri e trafficanti. Chi resiste è perduto, perché quegli audaci predoni non temono la morte e vanno alla carica con un coraggio disperato.

Il marchese, conoscendo già quanto valevano, non si era fatto soverchie illusioni. Due uomini morti non dovevano averli né spaventati, né calmati.

“Finché ce ne sarà uno, non cesseranno di perseguitarci,” disse il corso, volgendosi verso Rocco e Ben.

Dopo quella prima lezione, i predoni erano diventati più prudenti ed avevano rallentato lo slancio dei loro mehari per tenersi fuori di portata da quelle terribili armi che gli uomini bianchi maneggiavano con tanta destrezza.

“Padrone,” disse Rocco. “Volete che ricominciamo il fuoco, prima di raggiungere la carovana?”

“No, aspettiamo, mio bravo sardo,” rispose il marchese. “Quantunque quei Tuareg siano i più crudeli bricconi del mondo, mi ripugna ucciderli a sangue freddo. Cerchiamo piuttosto di smontarli. Forse ci tengono più ai loro mehari che alla propria pelle. Cosa ne dite, Ben?”

“Che vedendosi senza cavalcatura forse rinunceranno a darci la caccia,” rispose l'ebreo.

“A voi allora, Ben, poi farà fuoco Rocco.”

L'ebreo fermò il cavallo, alzò lentamente il fucile e mirò il mehari del capofila, un bellissimo animale dal mantello quasi bianco, dal ventre stretto e dalle gambe secche e nervose, un magnifico corridore. “È un peccato ucciderlo,” disse l'ebreo.

Mirò per qualche istante, poi premette dolcemente il grilletto onde non spostare la canna.

La detonazione era appena echeggiata quando si vide il mehari cadere bruscamente sulle ginocchia, sbalzando a terra il suo cavaliere. Rimase un momento ritto, colla testa alzata, il collo teso e la bocca aperta, poi stramazzò fulminato.

“Per bacco!” esclamò Rocco. “Dovete averlo colpito al cuore.” Vedendo cadere il loro migliore corridore, i predoni avevano risposto con urla feroci e con una scarica, affatto inoffensiva, dei loro moschettoni.

Accortisi che nessuno dei tre cavalieri era stato colpito, spinsero innanzi i loro mehari per giungere a tiro.

“Faremo un superbo doppietto: a te, Rocco, il primo mehari di destra, a me quello di sinistra,” comandò il marchese.

I due spari formarono una detonazione sola. Il cammello mirato dal sardo cadde di colpo; quello mirato dal marchese continuò la corsa, ma dopo cinquanta passi stramazzò piantando il muso entro una duna di sabbia e facendo fare al suo cavaliere un salto mortale di quattro metri.

“Che superba volata!” esclamò Ben, ridendo.

I Tuareg si erano arrestati sfogando la loro rabbia impotente con urla ed imprecazioni:

“Kafir! Cristiani maledetti! Morite dannati! Che il sole del deserto dissecchi i vostri corpi e che gli avvoltoi divorino le vostre carogne!”

“E che il simun disperda voi!” rispose il marchese.

Un Tuareg, il più alto di tutti e che montava un mehari dal mantello oscuro, si spinse innanzi facendo volteggiare sopra la sua testa il moschettone, e rivolgendosi al marchese, urlò:

“Giuro sul Corano che avrò la tua barba e anche la tua testa, infedele maledetto!”

“Ed io il tuo mehari, per ora,” rispose il corso, strappando a Ben il fucile che era già carico. “Prendi, miscredente.”

Aveva appena terminato la minaccia che anche il quarto corridore cadeva al suolo, dimenando pazzamente le gambe, mentre il suo padrone, scavalcato di colpo, rotolava giù da una duna.

Era troppo anche per quegli ostinati e coraggiosi predoni. Comprendendo ormai che la lotta stava per diventare disastrosa per loro, non potendo misurarsi contro uomini così coraggiosi e così abili nel maneggio del fucile, e temendo che dopo i cammelli quei formidabili nemici se la prendessero nuovamente colle persone, fecero un rapido dietro front, spingendo gli animali a corsa sfrenata verso il nord.

“Pare che ne abbiano avuto abbastanza,” disse il marchese. “Che si siano decisi a rinunciare ai loro progetti ladreschi?”

“Non speratelo, marchese,” disse Ben. “Finché ne rimarrà uno non ci lasceranno tranquilli. Torneranno presto. Hanno da seppellire i loro compagni e da buoni mussulmani verranno ancora qui per scavare le fosse.”

“Che vadano ora in cerca di aiuti?” domandò Rocco.

“Sepolti i compagni, probabilmente si spingeranno fino all'oasi più vicina per levare armati,” rispose Ben. “Quando però torneranno, noi saremo ben lontani.”

“Lasciamoli correre e raggiungiamo la carovana,” disse il marchese. “Ci avanzeremo a marce forzate per giungere presto ai pozzi di Marabuti.”

Vedendo che i Tuareg non accennavano a fermarsi, spronarono i cavalli e con una galoppata di mezz'ora raggiunsero la carovana, la quale in quel frattempo aveva continuato la sua fuga verso il sud.

Alla retroguardia trovarono Esther colla piccola carabina in mano, pronta a proteggere la carovana e a portare soccorso al marchese ed ai suoi compagni.

I due beduini ed il sahariano mostravano invece uno sbigottimento tale, da far scoppiare dalle risa Rocco.

“Non potremo fare molto assegnamento su questi uomini,” disse il marchese, osservando i visi sconvolti dei marocchini.

“I due beduini parlavano di abbandonarvi,” disse Esther. “Se non avessero avuto paura della mia carabina e del fucile di El-Haggar, non sarebbero forse più con noi.”

“Ed anche El-Haggar mi pare abbastanza spaventato,” disse Ben.

“Signore,” disse in quel momento El-Haggar, accostandosi al marchese, “è necessario marciare senza perdere tempo; quei Tuareg torneranno con altri compagni. Essi non cesseranno l'inseguimento finché non avranno vendicato i loro morti.”

“E tu hai una paura indiavolata di loro, è vero, El-Haggar?” rispose il marchese.

“So quanto sono tenaci nelle loro vendette, signore. Avete fatto male a prenderli subito a fucilate.”

“Volevi che mi lasciassi ammazzare come quei disgraziati che abbiamo veduto ieri?”

“Non dico questo; si poteva venire a patti con quei predoni. Probabilmente si sarebbero accontentati d'una terza o quarta parte delle vostre mercanzie come diritto di passaggio.”

“Io sono uso a non tollerare imposizioni da parte di chicchessia, mio caro El-Haggar. Il deserto appartiene a tutti e chi vorrà impedirmi d'attraversarlo avrà a che fare col mio fucile. Lascia andare i Tuareg e le tue paure insieme e cerchiamo di frapporre fra noi e quei bricconi il maggior spazio possibile.”

“Ben detto, marchese,” disse Esther. “Noi non abbiamo paura di quei ladroni. Partiamo.”

La carovana, che aveva fatto una brevissima sosta, si ripose in cammino attraverso quelle eterne ondulazioni sabbiose, le quali pareva non dovessero avere più confine.

Quelle immense pianure non variavano. Sempre dune, poi dune ancora, con qualche magro cespuglio quasi disseccato dal sole e qualche scheletro di cammello biancheggiante sinistramente fra quelle sabbie ardenti.

Nessuna palma che annunciasse la presenza d'un pozzo si scorgeva in alcuna direzione, come pure non si vedeva alcuna roccia che rompesse la desolante monotonia di quelle pianure.

Il marchese e Ben si erano collocati alla retroguardia onde prevenire qualunque sorpresa, mentre Rocco e El-Haggar si erano messi all'avanguardia, tenendo i fucili dinanzi alle selle. El-Melah invece aveva ripreso il suo posto a fianco del cammello montato da Esther.

Il sahariano, poco ciarliero come la maggior parte dei suoi compatrioti, non aveva ancora rivolto alla giovane una sola parola, però mostrava verso di essa un attaccamento strano.

Ogni volta che la giovane lo guardava, era certa d'incontrare gli occhi neri, brucianti di lui, e ne riceveva un'impressione disgustosa e di paura.

Nel lampo di quegli sguardi vi era qualche cosa di misterioso ed insieme di bestiale e di minaccioso, che la giovane non sapeva spiegarsi. Non aveva però fino allora avuto di che lamentarsi di quell'uomo.

Anzi non aveva nemmeno il tempo di formulare un desiderio, che già El-Melah, come l'avesse indovinato, la esaudiva.

Se una scossa del cammello apriva troppo la tenda, s'affrettava a richiuderla onde il sole non vi penetrasse; se vi era da salire una duna, prendeva subito la briglia e guidava l'animale adagio, con prudenza, onde non cadesse; se Esther aveva sete, lo indovinava dallo sguardo ed era pronto ad offrirle l'otre.

Mai però una parola, né un sorriso, né un gesto che tradisse una qualche compiacenza nel renderle quei servigi, che d'altronde nessuno gli chiedeva.

“La paura provata durante quella lunga agonia, e fors'anche quell'orribile scena del massacro, devono avergli sconvolto il cervello,” aveva detto la giovane. “Lasciamo che mi guardi.”

Un momento però, aveva avuto un timore ben diverso. Aveva sorpreso negli sguardi del sahariano un lampo terribile nel punto in cui il marchese si era appressato al cammello che la portava, per scambiare con lei qualche parola.

Quello sguardo però si era subito spento ed il viso di El-Melah, per un poco alterato, aveva ripreso la sua impassibilità consueta.

Alla sera la carovana, sfinita da quella lunga marcia, s'arrestava fra due alte dune che formavano due bastioni naturali, nel caso che i Tuareg avessero cercato di approfittare delle tenebre per sorprenderli.

“Con due sentinelle sulla cima delle dune, noi potremo dormire tranquillamente alcune ore,” aveva detto il marchese, dando il segnale della fermata.

Mentre si preparava la cena e si alzavano le tende, fece una galloppata verso il nord in compagnia di Ben, onde accertarsi che i Tuareg non li avevano seguiti, tenendosi nascosti dietro alle dune.

“Pare che abbiano rinunciato ad inseguirci,” disse il marchese a Rocco ed al moro. “Non abbiamo veduto nessuno.”

“Non illudetevi, signore,” rispose El-Haggar. “Quei predoni non ci lasceranno tranquilli, lo vedrete.”

“Io dico invece che ne hanno avuto abbastanza e che non ci seccheranno più.”

“Badate a me, signore, che ho assistito al massacro della spedizione della signora Tinnè.”

“Chi? Tu?” esclamò il marchese, stupito.

“Sì, signore, e dovrei essere morto fino da allora.”

“Chi era questa signora Tinnè?” chiese Esther, con curiosità. “Una donna europea forse?”

“Una delle più ricche e delle più belle giovani dell'Olanda,” rispose il marchese.

“Ed è stata assassinata qui?”

“Sì, in questo deserto. Ceniamo ora, poi vi narrerò quel massacro che ha commosso l'intera Europa. Forse da El-Haggar udremo dei particolari che tutti ancora ignoriamo.”

“Se i Tuareg ce ne lasceranno il tempo,” disse il moro, i cui sguardi si erano volti verso una bassura che si estendeva verso l'est.

“Si avvicinano?” chiese il marchese, alzandosi vivamente.

“Non sono essi per ora; ma se quei giganteschi volatili fuggono, ciò significa che degli uomini li inseguono o che li hanno spaventati.”

“Di quali volatili parli?”

“Non vedete una nube di polvere alzarsi dietro quelle dune e avanzassi velocemente verso di noi?”

“Vediamo,” rispose il marchese.

“È una banda di struzzi, signore.”

“Una bella occasione per procurarci un superbo arrosto,” disse Rocco.

“Devono essere stati i Tuareg a costringerli a prendere il largo,” insistette El-Haggar.

“Ne sei certo?” chiese il marchese. “Lo suppongo, signore.”

“Ebbene,” disse il marchese con voce tranquilla, “prima occupiamoci di questi superbi volatili; poi penseremo ai Tuareg. E tu, Rocco, fà preparare un bel fuoco: vi sono qui molti sterpi da raccogliere.”

La nube di polvere ingrandiva a vista d'occhio e s'avvicinava con una rapidità prodigiosa.

La banda doveva passare in mezzo alla bassura, a meno di mezzo chilometro dall'accampamento, a quanto pareva.

Il marchese, Esther e Ben si slanciarono in mezzo alle dune e andarono ad appostarsi dietro un monticello di sabbia, il quale sorgeva isolato quasi nel mezzo della bassura.

Gli struzzi s'avanzavano in fila, correndo e sbattendo vivamente le ali per aiutarsi meglio.

Erano una diecina, tutti bellissimi e di statura gigantesca, e ricchi di quelle piume preziose che sono così ricercate e così ben pagate sui mercati europei ed anche americani, bianche sotto il ventre e sotto la coda e nere lungo il dorso e le ali.

Questi volatili sono ancora numerosissimi nel Sahara e vivono là dove altri animali non potrebbero resistere, potendo sopportare lungamente la sete al pari dei cammelli.

Raggiungono talvolta un'altezza superiore ai tre metri, hanno il collo e le gambe spoglie di piume, un becco robustissimo e piedi poderosi. Le loro ali invece sono così brevi da sembrare piuttosto moncherini, sicché non possono che aiutare la loro corsa, ma non servono per volare.

Sono nondimeno rapidissimi corridori e vincono facilmente i cavalli. È nota la prodigiosa robustezza dei loro stomachi poiché in mancanza di altro, si nutrono perfino di sassi che digeriscono come fossero pagnottelle!

I dieci struzzi, i quali parevano realmente in preda ad una viva agitazione, sfilavano come trombe, col collo teso, gettando in aria coi loro robustissimi piedi nembi di sabbia e di pietre, muovendo diritti attraverso la bassura. Pareva che non si fossero ancora accorti della presenza dei cacciatori, quantunque siano dotati d'una vista acutissima e d'un olfatto perfetto che permette loro di fiutare i nemici a grandi distanze.

“Sembrano veramente spaventati,” disse il marchese, il quale li osservava con viva curiosità.

“Sì,” confermò Ben; “però non credo che siano stati i Tuareg a metterli in fuga. Mi pare d'aver veduto degli animali correre dietro le dune.”

“Che gli struzzi siano inseguiti da qualche banda di iene?”

“Rimarrebbero subito indietro, marchese,” disse Ben. “Ah! Guardateli i cacciatori!”

Essendo le dune terminate, gli inseguitori dei giganteschi volatili erano stati costretti a smascherarsi onde attraversare la radura.

“I caracal!” esclamò il marchese. “Ah! I ladroni! Adagio, miei cari! A voi gli struzzi, a me quegli arditi predoni.”

I caracal, chiamati anche, e forse impropriamente, le linci dei deserti, erano almeno una trentina e correvano disperatamente sulle orme degli struzzi, facendo sforzi prodigiosi per isolarne qualcuno.

Erano bellissimi animali, non più alti di settanta od ottanta centimetri, con una coda lunga trenta, di corporatura svelta, cogli orecchi lunghi e sottili ed il pelame giallo fulvo sul dorso e biancastro sotto il ventre.

Vivono di preferenza nei deserti inseguendo con un coraggio incredibile struzzi e gazzelle e facendo gran vuoti fra le pecore dei duar. Svelti corridori, percorrono distanze straordinarie e non lasciano le prede finché non le hanno raggiunte e fatte a pezzi.

Selvaggi, indomabili e astutissimi, costituiscono un vero pericolo per tutti gli abitanti del deserto, escluso l'uomo che non osano assalire, ed il leone che seguono a distanza per divorare gli avanzi delle sue prede.

I caracal manovravano con una rapidità ed una precisione veramente ammirabili, cercando di tagliar fuori uno degli struzzi che pareva il meno resistente e che malgrado i suoi sforzi disperati rimaneva sempre l'ultimo della banda.

Gli mordevano ferocemente le zampe, senza badare ai calci furiosi che lanciava il volatile, e gli balzavano dinanzi tentando di azzannargli il petto.

Pagavano di frequente cara la loro audacia, perché qualcuno di quando in quando veniva scagliato in aria colla testa fracassata dai robusti piedi dell'uccello gigante.

“Strappiamolo ai caracal,” disse il marchese.

Approfittando del momento in cui lo struzzo era riuscito a guadagnare sui suoi avversari una dozzina di metri, fece fuoco sul caracal più vicino. L'animale mandò un acuto guaito e cadde.

Quasi nel medesimo istante anche il povero struzzo, colpito dalle palle di Esther e di Ben, stramazzò.

Udendo quegli spari, i caracal si erano arrestati guardando le tre nuvolette di fumo che s'alzavano dietro alla duna.

Vedendo comparire subito i cacciatori, abbassarono le code e partirono ventre a terra dalla parte donde erano venuti.

Frattanto lo struzzo, abbandonato dai compagni già lontanissimi, era tornato ad alzarsi. Fece ancora cinque o sei passi zoppicando, poi tornò a cadere e questa volta per non più rialzarsi.

Il marchese in pochi salti lo raggiunse, gli strappò un bel mazzo di piume candidissime e porgendole a Esther, le disse con galanteria:

“Alla bella cacciatrice.”

“Grazie, marchese,” rispose la giovane, arrossendo di piacere. Ben si era accontentato di sorridere.