I predoni del Sahara/Capitolo 20 - Le stragi del Sahara
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20 - Le stragi del Sahara
Un'ora dopo tutti i componenti la carovana, seduti su un tappeto, gustavano la deliziosa carne dell'uccello gigante, essendone stato arrostito un pezzo enorme da Rocco, bravo cuoco quanto abile cacciatore.
Il marchese vi aveva aggiunto alcune scatole di prosciutto ed una bottiglia, ed Esther un vaso di conserva di datteri squisitissimi ed alcune focacce di farina.
“Marchese,” disse ad un tratto la giovane, nel momento in cui El-Haggar serviva il caffè, “forse che gli struzzi vi hanno fatto dimenticare la vostra promessa?”.
“E quale?” chiese il corso.
“Mi avevate detto di narrarmi una storia terribile.”
“Il massacro della spedizione della signora Tinnè,” disse Ben.
“Una tragedia spaventevole, amici miei, provocata forse dagli stessi individui che stamane ci hanno dato la caccia,” rispose il marchese. “Si può dire che le sabbie del Sahara sono state ben bagnate di sangue europeo e che pochi sono stati i fortunati viaggiatori che le hanno attraversate incolumi.
“La signora Tinnè, bella, ricca assai e giovane ancora, era stata presa dalla passione dei viaggi. Prima d'inoltrarsi in questo deserto aveva già viaggiato sul Nilo esplorando regioni allora poco note, anzi vi aveva perduto la madre, uccisa dalle terribili febbri di quei paesi.
“Nel 1869, trovandosi nella reggenza di Tripoli, organizzava una carovana coll'intenzione di attraversare il deserto e di raggiungere il lago Tschad e poi Kano.
“Aveva preso con sé due marinai olandesi fidatissimi, cinque donne, tre schiavi liberati, il tunisino Mohamet-el-Kebir...”
“Un traditore,” disse El-Haggar, interrompendolo.
“Sì, e due ex sphai, è vero, El- Haggar?”
“Sì, signore, e me come guida.”
“La signora Tinnè s'era procurata delle raccomandazioni pei capi Tuareg, onde non incontrare ostacoli da parte di quei fieri predoni. Contava anzi molto sulla protezione d'un capo tribù di Gharbi.
“La coraggiosa donna s'avanzò quindi nel deserto raggiungendo felicemente l'oasi di Gharbi, ma colà si vide subito abbandonata, con un pretesto qualunque, da quel capo, e affidata alla protezione di un marabutto chiamato Hang-Amed.
“Poco tempo dopo essa veniva raggiunta da otto Tuareg che dicevano di aver ricevuto l'ordine di scortarla.
“La Tinnè che non dubitava d'un tradimento, accettò la scorta e riprese la marcia con ventisette arabi ed altrettanti cammelli, forza imponente che avrebbe dovuto tenere in freno i predoni, se tutti quegli uomini fossero stati fedeli.
“Al terzo accampamento dopo Murzuk, i Tuareg della scorta, quantunque avessero ricevuto ricchi regali, cominciarono a mostrarsi esigenti e ad assumere un contegno minaccioso. Si erano messi d'accordo col tunisino per spogliarla.
“Resi arditi dalla complicità di quel miserabile, chiesero alla viaggiatrice cinquanta talleri ed un burnus nuovo, minacciando in caso contrario di abbandonarla nel deserto. È così, El-Haggar?”
“Sì, signore,” rispose il moro. “Il tunisino, anima vile e perversa, era d'accordo con loro.”
“La Tinnè, donna energica e risoluta, rifiutò recisamente, promettendo però di fare loro altri regali quando la carovana fosse giunta salva a Scenukhen. Tuttavia, temendo qualche brutta sorpresa da parte di quei ladroni, fece rimettere al loro capo un presente di valore.
“Il giorno seguente i cammellieri, che si erano pure accordati coi Tuareg, cominciarono a dare segni d'insubordinazione, rifiutandosi dapprima di partire, poi sventrando alcuni otri.
“La Tinnè sospettò qualche cosa, perché si è saputo che aveva divisato di tornare a Murgest, ma l'infame tunisino fu così abile nel rassicurarla, da indurla a riprendere la marcia verso il sud.
“Il 1° agosto erano già giunti nella valle dell'Aberdisciuk, lontani dalle oasi abitate.
“La Tinnè aveva dato ordine dopo una notte tranquilla di levare le tende e di caricare i cammelli. Doveva essere l'ultimo ordine che dava; la sua morte era stata ormai decisa dai Tuareg e dal tunisino.
“Già stavano per rimettersi in marcia, quando una viva questione insorse fra due cammellieri, pel carico dei bagagli.
“Uno dei due marinai olandesi volle interporsi per rappacificarli. Un Tuareg si slanciò allora contro il disgraziato colla lancia alzata, gridandogli:
“«Che hai tu per immischiarti in una questione sorta fra mussulmani?»
“Aveva appena pronunciato quelle parole che il povero olandese cadeva al suolo trafitto.
“Il suo compagno, Ary Jacobs, che si trovava già a cavallo, si slanciò verso l'assassino tentando di afferrare il fucile che aveva appeso alla sella, ma prima che avesse potuto armarlo cadde a sua volta, sotto un colpo di scimitarra e uno di lancia.
“Alle grida delle donne e degli schiavi liberati, la signora Tinnè uscì dalla tenda, chiedendo che cosa succedesse.
“I Tuareg ed i cammellieri si erano già precipitati sulle casse e le saccheggiavano, credendo che fossero piene d'oro come aveva dato loro ad intendere il tunisino, mentre i servi fuggivano vigliaccamente in tutte le direzioni.
“La signora Tinnè comprese subito che la sua ultima ora era suonata, tuttavia cercò di calmare quei miserabili e d'imporsi colla propria energia.
“Un arabo, certo Hman, della tribù dei Bu Sef, le passò dietro e le vibrò coll'jatagan un colpo sulla nuca facendola cadere al suolo svenuta e sanguinante.
“Poche ore dopo la sfortunata signora spirava senza soccorso alcuno, mentre le sue ricchezze passavano nelle mani dei cammellieri e dei Tuareg. È così, El-Haggar?”
“Sì, signore,” rispose il moro.
“E tu non l'hai difesa?” chiese Esther, con indignazione. “Ti credevo più coraggioso, El-Haggar.”
“Io ero stato abbattuto da un colpo di lancia, la cui punta mi aveva trapassato la spalla,” disse il moro. “Quando tornai in me, dopo molte ore, la signora Tinnè era già morta.”
“Ed è rimasto impunito quell'assassinio infame?” chiese Ben.
“Furono arrestati i servi, ai quali i Tuareg avevano dato alcuni cammelli perché tornassero a Murzuk, ma gli altri scorrazzano ancora il deserto,” disse il marchese. “Anzi il dottor Bary incontrò più tardi l'uccisore della Tinnè nell'oasi di Ghat e lo udì ancora vantarsi di quel delitto.”
“E il tunisino?” chiese Esther.
“Di quel miserabile, che osò perfino spogliare la Tinnè mentre era ancora agonizzante, non si seppe più nuova.”
“Che canaglie!” esclamò Ben.
“Ah! Non è il solo delitto rimasto impunito,” disse il marchese. “Anche l'assassinio dei signori Dournaux Duperrè e di Joubert non è stato vendicato.”
“Chi erano costoro?” chiesero Ben ed Esther.
“Due coraggiosi francesi che si erano proposti di esplorare il Sahara al sud dell'Algeria e che furono vigliaccamente assassinati dai Tuareg.
“Avevano già visitato felicemente parecchie oasi del Sahara, Dournaux studiando e Joubert negoziando, perché era un abile trafficante, quando ebbero la malaugurata idea di prendersi una guida tuarik, certo Macer-Ben-Tahar, un traditore forse peggiore del tunisino della signora Tinnè.
“Si erano già molto inoltrati nel deserto, quando s'accorsero che quella guida cercava d'ingannarli e che per meglio riuscire nei suoi disegni cercava di allontanare la loro seconda guida, Amed-Ben-Herma, la quale invece aveva dato prove di fedeltà non dubbia.
“Decisero quindi di sbarazzarsene e giunti a Ghedames la denunciarono al cumacan. Fu un'imprudenza di certo ed il magistrato, che conosceva l'animo vendicativo dei Tuareg, non mancò di avvertirli del pericolo.
“Macer aveva infatti giurato di vendicarsi dei suoi ex padroni e non mancò alla promessa.
“I signori Dournaux e Joubert si erano allontanati da Ghedames di alcune giornate, quando si videro raggiungere da sei tuarik che parevano affamati e miserabilissimi.
“Avendo chiesto ai due francesi ospitalità con pianti e lamenti, furono ricevuti nel campo e provvisti di cibi. Erano sei assassini mandati dal vendicativo Macer. Di notte, mentre i due francesi dormivano, quei miserabili invasero la tenda e li trucidarono barbaramente a colpi di pugnale.”
“E nemmeno quei disgraziati furono vendicati?”
“I loro assassini scomparvero nell'immensità del deserto e più nessuno si occupò di loro.”
“Abbiamo fatto bene a dare loro quella severa lezione,” disse Rocco. “Se avessi saputo ciò prima, invece che sui cammelli avrei sparato contro gli uomini. Forse quei bricconi avevano preso parte all'assassinio dei signori Dournaux e Joubert e fors'anche a quello della missione Flatters e...”
Rocco si era bruscamente interrotto. I suoi sguardi si erano incontrati a caso con quelli del sahariano, ed era rimasto stupito dal lampo terribile che balenava negli occhi di costui.
“Che cosa avete, El-Melah?” chiese. “Perché mi guardate così?” Tutti si erano voltati verso il sahariano e rimasero colpiti dall'espressione cupa del suo volto.
“È nulla,” disse El-Melah, ricomponendosi. “Udendo questi racconti sanguinosi, ho avuto un'impressione sinistra.”
“Comprendo,” disse il marchese. “Avete assistito troppo di recente a una simile strage.”
“È vero, signore,” disse il sahariano. “Vado a riposare, se me lo permettete.”
S'alzò quasi a fatica e uscì dalla tenda con passo malfermo.
“Flatters!” mormorò coi denti stretti, gettando all'intorno uno sguardo smarrito. “Che non lo sappiano mai, almeno fino a Tombuctu.”
Alle tre del mattino, dopo un riposo di sei ore, il marchese faceva suonare la sveglia, desiderando giungere ai pozzi di Marabuti prima che il sole, che fra poco doveva mostrarsi, tornasse a scomparire.
Durante la notte nessun allarme era stato dato dagli uomini di guardia.
Alle quattro la carovana, dopo una leggera colazione, si rimetteva in cammino scendendo una immensa pianura che, in tempi certo antichissimi, doveva essere stata il fondo d'un vasto serbatoio d'acqua salata, a giudicare dalle masse di sale che si vedevano sparse fra le sabbie.
Il marchese e Ben si erano ricollocati alla retroguardia e Rocco come sempre all'avanguardia a fianco di El-Haggar.
Le vicinanze dell'oasi di Marabuti s'indovinavano facilmente pel numero considerevole d'animali che si vedevano correre in mezzo alle dune.
Di quando in quando, ma a grande distanza, e quindi fuori di portata dai fucili, si vedevano fuggire bande di struzzi e di grosse ottarde.
Talora invece erano truppe di sciacalli dalla gualdrappa, specie di cani selvaggi colla testa da volpe, gli orecchi grandissimi, gli occhi grossi, le code lunghissime, ed il pelame rossastro, fitto e morbido, che diventava giallognolo sotto il ventre, col dorso coperto da una specie di gualdrappa nera a strisce bianche, del più curioso effetto.
Al pari dei caracal questi sciacalli non sono pericolosi per gli uomini, tuttavia non mancano d'audacia e osano entrare perfino nei duar onde mangiare ai poveri montoni la grossa coda, un boccone squisito e molto apprezzato dai sahariani.
Anche qualche iena striata di quando in quando si mostrava sulla cima delle dune, facendo udire il suo riso sgangherato; ma all'appressarsi della carovana subito s'allontanava al galoppo.
A mezzodì El-Haggar, che si era spinto innanzi alcune centinaia di metri, segnalò una linea di palme, la quale spiccava vivamente sul purissimo orizzonte.
“L'oasi!” gridò, con voce giuliva. “Presto! là avremo acqua fresca e selvaggina!”
Anche i cammelli avevano fiutato la vicinanza dell'acqua. Quantunque stanchissimi, affrettarono il passo, mentre i mehari non si trattenevano che a grande stento.
“Ben,” disse il marchese, “precediamo la carovana. Sono impaziente di godermi un pò d'ombra e di bere una buona tazza d'acqua.”
“Sono con voi, marchese,” rispose l'ebreo.
Spronarono i cavalli, lanciandoli a corsa sfrenata.
Le palme ingrandivano a vista d'occhio, spiegandosi in forma d'un vasto semicerchio. L'effetto che produceva quel verde in mezzo alle aride ed infuocate sabbie del deserto era così strano, che il marchese stentava a credere d'aver dinanzi a sé delle vere piante e dubitava che si trattasse invece d'uno dei soliti giuochi del miraggio.
“Si direbbe che quell'oasi sia un'isola perduta sull'oceano,” disse a Ben.
“Ed è anche popolata, marchese,” rispose l'ebreo, rattenendo violentemente il cavallo. “Vedo dei cammelli, in mezzo a quelle piante.”
“Che appartengano a qualche carovana proveniente dalle regioni meridionali?”
“O che siano i nostri Tuareg? Possono averci preceduti e senza difficoltà, avendo tutti dei buoni mehari.”
“Se sono essi daremo battaglia e questa volta non saranno gli animali che cadranno.”
Ben non si era ingannato. Parecchi cammelli e mehari, montati da uomini vestiti di ampi caic bianchi e coi volti quasi interamente nascosti da pezzuole legate dietro la nuca, si erano schierati dinanzi ai gruppi di datteri e di palme che formavano l'oasi.
Non dovevano essere quelli che li avevano inseguiti, perché erano tre volte più numerosi e per la maggior parte armati di lance.
Anche gli uomini della carovana si erano accorti della presenza di quegli stranieri. Rocco ed El-Haggar accorrevano in aiuto del marchese e di Ben, l'uno col mehari e l'altro montato sull'asino.
Dieci Tuareg, preceduti da un uomo di alta statura che portava un turbante verde, un capo di certo, s'avanzavano tenendo le lance in pugno.
Quando giunsero a cento passi dal marchese, l'uomo dal turbante verde lo salutò con un “Salam-alek” molto cortese. Poi, assumendo improvvisamente un'aria spavalda, gridò:
“I pozzi sono occupati da noi e per ora ci appartengono: che cosa volete quindi voi, figli del sultano del Marocco?”
“Noi siamo assetati, desideriamo bere,” rispose El-Haggar. “L'acqua del deserto appartiene a tutti ed i pozzi sono stati costruiti dai nostri padri.”
“I vostri padri li hanno abbandonati ai Tuareg e noi li abbiamo occupati. Volete bere? Sia, ma l'acqua la dovrete pagare.”
“Che cosa chiedi?”
“Le vostre armi e la metà dei vostri cammelli.”
“Ladro!” gridò il marchese, che non poteva più frenarsi. “Ecco la mia risposta!”
Con un rapido gesto aveva alzato il fucile, mirando il capo.
Già il colpo stava per partire quando El-Melah, che era giunto guidando il cammello di Esther, si precipitò innanzi, gridando:
“Amr-el-Bekr, non mi conosci più? Pace! Pace!”